Quell’abbandono dell’amnistia che ha portato la sinistra all’abbraccio mortale con legalitarismo e giustizierismo

Libri – Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002

Amnistia e sinistra sembrano così aver definitivamente divorziato. La mutazione genetica è profonda. A cavallo tra il 1980 e il 1990, il Pci e i suoi eredi fanno del suo rigetto un elemento distintivo della loro legittimità istituzionale. Male, colpa e vittima, assunte a nuove categorie di una visione morale del mondo relegano la politica in luoghi reconditi e infimi. Fatti sociali ritmati da una periodicità storica, che consentiva la possibilità di un loro riassorbimento, vengono inclusi in una metafisica e immutabile nozione di male, categoria suprema che destoricizza e desocializza gli eventi, sacralizzandoli

Paolo Persichetti
Liberazione
mercoledì 2 marzo 2005

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Foto di Valentina Perniciaro

«Secondo me, amnistia è la parola più bella del linguaggio umano». Così si esprimeva Gauvin, il personaggio che in Quattre-vingt-treize Victor Hugo oppone al giacobino Cimourdain e al vandeano Lantenac, riconoscibili per la loro marcata propensione alla rappresaglia che aveva trasformato la spirale rivoluzione-controrivoluzione in una vendetta infinita. Dopo i massacri e la repressione seguita ai moti del 1848 ed ancora di più sulle ceneri della Comune, radicali, socialisti e blanquisti, cioè l’ala più progressista della borghesia e le prime organizzazioni politiche del movimento operaio, si riorganizzano attorno alla parola d’ordine dell’amnistia, sulla quale fondano o rifondano la propria esistenza fino a farne una leva di liberazione più generale, come ricorda il libro di Stéphane Gacon, L’Amnistie, Seuil 2002. La sinistra politica e sociale ricostruisce la propria legittimità grazie alla battaglia per l’amnistia che diverrà per buona parte del Novecento uno dei repertori più utilizzati, un vero e proprio segno identitario anteposto alle politiche repressive dello Stato, all’azione della magistratura e delle forze di polizia.
Dopo un lungo secolo segnato da traumatici cicli di rivoluzione e restaurazione, proscrizioni e repressioni, l’amnistia irrompe nell’universo politico e mentale della corrente repubblicana di fine ottocento. Essa diventa una delle «pietre miliari» – come dirà lo stesso Léon Gambetta – sulla quale viene edificata la terza Repubblica francese. Facendovi ricorso, i repubblicani d’osservanza moderata mirano a dare un compimento definitivo alla rivoluzione borghese, trasformandola da perpetua insurrezione costituente in potere finalmente costituito. L’amnistia contribuisce a creare un legame fondamentale tra passato, presente e futuro. La nazione repubblicana non può, infatti, concepirsi senza un passato condiviso. Questa illusione originaria è il fondamento del mito repubblicano costruito sull’unità della nazione e sulla partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica.
Anche la sinistra parlamentare ritiene l’amnistia il primo gesto simbolico da realizzare per avviare quella «repubblica sociale» dove possano coabitare tutte le correnti di pensiero.
6944031 I nemici dell’amnistia sembrano invece rimasti uguali nel tempo. I loro discorsi e le loro rappresentazioni appaiono immutate. Tratteggiano trame ordite da agenti di un complotto straniero che dopo la Comune chiamava in causa l’attività dell’Internazionale, mentre per i nostri anni Settanta guardano al Kgb o alla Cia, e più recentemente alla Dgse francese, secondo le diverse scuole di pensiero e parrocchie politiche. Anche solo evocare un’ipotesi d’amnistia indigna profondamente. La giustizia deve sempre seguire il suo corso fino in fondo, sfoggiando pene esemplari. Allora come oggi, l’appello alla severità accomuna ambienti della destra e della sinistra. All’epoca la riprovazione maggiore si rivolse contro le pétroleuses, queste nuove streghe dell’Ottocento accusate di aver appiccato incendi con le lampade a petrolio. Molte di loro furono fucilate senza processo. I parigini insorti vennero descritti come un «pugno di scellerati dagli ideali sanguinari e rapaci» (Journal officiel del 22 marzo 1871). La stampa si adoperò per presentare la Comune come una grande impresa di brigantaggio, trasformandola in un informe coacervo di crimini di diritto comune. La spoliticizzazione degli eventi resta il grande fondamento di ogni diniego d’amnistia.
