«Gli anni 70? E’ ora di affidarli agli storici»

L’Intervista – Parla Marc Lazar che insieme a Marie-Anne Matard-Bonucci ha diretto, Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo in italia, Rizzoli 2010


Paolo Persichetti
Liberazione 30 marzo 2011

La scuola di giornalismo della fondazione internazionale Lelio Basso ha promosso di recente un corso di approfondimento dal titolo, «Lo stragismo in Italia da piazza Fontana a via d’Amelio». Il ciclo di conferenze – hanno spiegato gli organizzatori – ha per obiettivo quello di analizzare «La violenza politica come nodo interpretativo della vicenda repubblicana». Tuttavia volgendo un rapido sguardo al programma si resta colpiti dalla singolare riduzione di significato attribuita alla nozione di “violenza politica”. Non vi è più traccia di legami con le dinamiche dell’azione collettiva e dei conflitti sociali, scompare l’analisi del contesto socio-economico, non si tengono nella dovuta considerazione le influenze di natura culturale e ideologica. Eppure, sarebbe bastato guardare alle ore di sciopero, al numero di manifestazioni e picchetti realizzati in alcuni passaggi salienti del dopoguerra italiano, rileggere giornali e riviste dell’epoca per capire il nesso profondo che lega l’emergere della violenza politica ai conflitti sociali.
Per la fondazione Basso, invece, tutto si riconduce al «fenomeno stragista sviluppatosi come “strategia della tensione” alla fine degli anni 60 e riemerso (caso unico in Europa) in tutta la sua drammaticità dopo la fine della guerra fredda ad inizio anni 90». Si ripropone, in sostanza, l’ennesima vulgata complottista e autoconsolatoria aggiornata agli attentati di mafia dei primi anni 90, al papello di Riina, alla trattativa tra Stato, nella veste del “signor Franco”, e Vito Giancimino per conto di Bernardo Provenzano, almeno stando alle ultime ricostruzioni fornite dal figlio di Giancimino, Massimo, prese sul serio dalla procura di Palermo ma non da quella di Caltanissetta. Una rappresentazione che pretende di racchiudere in un’unica trama criminale fatti lontani, diversi, opposti e conflittuali, per natura, cause, moventi e fenomenologia.
Di questa difficoltà a fare la storia degli anni 70 abbiamo parlato con Marc Lazar, professore di storia e sociologia a Sciences Po-Parigi e alla Luiss, che insieme a Marie-Anne Matard-Bonucci ha curato un interessante lavoro multidisciplinare sugli anni 70 pubblicato nel settembre scorso da Rizzoli: Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano (tradotto dall’edizione francese uscita presso l’editore parigino Autrement).

Nella introduzione affermate che «Gli storici studiano il terrorismo italiano da poco». Perché questo ritardo?
All’inizio ci sono state le investigazioni giornalistiche, con inchieste soprattutto interessate a cercare i legami con Kgb, Cia, insomma la cosiddetta “dietrologia”. Poi sono venute le commissioni parlamentari che hanno fatto un lavoro a volte abbastanza interessante. Ma è stato come se gli storici avessero delegato ai politici il proprio mestiere. Una supplenza pericolosa. Successivamente è arrivato il momento delle testimonianze con le autobiografie di alcuni militanti della lotta armata e di chi era sul fronte opposto. Da un po’ di tempo hanno preso la parola i figli delle vittime o degli attori: Calabresi, Tobagi, Rossa, e dall’altra parte Anna Negri. Credo che ora sia giunto il momento degli storici. Anche se non va dimenticato che già in passato ci sono stati lavori importanti che purtroppo sono rimasti confinati nel limbo dei pionieri. Oggi ho l’impressione che si stia aprendo una nuova fase. Sono colpito dalla presenza di giovani ricercatori italiani e francesi che si rivolgono a questo periodo con uno sguardo molto diverso dal nostro. Sicuramente chi ha partecipato a quegli anni proverà un grosso malessere di fronte all’impatto delle nuove ricostruzioni che forniranno questi giovani.


