Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta
 Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Biondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia


Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Biondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.


Nei report desecretati dell’amministrazione statunitense si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga
nquesta tesi, Biondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.

I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.



Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979. Si tratta della «Operazione Olocausto», un militante di Botteghe oscure (sede nazionale del Pci), nome in codice «Fontanone», ebbe un ruolo fondamentale nel permettere di agganciare alcuni dirigenti della colonna romana. Altri militanti del Pci fecero da «esche» nelle fabbriche del Nord Italia per permettere la cattura di esponenti brigatisti che cercavano di ricostruire la colonna torinese. L’unico infiltrato ad oggi conosciuto, che riuscì ad entrare nell’organico della colonna veneta delle Br per due anni, 1975-76, fu un operaio di Porto Marghera, Leonio Bozzato, nome in codice «Frillo», arruolato anni prima dal centro Sid di Padova, quando militava in un gruppo marxista-leninista, e successivamente inserito all’interno dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Difficilmente ascolterete queste cose nel corso della puntata di Report, se volete saperne di più, oltre al libro diu Ceci si consiglia la lettura di La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2021.

Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner

Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse

Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sugli scenari complottisti che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne, in particolare atlantiche, al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est.
Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola nei confronti dei “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito, su richiesta degli stessi comunistin italiani, a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.

Terrorismo interno o internazinale?
L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter e alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3)
Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo la notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che giunse a Roma il 3 aprile 1978 (dopo il trezo comunicato brigatista nel quale si annunciava la collaborazione di Moro all’interrogatorio) e operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe. La permanenza dell’esperto americano fu molto breve, convintosi della inutilità del suo contributo, rientrò negli Stati uniti il 16 aprile successivo, dopo appena 13 giorni.

Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse
Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che nel settembre 1978 giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4)

L’operazione Stark
L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979 con una motivazione redatta dal giudice Floridia in cui si riconosceva la sua collaborazione con la Cia. Il suo compito sarebbe stato quello di avvicinare all’interno delle carceri alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati perché già dal 1977 i Br erano stati tutti trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Se l’operazione di infiltrazione prese avvio alla fine del 1978 – come afferma Gardner – per Stark fu impossibile avvicinarli. Dalla documentazione della Direzione generale degli istituti di pena viene fuori che Stark fu rinchiuso nelle carceri di Modena, Pisa, Matera, Rimini e che nell’ultimo periodo della sua detenzione si trovava a Bologna. Prigioni estranee al circuito delle carceri speciali e che dopo il 1977 non accolsero più al loro interno brigatisti. Dalla stessa documentazione risulta che l’unico periodo in cui Stark, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, si trovò ristretto nello stesso istituto di pena dove erano anche altri brigatisti fu il 1975 nel carcere di Pisa, poco dopo il suo arresto, tre anni prima che le Brigate rosse entrassero nel mirino dell’agenzia di Langley. Ammesso che fosse lui l’agente provocatore reclutato negli ultimi mesi del 1978, gli americani erano davvero in seria difficoltà se l’unica risorsa messa in campo per la loro strategia era riposta in un improbabile personaggio, un narco trafficante tenuto a debita distanza dai sospettosi brigatisti incarcerati che al massimo si trovarono a condividere, come riferisce Curcio nel suo libro, A viso aperto, il passeggio dell’aria con uno che cercava di attaccare bottone. Il racconto che Curcio fa dell’episodio (Stark gli propose durante il passeggio di organizzare una evasione dal carcere) lascia supporre che lo statunitense lavorasse già da confidente per il Ministero dell’Interno. In effetti Gardner afferma che l’operazione fu condotta di concerto con i Servizi italiani. Risulta, infatti, che funzionari del Ministero dell’Interno ebbero ripetuti incontri con lui nel carcere di Matera: tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore di diversi nappisti e brigatisti, tra cui Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente provocatore fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria che dopo la scarcerazione venne nuovamente arrestato e trovato in possesso di una cartina relativa ad un campo palestinese in Libano di cui era indicato il nome del responsabile e che risultò fornitagli dall’americano.

Note
1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6.
2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS.
3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84.
4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.

L’archivio Flamigni e l’uso pubblico della storia

Sabato 16 marzo introducendo un articolo di Marco Clementi sulla bruciante passione che arde nell’animo degli «storici da bar» ossessionati dal rapimento Moro mi soffermavo su una particolare categoria che arricchisce la folta schiera dei ciarlatani del caso Moro, ovvero i «burocrati della memoria».
A titolo di esempio riportavo un recentissimo episodio accaduto nel corso di una lezione tenuta in una università romana da una nota responsabile di un archivio che si occupa di «terrorismo e anni 70». Non facevo nome e cognome della persona e non citavo con precisione i luoghi dove questa lezione si era tenuta non certo per reticenza, «al fine di meglio manipolare quanto detto», come è stato scritto contro di me, ma per evitare una eccessiva personalizzazione perché quel che conta era il peccato e non il peccatore, come recita un vecchio adagio. Mi interessava attirare l’attenzione sulle parole dette (non sull’autrice di quelle parole) e sui dispositivi burocratici e politici che sono stati realizzati per diffondere una memoria istituzionale su quel periodo ricorrendo ai canoni e strumenti tipici dell’uso pubblico della storia.