«La guerra civile è una specie di reato universale», rispose Victor Hugo, ma la vendetta fu sorda e inesorabile e si annunciò col discorso sulla fermezza delle genti oneste pronunciato da Auguste Thiers il 22 maggio 1871, all’inizio della settimana di sangue: «Noi siamo le genti oneste; giustizia sarà fatta con metodi regolari. Solo la legge interverrà, ma sarà eseguita col massimo del rigore[…] l’espiazione sarà completa, ma sarà, lo ripeto, l’espiazione che le genti oneste devono infliggere quando la legge lo esige, l’espiazione in nome della legge e attraverso la legge». Le oneste truppe delle genti oneste realizzarono decine di migliaia di esecuzioni sommarie nelle strade e più di 43 mila arresti. Circa 50 mila saranno le decisioni di giustizia, più di 80 le condanne a morte emesse dalle corti militari. Diecimila i proscritti e migliaia i deportati. Le corti speciali agirono convinte di avere una missione religiosa da riempire, un ideale etico, un ruolo combattente: estirpare il male dalla società, offrire un esempio per l’avvenire, una prova di purificazione redentrice.
I salvati della Comune non dimenticarono i sommersi e così la sinistra sociale si riorganizzò attorno alle «elezioni incostituzionali», presentando ripetutamente Auguste Blanqui come il candidato dell’amnistia. A Bordeaux, nel 1879, questi vinse addirittura su un repubblicano moderato. Nei lunghi decenni successivi, oltre ad essere lo strumento col quale il movimento operaio cercherà di tutelare dalle repressioni giudiziarie i propri cicli di lotta, l’amnistia diventa una solare parola di libertà e speranza, legata a una visione del mondo nutrita di tolleranza, fraternità e solidarietà.
Ma alla fine del XX° secolo, l’amnistia perde quella legittimazione che ne aveva fatto un mezzo necessario ed efficace per sottrarre il conflitto alla violenza e ricondurlo sui binari del confronto politico. Male, colpa e vittima, assunte a nuove categorie di una visione morale del mondo relegano la politica in luoghi reconditi e infimi. Fatti sociali ritmati da una periodicità storica, che consentiva la possibilità di un loro riassorbimento, vengono inclusi in una metafisica e immutabile nozione di male, categoria suprema che destoricizza e desocializza gli eventi, sacralizzandoli.
Amnistia e sinistra sembrano così aver definitivamente divorziato. La mutazione genetica è profonda. A cavallo tra il 1980 e il 1990, il Pci e i suoi eredi fanno del suo rigetto un elemento distintivo della loro legittimità istituzionale. Essa è ormai presentata come un diniego di giustizia nei confronti d’episodi che volutamente non vengono più riconosciuti come politici, benché siano stati repressi con l’ausilio di strumenti giuridici che perseguono il delitto politico per eccellenza. Nell’affrontare gli anni Settanta, la letteratura di partito si colora d’accenti che ricordano i toni foschi delle pagine versagliesi o le paranoie complottiste della destra legittimista. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone volentieri la venerazione della memoria trasformata nel culto di un dolore che non cicatrizza ma cristallizza il passato, tiene aperte le ferite trasformandole in piaghe. La democrazia concepita come stadio finale della storia depoliticizza il conflitto e criminalizza il nemico interno, diventando l’alibi supremo contro ogni possibile ricorso a soluzioni amnistiali. La finzione che presuppone il gioco democratico moderno, ovvero quel volersi proporre come il compimento stesso della politica, il grado più elevato della sua capacità inclusiva, si trasforma in una gabbia totalitaria, incapace di concepire l’altro da se. Evocare l’amnistia equivarrebbe a voler riconoscere la persistenza di conflitti di fondo, la presenza di una disarmonia politica. Abbandonare quest’ipocrisia, accettare l’idea del conflitto, è forse l’unica residua possibilità capace di calare di nuovo l’idea di democrazia tra le rughe della storia, consentendo di recuperare quei necessari strumenti di ripoliticizzazione delle controversie, dopo aver affrontato traumatiche fasi di divisione e scontro. Altrimenti le democrazie si vedrebbero condannate ad un insanabile paradosso: ribadire la figura del nemico irriconciliabile nel momento in cui vorrebbero affermarsi come un modello di superamento dell’inimicizia politica.

Per saperne di più
Amnistia per gli anni 70
L’amnistia Togliatti
La fine dell’asilo politico
Una storia politica dell’amnistia
Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità d’Italia ad oggi

2 pensieri su “Quell’abbandono dell’amnistia che ha portato la sinistra all’abbraccio mortale con legalitarismo e giustizierismo

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