Perché ci sono voluti 40 anni?
Questo ritardo ha diverse spiegazioni: molte ferite sono ancora aperte, sia da parte dello Stato che di quelli che hanno fatto la scelta della lotta armata. Non dimentichiamo poi le vicende dell’estrema destra, lo stragismo. Il comportamento della giustizia ha mostrato l’esistenza di due pesi e due misure: molto più duro con la sinistra armata, meno con la destra stragista. C’è poi una grossa difficoltà ad accettare l’idea che negli anni 70 la violenza non sia rimasta limitata solo a piccoli gruppi. Al di là dei giudizi negativi che si possono dare, questa violenza politica esprimeva comunque qualcosa che era presente nella società. E’ stata uno specchio dell’Italia, una sorta di autobiografia del Paese. Questa constatazione ha suscitato reazioni molto dure, soprattutto a sinistra. Eppure La storia degli anni 70 non si può ridurre al peso, seppur importante, delle ideologie, o alla scelta strategica dell’uso della violenza da parte di alcuni gruppi. Si tratta di capire le ragioni profonde che hanno favorito quella parte di consenso raccolto dentro la società dalla minoranza armata. In fondo l’Italia è l’unico Paese europeo in cui si è verificato un periodo così lungo di conflitto violento e con dimensioni sociali tanto ampie. Per questa ragione diversi contributi presenti nel libro, come quello di Isabelle Sommier, cercano di ripensare il rapporto tra violenza sociale e politica non solo negli anni 60-70 ma anche in una prospettiva più lunga. La nostra ambizione era di fare una storia politica, sociale e culturale, mettendo assieme i vari aspetti.

Come spieghi questo perdurare delle teorie dietrologiche?
C’è una grande difficoltà a capire che una protesta sociale può avere un rapporto con la violenza e avere sbocchi politici. E’ un po’ la stessa incapacità a comprendere la natura del berlusconismo, il suo essere ormai un fenomeno sociale profondo e non il semplice risultato di una manipolazione dei media. Con questo lavoro abbiamo posto la prima pietra sulla necessità di fare storia dopo tanta dietrologia e letteratura scandalistica. Anche perché sono passati 30-40 anni e cominciano ad esserci un po’ di archivi disponibili. Non tutti sfortunatamente.

Questa presenza francese, prima con la dottrina Mitterrand ora con la scrittura della storia, non potrebbe suscitare qualche malumore?
Anche in Francia è accaduto qualcosa del genere con la storia di Vichy. Solo grazie al contributo dello storico americano Robert Paxton è stato possibile il rinnovamento completo dell’interpretazione storiografica di quel periodo. Forse un contributo straniero può essere utile quando c’è una situazione così intrecciata. La verità è che noi francesi ci siamo ritrovati dentro questa storia, siamo stati attraversati da queste vicende. Era quindi necessario tentare di andare oltre i malintesi franco-italiani. Nel volume diversi contributi spiegano come i francesi abbiano interpretato a caldo gli anni 70, sia sul piano politico che intellettuale. C’è un saggio di François Dosse su Gilles Deleuze e Felix Guattari che appoggiarono il movimento del ’77 e il convegno di Bologna contro la repressione. Abbiamo poi cercato di conoscere la visione dei giuristi francesi sullo stato di diritto in Italia e tentato di ricostruire la cosiddetta dottrina Mitterrand.

Cosa è emerso?
Mancano ancora gli archivi italiani e buona parte di quelli francesi, tuttavia possiamo dire che non si è trattato di una dottrina giuridica ma di una politica. A seconda delle fasi e dell’interlocutore che aveva davanti, Mitterrand ha assunto posizioni contraddittorie. Disse che la Francia avrebbe fornito protezione senza introdurre esclusioni tra i militanti italiani degli anni 70, se questi nel frattempo avessero abbandonato la violenza politica; in altre occasioni aggiunse che questa protezione non riguardava chi era accusato di crimini di sangue. All’inizio si sono manifestati contrasti nel governo. Alcuni avevano posizioni “più comprensive”, altri “più dure” perché temevano il possibile legame tra militanti italiani e componenti del terrorismo corso o basco. Circostanza che dimostra come la “dottrina Mitterrand” abbia preso le mosse da problemi di gestione dell’ordine pubblico interno prim’ancora che da questioni diplomatiche. La vera novità arriva tuttavia dalla scoperta del ruolo decisivo giocato dal presidente del consiglio Bettino Craxi che, come ha documentato Jean Musitelli che ha avuto a disposizione l’archivio Mitterrand, per ragioni di politica interna invitò in più occasioni Mitterand a tenersi i latitanti italiani.

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2 pensieri su “«Gli anni 70? E’ ora di affidarli agli storici»

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