Nel frattempo l’autrice di quelle parole ha fatto outing smentendo recisamente quanto da me scritto, ovvero che «in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no».

Stiamo parlando di alcune affermazioni fatte dalla signora Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, promotrice e curatrice della Rete degli archivi per non dimenticare (spero di non aver sbagliato nulla nel citare i titoli di merito), che «in collaborazione con la Regione Lazio e l’Università di Roma Tre, offre agli insegnanti delle scuole secondarie di secondo grado un corso di formazione gratuito Non solo “anni di piombo” – L’Italia degli anni Settanta, la politica, le riforme, i terrorismi». Corso che, se ho letto bene, sarebbe alla sua seconda edizione. La signora Moroni, nome che aleggia nella cronaca giudiziaria di questi giorni, sostiene che il corso non sarebbe finanziato dalla regione Lazio. Prendiamo atto per ora delle sue parole, se poi magari può spiegarci cosa significa «collaborazione» e cosa la distingue da un semplice patrocinio le saremmo grati, certo è che nel bilancio 2022 della Regione Lazio l’Archivio Flamigni ha ricevuto per le sue attività un obolo di 60 mila euro.
Ma veniamo al merito delle affermazioni fatte durante la lezione: dopo la smentita della signora Moroni la mia fonte che ha assistito al corso mi ha riconfermato ogni cosa («30 brigatisti in via Fani», «fuga per i prati», «presenza del colonnello Guglielmi», «prima prigione in via dei Massimi»), salvo un punto oggetto di malinteso tra noi due quando mi aveva riferito la prima volta l’accaduto, ovvero che la signora Moroni non aveva mai detto di non essere mai stata in via Fani. Recepito ciò, non ho alcun problema a correggere il mio piccolo errore, ed a scusarmi per questa imprecisione, per la semplice ragione che non mi chiamo Sergio Flamigni, campione dei pesci in barile. Sempre la mia fonte precisa che le affermazioni di cui sopra sono avvenute nella fase finale della lezione durante le domande e risposte provenienti dal pubblico, come per altro avevo già accennato.

A questo punto però davanti alla replica scritta della signora Ilaria Moroni quanto detto nel corso della lezione passa in secondo piano per la semplice ragione che la responsabile dell’archivio Flamigni ribadisce nero su bianco molte delle cose dette, con questo confermando il racconto della mia fonte e la veridicità di quanto avevo scritto. In particolare la signora Moroni conferma quello che secondo la sua personalissima ricostruzione dei fatti sarebbe il numero dei brigatisti coinvolti, circa 30: «nella gestione dell’intero sequestro, vie di fuga e covi compresi, il numero complessivo dovrebbe orientarsi intorno ai 30».

Ho già spiegato che si tratta di un numero abnorme, molto più del triplo dei regolari presenti nella colonna romana dell’epoca. Non c’è qui lo spazio per un adeguato approfondimento, ma è ampiamente noto che a condurre l’inchiesta e realizzare l’agguato fu sostanzialmente la Brigata della “Contro” della colonna romana (che era tutta in via Fani fatta eccezione per Etro e Faranda che ebbero altri ruoli), supportata da alcuni membri della direzione di colonna e della direzione nazionale. E se è vero che nel corso dei 4 processi portati a termine sono state condannate 27 persone, è storicamente accertato che solo 15 di queste hanno avuto un ruolo effettivo a vario titolo nella vicenda, più una sedicesima assolta perché all’epoca dei processi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Gli altri 12 non ebbero alcun ruolo: i 5 della brigata universitaria tirati in ballo perché custodirono la Renault 4; i tre – compreso Triaca torturato dopo l’arresto – legati alla tipografia di via Pio Foà e alla base di via Palombini; due membri del fronte logistico romano e altri due del fronte di massa nazionale totalmente fuori dalla vicenda.
Ventitre della ventisette persone vennero condannate alla fine del primo processo Moro, le altre quattro furono giudicate nei successivi processi grazie alle indicazioni fornite da Morucci e Faranda nel loro memoriale (e in altri verbali), della cui esistenza (il memoriale) sapevano oltre a Cossiga anche il dirigente del Pci Ugo Pecchioli. La signora Moroni dovrebbe saperlo e soprattutto scriverlo, visto che dirige un archivio. Il memoriale oltre a consentire alla giustizia di affibbiare altri tre ergastoli, permise ai suoi autori di ottenere ulteriori sconti di pena, in aggiunta a quelli introdotti dai decreti premiali speciali Cossiga alla fine degli anni 70. La legge sulla dissociazione del 1987 venne varata con l’apporto politico e il contenuto giuridico decisivo del Pci, insieme alle altre forze del fronte dell’emergenza. Corollario di quella legge fu la riforma Gozzini, Mario Gozzini era un indipendente di sinistra eletto nelle liste del Pci. Tutte cose che Ilaria Moroni immagino abbia spiegato durante i corsi di formazione da lei tenuti.

Dopo aver dato i numeri la responsabile dell’archivio Flamigni attribuisce a Mario Moretti cose mai dette, traendo così una conclusione priva di fondamento logico e fattuale: ovvero che a sparare in via Fani dovevano essere in sei. Nel libro con Rossanda, Moretti parla solo di quattro compagni che dovevano fare fuoco (i quattro con le divise dell’aviazione civile nascosti dietro le fioriere del bar Olivetti), due più di quanto normalmente necessario a causa dell’alto rischio di reazione della scorta: due per machina anziché uno. Come si possa arrivare a sei non si capisce. La balistica dice che hanno sparato in tutto 5 persone con sette armi: quattro pistole mitragliatrici e due pistole appartenenti ai 4 Br, più la pistola di un agente. Nessuna fonte di tiro da destra, salvo gli spari del poliziotto della scorta. Il fuoco incrociato evocato dalla Moroni esiste solo nei film dei supereroi. Una volta terminate le raffiche vi fu un aggiramento finale verso destra del brigatista più in alto che sparò con la sua arma personale. Leonardi fu colpito sul lato destro del corpo dopo la torsione del busto verso sinistra, proteso in difesa di Moro. Ma si tratta di cose già dette, ridette, ribadite all’infinito. Un disco rigato. Sinceramente roba noiosa che serve ad aggirare solo le vere domande politiche e storiche che quella vicenda solleva.

Ci sarebbe molto altro da dire: sapere perché per anni il senatore Flamigni ha tenuto nascosto il verbale di D’Ambrosio, citandone solo una brevissima parte che ne travisava il contenuto per rafforzare la sua tesi di un coinvolgimento del colonnello Guglielmi nell’azione di via Fani o rivelare come Flamigni acquisì dalle mani dei fascisti della rivista “Area” il materiale utilizzato per costruire le fake news su via Gradoli. O la figuraccia fatta con il teste Marini scoperto a dire bugie sul parabrezza del suo motorino e sulla moto Honda. Testimonianza di cui Flamigni è stato il più fervente sostenitore per anni. Non abbiamo mai letto una parola che riconoscesse l’errore, ammettesse l’abbaglio. Abbiamo visto soltalto ridursi con passare delle edizioni dei suoi libri il numero di righe e l’importanza dedicata alla vicenda che da centrale si è fatta nella sua narrazione via via più periferica. Per non parlare del quarto uomo di via Montalcini, di cui aveva saputo da una confidenza di due brigatisti dissociati, che lo avevano portato a ritenere si trattasse finalmente della prova della presenza di figure estranee alla Br nel sequestro.

Quando venne fuori l’identità di Germano Maccari, dopo l’iniziale disorientamento Flamigni sostenne che «allora doveva esserci un quinto uomo». Ammettere l’errore, recepire il fallimento di una ipotesi e correggere la propria versione, ripensando integralmente la propria posizione, non appartiene al suo orizzonte culturale, alla sua onestà intellettuale. Tante omissioni di verità e deformazioni dei fatti di cui Flamigni è stato grande maestro nei decenni trascorsi. Ma ci sarà modo e occasione per farlo in modo adeguato.

Concludo rilevando che la signora Moroni segnala ai suoi lettori come io mi sia recato una volta in archivio Flamigni in quel di Oriolo romano. Controllare i miei movimenti deve essere una sua particolare ossessione: ricordo la volta che su fb diede l’allarme perché mi aveva avvistato presso l’Archivio centrale dello Stato. Immagino che questo si spieghi col fatto che la signora Moroni mi consideri più un ricercato che un ricercatore.

Sequestro Moro, i tempi della storia e quelli della cronaca

I ciarlatani del caso Moro, quelli che Marco Clementi definisce «storici da bar» hanno riempito in questi decenni scaffali di librerie con le loro pubblicazioni, fatto uscire articoli a pioggia sulla stampa (ancora oggi ne sono apparsi un paio), realizzato trasmissioni televisive, Report su tutti ma anche lo scomparso Purgatori non scherzava, dando vita a surreali commissioni parlamentari, ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare con dichiarazioni alle agenzie membri del governo attuale. Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi- resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.

La burocrazia della memoria
La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni 70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio. L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no.
Le istituzioni hanno creato una burocrazia della memoria pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale. L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni 80 e 90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo. Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti. I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria. Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.

di Marco Clementi, Domani 16 marzo 2024

Non avrà mai fine l’annosa ricerca di una singola prova, una contraddizione, un elemento di dubbio, capace di far crollare come un castello di carte la narrazione non dietrologica sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Gli storici, si può osservare, dovrebbero essere contenti: la ricerca, infatti, non si può fermare e ogni nuovo apporto non può che arricchire i precedenti. Teoricamente è così. In pratica non sempre questo accade: si pensi al revisionismo attuato in Russia sulla storia sovietica e la figura di Stalin, per fare solo un esempio. Gli storici in questo caso sono stati messi a tacere e la revisione storica è diventa una questione di Stato.
Per quanto riguarda il caso Moro e più in generale la storia delle Br (o se si vuole la sua contro-storia), il dibattito spesso non si svolge tra storici e la cosa che pone una serie di problemi metodologici molto seri. Si potrà obiettare che storcere troppo il naso se un giornalista scrive un libro di storia non è una buona cosa. Infatti, esistono giornaliste e giornalisti che hanno studiato, scritto e analizzato questioni storiche in modo molto professionale, aprendo nuove prospettive di riflessione. Con il caso Moro, però, questo è accaduto molto di rado.

Un popolo di storici e ct
Tutti gli appassionati di calcio si sono sentiti commissari tecnici della nazionale almeno una volta nella vita. Tutti hanno fatto la propria formazione, criticato scelte, convocazioni e cambi, pensato che se ci fossero stati loro in panchina quella partita sarebbe finita diversamente. Peccato che nessuno è stato mai chiamato dalla Federcalcio ad allenare la nazionale. Per allenare serve un patentino, si devono frequentare corsi a Coverciano ecc.. In una parola, bisogna essere professionisti che conoscono il linguaggio del campo e hanno esperienza decennale. Non ci si improvvisa e soprattutto agli improvvisati nessuno dà un lavoro.
Quando capita di discutere di storia al bar (o sui social), è facile perdere. Qualsiasi cosa si dica, infatti, viene ribattuta con riferimenti fumosi e frasi ipotetiche da chi discute non per capire meglio, ma per imporre la sua tesi di partenza. Le argomentazioni, anche le più precise, non sono prese in considerazione. Al limite, non le ascoltano proprio. È così e basta. Rispetto alle fonti (archivi, bibliografie, saggi ecc.) l’interlocutore propone un paio di articoli di giornali o, quando va bene, un libro (che, sebbene pieno di sciocchezze, almeno è un libro). Conosce particolari mai sentiti, ma non è in grado di fare un discorso di ampio respiro per esempio sulla politica estera inglese durante il XIX secolo, sulle relazioni tra Italia e Germania tra le due guerre, sulle fasi della Shoah, sul nazionalismo ecc.

L’uso politico dei misteri
Con il caso Moro avviene la stessa cosa. La produzione saggistica è piena di autori/autrici improvvisati. Hanno letto qualcosa, intuito una pista, trovato qualche riferimento (tralasciando gli altri mille) e si sono messi a scrivere che le cose non sono andate come sembra perché c’era questo e quello e poi la Cia o l’andrangheta, il Kgb o la P2 e dio solo sa ancora chi altri.
Tutte le volte che qualcuno ha preso sul serio queste note e ha cercato riscontri documentali, ha finito per dimostrare la fumosità delle stesse. Che, peraltro, ritornano anche a distanza di anni per cui, dato che i lettori si sono dimenticati (giustamente) che un decennio o un ventennio prima si era già discusso della cosa, i ricercatori sono costretti a ricominciare da capo in un gioco dell’oca infinito dove si ritrovano sempre al punto di partenza. La storia non compie alcun passo in avanti e prevale sempre la cronaca, che seziona una giornata chiave dei 55 giorni in ore, minuti e secondi, ricerca quale funzionario di pubblica sicurezza sia arrivato prima e quale dopo, chi c’era e se non c’era come faceva a sapere ecc. ecc. La storia è colpita al cuore dalla cronaca e gli studiosi sono sommersi e emarginati dalle congetture e dall’uso politico dei misteri.

I tempi storici e quelli della cronaca
Inevase restano le grandi domande del caso Moro, che sono, in ordine sparso, il ruolo dello Stato italiano e la sua preparazione o impreparazione, il ruolo dei partiti, la strategia delle Br e la congruità del rapimento di Moro con la storia passata dell’organizzazione, la concomitanza del processo di Torino, le reazioni internazionali, il ruolo del Vaticano, le reazioni del movimento, quelle del mondo operaio, le opzioni di sviluppo della vicenda, gli spazi per una trattativa, le conseguenze politiche del rapimento (vedi voto di fiducia al IV governo Andreotti che fino alla sera prima il Partito comunista non voleva in quella formazione) e quelle dell’uccisione dell’ostaggio. Ci sarebbero poi i processi, la storia delle commissioni di inchiesta, dell’associazione delle vittime del terrorismo, la legge sui pentiti, il carcere speciale, le torture e poco altro. Una vicenda complessa, ma non un rebus, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.
Storicamente quei 55 giorni hanno smesso di avere conseguenze politiche dopo le elezioni del 1979, quando il Pci uscì sconfitto dalle urne dopo essere stato un anno e otto giorni nella maggioranza di governo. Si aprì l’ultima stagione della prima repubblica che durò dieci anni, con i governi a guida laica per la prima volta dal 1948 e il preambolo di Carlo Donat-Cattin.
Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, cambiò nuovamente tutto e a livello storico la vicenda Moro non ebbe più nulla da dire. Mani pulite, poi, sconvolse ulteriormente il quadro e Berlusconi mise una pietra tombale sul passato. Il caso Moro continuò a contare per i singoli protagonisti e le loro coscienze, ma su questo versante è giusto non entrare.
A distanza di 46 anni il continuo riemergere di misteri riporta una vicenda storicamente conclusa da decenni sulle prime pagine della cronaca, impedendo il consolidarsi di una discussione storiografica sulla sua importanza. Il che, alla lunga, rischia di tramutare in farsa una delle maggiore tragedie della nostra Storia.


Sequestro Moro, le carte e le testimonianze che smentiscono le dietrologie su via Caetani /terza puntata

A partire dal 2010 alcune inchieste giornalistiche e libri pubblicati negli anni successivi, ripresi recentemente anche da una trasmissione televisiva della Rai, hanno diffuso una ricostruzione alternativa sulle ultime ore della vita di Moro, sulle circostanze della sua morte e del ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’analisi delle indagini condotte all’epoca, i documenti e le testimonianze dimostrano l’infondatezza di queste ricostruzioni dietrologiche

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 9 marzo 2024

Questa immagine fotografa la situazione di attesa: lo sportello posteriore destro della Ranault 4 è stato aperto, all’interno è stata verificata la presenza del corpo di Moro. Funzionari di polizia in borghese sono in attesa delle autorità. Davanti alla Renault la Fiat 500 del custode di palazzo Antici-Mattei, più avanti di traverso la Giulia bianca Alfa Romeo della Digos intervenuta per prima sul posto

Che cosa accadde davvero il 9 maggio del 1978 in via Caetani? Le dichiarazioni dell’ex vice segretario del Partito socialista Claudio Signorile a Report del 7 gennaio scorso, in un servizio su nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro, hanno riacceso l’attenzione sulle modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana. Da diversi anni Signorile sostiene che Cossiga (con lui presente) venne informato quella mattina della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata delle Brigate rosse. E lascia intendere intendere che a ucciderlo non furono i brigatisti, per il rifiuto di trattare da parte del governo e dei partiti schierati per la «fermezza», bensì forze straniere che condizionarono l’esito finale del sequestro: una volontà superiore a cui i brigatisti, semplici figuranti di un gioco più grande di loro, dovettero adattarsi. Forse addirittura cedendo l’ostaggio.

I ricordi tardivi
Storici, giudici e poliziotti, abituati a valutare le testimonianze e lavorare con la memoria, sanno bene che i ricordi tardivi dei testimoni rappresentano uno degli aspetti più problematici nella ricostruzione dei fatti, perché troppo esposti al rischio di inquinamento da informazioni e narrazioni circolate nel frattempo. Nelle ore successive al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani all’interno della Renault 4 color amaranto, digos e carabinieri condussero però serrate indagini sui testimoni passati fin dalle del prime ore del mattino in quella via o che lavoravano nei palazzi adiacenti. Queste testimonianze offrono un quadro esauriente per ricostruire quel che avvenne la mattina del 9 maggio 1978.
La signora Carla Antonini affermò di aver visto alle 8,10, mentre a piedi si recava al suo posto di lavoro, la Renault 4 parcheggiata quasi davanti al portone di palazzo Antici-Mattei dove era impiegata nella discoteca di Stato. La testimonianza venne rafforzata da successive dichiarazioni dell’attrice Piera Degli Esposti, sentita dopo il 2013 nell’indagine aperta per verificare la veridicità delle affermazioni di uno degli artificieri che bonificarono la Renault 4 quel giorno, Vitantonio Raso, secondo cui il cadavere di Moro fu trovato molto prima della telefonata delle Br e Cossiga si sarebbe recato sul posto una prima volta intorno alle 11 del mattino e una seconda dopo la diffusione ufficiale della notizia.
Degli Esposti smentì questa possibilità poiché quella mattina aveva atteso inutilmente, proprio nelle ore indicate da Raso, appoggiata inconsapevolmente sulla R4, il direttore del Dramma antico, i cui uffici si trovavano al terzo piano di palazzo Antici-Mattei. Anche altri testi sentiti hanno confermato questa ricostruzione: Annamaria Venturini della Biblioteca di storia contemporanea, Francesca Loverci e Giuseppe D’Ascenzo, entrambi dipendenti del Centro studi americani situato nello steso palazzo, e Francesco Donato che vi risiedeva come custode demaniale. Tutti e tre percorsero più volte via Caetani quella mattina senza mai scorgere presenza della polizia o assembramenti con personalità politiche.

L’arrivo della polizia dopo la telefonata delle Br
È D’Ascenzo a situare il momento in cui arriva sul posto la prima auto della polizia: era uscito dal lavoro alle 10,15 per rientrarvi alle 11 e uscire nuovamente un quarto d’ora dopo per rientrare alle 12,15 quando si accorgeva di una Alfa Giulia bianca in doppia fila accanto alla Renault 4, con a bordo persone in abiti civili che gli chiesero se ne conoscesse il proprietario. Era la pattuglia della Digos guidata dal commissario capo Federico Vito, che in una relazione di servizio scrive di essere stato avvisato dal brigadiere Mario Muscarà, addetto al servizio intercettazioni telefoniche, che era sopraggiunta una telefonata al professor Tritto in cui si annunciava che «il corpo di Moro si trovava in una Renault targata N…. parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure». Il brogliaccio redatto da Muscarà riferisce l’arrivo della telefonata alle 12,10 e la sua conclusione alle 12,13, oltre al tentativo fallito di individuare la cabina da dove la chiamata era partita.
Il commissario Vito si recava immediatamente sul posto con il brigadiere Domenico D’Onofrio, l’appuntato Angelo Coppola e la guardia Nicola Marucci. «Poiché nel bagagliaio si notava una coperta che ricopriva qualcosa di voluminoso – scrive – ho fatto aprire forzatamente l’auto da un Sergente artificiere ed ho constatato che, sotto la suddetta coperta, si trovava il cadavere dell’On.le Aldo Moro». Altre testimonianze, e soprattutto le foto e le immagini esclusive riprese dalla troupe di Gbr, emittente romana, con il giornalista Franco Alfano che riuscì ad entrare nel palazzo Antici-Mattei e riprendere dall’alto quello che avvenne, mostrano che i tempi di apertura della R4 furono molto più lunghi e laboriosi.

Cucchiarelli e la versione dell’artificiere
In una intervista con Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronovo, dopo l’uscita nel 2013 del suo libro La bomba umana, l’artificiere Raso conferma indirettamente la sequenza dei fatti descritta dal commissario Vito. Sostiene, infatti, di essere stato prelevato dalla «volante 23» per essere portato in via Caetani. Non poteva quindi essere sul posto alle 11, se la digos era arrivata solo alle 12,15 e Vito aveva chiesto il suo intervento solo successivamente (accusato del reato di calunnia per queste affermazioni, Raso ha patteggiato la condanna in tribunale).
Non solo: come dimostrano le immagini (e come riferisce il suo superiore Giovanni Chirchetta), Raso non tocca la Renault ma attende rinforzi. Mentre Chirchetta e il sergente Casertano giunsero sul posto dopo Raso. Nel frattempo, sono ormai le 13,35 circa, il custode di palazzo Antici-Mattei avverte gli impiegati delle voci sulla presenza di una bomba nella Renault, così tutti si precipitano all’uscita per spostare le auto.
È ancora il teste D’Ascenzo a riferire con precisione quel che accade: sceso all’ingresso del palazzo nota «che un uomo in borghese, probabilmente un agente di polizia, ha aperto la macchina e dopo aver guardato all’interno è venuto verso di noi dicendo: “È Moro”».

Un funzionario di polizia apre lo sportello della Renault
Chi era quel poliziotto? Tutte le immagini di quel giorno mostrano che lo sportello posteriore destro della R4 fu aperto molto prima che fosse forzato dagli artificieri con le cesoie il portellone posteriore. Un rapporto stilato dal commissario Vito consente di fissare con maggiore esattezza l’orario della prima apertura: si tratta del sequestro avvenuto alle ore 13,20 del borsello di pelle nera presente al suo interno e contenente effetti personali di Moro.
In una audizione del 2 maggio 2017, davanti alla commissione Moro 2, sarà Elio Cioppa a sostenere di avere aperto lo sportello e aver verificato che nel bagagliaio posteriore, sotto la coperta, c’era il corpo di Moro. Cioppa disse di esser arrivato in via Caetani dopo il commissario Vito con una cinquantina di uomini per predisporre il controllo dell’ordine pubblico nella zona. E le foto scattate in via Caetani prima dell’apertura del portellone posteriore e dell’arrivo delle autorità mostrano accanto alla R4 diverse persone in giacca e cravatta, tra cui si riconosce il tristemente famoso Nicola Ciocia, alias dottor De Tormentis, funzionario dell’Ucigos esperto di waterboarding per sua stessa ammissione.

Scatta il piano Mike
Le stesse immagini mostrano che all’arrivo di Cossiga, si può presumere dopo le 13,30, il portellone posteriore non era stato ancora forzato e che il ministro dell’Interno, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al capo della polizia Ferdinando Masone, si sporge sul vetro del lunotto per vedere il corpo di Moro. L’apertura avverrà solo in seguito, quando lo stesso Cossiga, stando agli artificieri, chiederà la bonifica del mezzo. Alle 13,45, come prevedeva il piano Mike, predisposto in precedenza dal ministero dell’Interno in caso di morte dell’ostaggio, venne avvertito il procuratore generale Pietro Pascalino, alle 13,56 il medico legale Silvio Merli e alle 14,02 il perito balistico Antonio Ugolini.

La Renault 4 fu sempre nella mani dei brigatisti
Rubata da Bruno Seghetti il primo marzo del 1978 nella stessa zona dove vennero prese gran parte delle vetture impiegate in via Fani, venne affidata alla brigata universitaria che si occupò di cambiarne la targa, contraffare i documenti, lavarla (il proprietario lavorava nei cantieri edili e la Renault era molto sporca) e spostarla periodicamente. Utilizzato per l’azione contro la caserma Talamo dei carabinieri a Roma, il 19 aprile del 1978, fu richiesta da Seghetti pochi giorni prima del 9 maggio, quando le Brigate rosse avevano deciso di concludere il sequestro. La decisione di giustiziare l’ostaggio e le modalità della sua esecuzione vennero prese l’8 maggio in una drammatica riunione della direzione della colonna romana tenutasi nell’appartamento di via Chiabrera 74, dopo le mancate dichiarazioni di apertura promesse da Fanfani attraverso il suo portavoce Bartolomei.

Il frontalino della Renault venne notato dalla signora Graziana Ciccotti, condomina della palazzina di via Montalcini 8, all’alba della mattina del 9 maggio quando scese nel garage dell’abitazione per andare al lavoro e incontrò sul posto Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento nel quale Moro fu tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro.
 Dopo l’uccisione dello statista all’interno del box dove era parcheggiata la Renault, il mezzo fu portato da Mario Moretti e Germano Maccari in via Caetani. All’altezza di piazza Monte Savello, a ridosso del ghetto ebraico, furono “scortati” da Bruno Seghetti e Valerio Morucci, che all’interno di una Simca fecero da staffetta armata nella parte più delicata del tragitto fino a via Caetani, dove la sera prima lo stesso Seghetti aveva parcheggiato la sua Renault 6 verde per preservare il posto dove lasciare la Renault 4. Poco dopo il mezzo fu visto dalle testi Antonini e Degli Esposti. Negli ultimi giorni del sequestro i brigatisti non persero mai il controllo dell’ostaggio.

Il caffè di Signorile – seconda puntata

Nell’ultima stagione delle dietrologie sul sequestro Moro un ruolo importante è stato attribuito a nuove testimonianze, o meglio nuovi di ricordi di vecchi testimoni che improvvisamente hanno riacceso la loro memoria sopita per decenni. Ne abbiamo già scritto in una precedente puntata. Oggi affrontiamo la singolare storia del “caffè di Signorile” recentemente tornato alle cronache grazie ad una nota trasmissione televisiva.

«La persona informata sui fatti – ha scritto il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è «una sorta di di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato che il testimone deve soltanto ritrovare […] Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..]».
Ne abbiamo avuto l’ennesima prova nella puntata di Report del 7 gennaio scorso, dedicata alla scoperta di nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro e dove l’ex segretario del partito socialista Claudio Signorile ha sostenuto che Cossiga fu avvisato della morte di Moro molto prima che giungesse la telefonata dei brigatisti. Dichiarazioni che hanno riacceso l’attenzione sui tempi e le modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana.

Ricordi ad orologeria
Da circa un decennio a questa parte l’ex parlamentare socialista sostiene di avere assistito. la mattina del 9 maggio 1978, alla telefonata che avvisò Cossiga della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata ufficiale fatta da Valerio Morucci al professor Tritto, lasciando intendere che a uccidere l’uomo politico non furono i brigatisti, alla fine del lungo sequestro e del rifiuto di trattare da parte del governo e delle forze politiche schierate per la «fermezza», ma forze straniere che ne condizionarono l’esito finale. Volontà superiore a cui i brigatisti dovettero adattarsi, se non addirittura cedere l’ostaggio perché ridotti a semplici figuranti di un gioco più grande di loro.
Quelle di Signorile sono dichiarazioni molto tardive rispetto ai fatti e vanno ad arricchire, come abbiamo visto nella precedente puntata (leggi qui), la lista di quei «nuovi testimoni» che pretendono di cambiare con i loro ricordi ad orologeria quello che è stato il corso della storia. Se è vero che il 9 maggio si trovava nell’ufficio di Cossiga per perorare la causa della trattativa in favore della liberazione di Moro, per trent’anni l’orario dell’arrivo nel sua stanza, invitato a «prendere un caffè» dal ministro dell’Interno, e la circostanza della telefonata giunta in anticipo sulla notizia ufficiale, non destò mai il suo interesse tantomeno quello dei suoi interlocutori. Signorile non denunciò mai la strana circostanza, non approfondì la questione, non ne parlò con il suo segretario Bettino Craxi che, come lui, si era impegnato per la trattativa.
Sull’Avanti, organo del partito socialista, come in parlamento, mai fu sollevata la questione. Un silenzio davvero singolare soprattutto se si considera la posizione in cui egli venne a trovarsi all’epoca. Signorile, Craxi e i socialisti in generale, si dovettero difendere dalle accuse mosse per aver tentato di aprire un canale di contatto con i rapitori tentando di favorire una soluzione politico-umanitaria del sequestro. Il dibattito pubblico – infatti – in quegli anni verteva attorno alla legittimità della «linea della trattativa», con il suo portato di sospetti e accuse di connivenze mosse dai sostenitori della fermezza che ritenevano quella posizione solo una strumentale manovra per rompere il patto Dc-Pci.

Sotto accusa
Sospetti pesanti che Signorile dovette chiarire in più circostanze: davanti al magistrato che conduceva le prime indagini, poi il 13 novembre 1980 difronte alla prima commissione Moro, dove venne incalzato da personaggi del calibro di Violante, Pecchioli e Flamigni nel corso di una lunghissima seduta (38 pagine di verbale). In quella circostanza sotto la pressione delle domande, Signorile fu protagonista di un lapsus che lo portò a confondere l’ora dell’appuntamento con Cossiga, le 11, con quello della telefonata che avvertì il ministro dell’Interno della morte di Moro, cioè un’ora e dieci minuti prima della chiamata delle Br. Nemmeno in quella ghiotta circostanza i suoi accigliati e sospettosi esaminatori ebbero qualcosa da eccepire. E non lo fecero nemmeno negli anni a venire.
E ancora qualche tempo dopo davanti alla corte d’assise, nel primo processo Moro, lungamente interrogato dal presidente Santiapichi e poi da agguerrite parti civili, che in realtà erano suoi avversari politici: gli avvocati del Pci Fausto Tarsitano e Giuseppe Zupo (responsabile giustizia Pci). Infine nel 1999, difronte alla commissione Pellegrino che lo obbligò a ritornare sulla vicenda della trattativa. In tutte queste deposizioni mai fu menzionato da Signorile o dai suoi interlocutori il problema dell’orario della telefonata giunta a Cossiga.

Il racconto della trattativa sceneggiato dalla rivista Metropoli

L’intervista ad Alessandro Forlani
Signorile corresse l’errore dell’80 in una intervista telefonica (la trovate qui, la versione integrale qui) del 4 maggio 2013 rilasciata al giornalista Rai Alessandro Forlani, durante la presentazione del libro La zona franca, che per la prima volta introduceva sospetti e costruiva una nuovo teorema dietrologico sulla morte di Moro e le modalità della riconsegna del suo corpo. Signorile quel giorno fu molto chiaro: era andato da Cossiga alle 11, invitato per un caffè, la telefonata che avvertiva il ministro dell’Interno del ritrovamento del cadavere era giunta intorno a mezzogiorno. Ricordava tutto ciò grazie ad un riferimento mnemonico preciso: dovette avvertire Craxi che era in viaggio per Grosseto e riuscì a raggiungerlo al telefono quando questi si trovava all’altezza di Civitavecchia.
Successivamente ha cambiato versione, l’ora del caffè preso al Viminale ha così cominciato lentamente a scivolare fino all’inizio della mattinata trascinando con sé la telefonata ricevuta da Cossiga. Cosa era successo?

La svolta
Le polemiche sulla trattativa e il canale di contatto con i brigatisti si erano esaurite da qualche anno. Nel frattempo il quadro politico era profondamente mutato e i partiti che avevano animato i fronti contrapposti della fermezza e della trattativa erano scomparsi sotto le macerie del muro di Berlino e le inchieste contro la corruzione che misero fine alla prima repubblica. I sopravvissuti si erano rimescolati e ricompattati su una posizione comune: Moro non era morto perché abbandonato dai fautori della linea della fermezza o perché i sostenitori della trattativa si mossero troppo tardi e troppo timidamente, traditi per giunta dal presidente del Senato Fanfani che non fece le dichiarazioni di apertura promesse il 7 maggio attraverso il suo portavoce Bartolomei e ancora meno la mattina del 9, durante la riunione della direzione democristiana in piazza del Gesù, ma perché forze superiori e straniere interferirono sul sequestro. 
Nel 2014 sull’onda di alcuni scoop che poi si rivelarono delle clamorose fake news, una nuova commissione parlamentare d’inchiesta venne istituita per indagare sui presunti misteri ancora irrisolti, le cosiddette «verità indicibili». Il rinnovato tema del complotto funzionava come ultimo alibi per quel ceto politico residuale scampato a Tangentopoli e che ebbe un ruolo ai tempi del sequestro. E’ in quel preciso momento che Signorile inizia a cambiare versione, sollecitato da una inchiesta di Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronuovo, anticipando di molto l’appuntamento con Cossiga e l’arrivo della telefonata che lo informò del ritrovamento del cadavere di Moro.

Sequestro Moro, nuovi testimoni per vecchie bugie – prima puntata

Foto Istituto Luce

C’è una figura che da diversi anni a questa parte riaccende l’attenzione pubblica sui cosiddetti «misteri irrisolti» o sulle presunte «nuove verità» che periodicamente riemergono sul sequestro e l’uccisione del leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel lontano 1978. Si tratta di un particolare tipo di fonte che agita da tempo il dibattito storiografico: il testimone. Non c’è qui lo spazio per introdurre la necessaria distinzione tra colui che è stato attore del fatto e il semplice spettatore, il più delle volte di un singolo momento, di una semplice frazione di quella vicenda. Ci interessa ora solo rilevare l’inevitabile carica suggestiva che la parola del testimone contiene, la forza emotiva che il suo racconto trasferisce sui fatti accaduti, poiché il testimone si presume sia colui che ha vissuto il fatto e raccontandolo lo fa rivivere. Gli storici, ma anche i poliziotti come i giudici, sanno bene quanto si debba trattare questo tipo di fonte con estrema cautela, con gli strumenti più sperimentati del mestiere, tanto più se il nuovo testimone appare, come in questo caso, a decenni di distanza dai fatti o se autori di vecchie testimonianze modificano o arricchiscono di improvvisi – e soprattutto sollecitati – ricordi le loro lontane dichiarazioni. Chi lavora con la memoria sa bene che la sincerità del ricordo non è garanzia di veridicità.

Nuovi testimoni e vecchie bugie
E’ questa una delle caratteristiche più recenti del «caso Moro». Durante i lavori della commissione parlamentare presieduta dal Giuseppe Fioroni si sono cercati in maniera spasmodica nuovi testimoni, in alcuni casi semplici replicanti di racconti fatti da persone nel frattempo scomparse. Un caso emblematico è rappresentato dalla vicenda delle palazzine di via dei Massimi 91, ritenute secondo alcune teorie complottiste un luogo dove fecero tappa i brigatisti con l’ostaggio (addirittura prima possibile prima prigione di Moro), avvalendosi di complicità di matrice atlantica che in quel condominio avrebbero trovato una loro postazione. In questo caso nuovi testimoni, i figli del portiere dell’immobile, Benedetto e Antonino Macerola, hanno riferito confidenze ricevute dal padre defunto che a sua volta le aveva riprese da un’altra persona, il generale del Genio Renato D’Ascia, condomino in una delle palazzine, anch’essa non più di questo mondo.
 Voci, tecnicamente dei de relato di secondo grado non verificabili, in quanto le fonti originarie sono scomparse, sufficienti secondo le relazioni della commissione Moro 2 e l’ex magistrato Guido Salvini, estensore di una relazione sul sequestro Moro per conto della commissione antimafia, sezione VII, nella scorsa legislatura, per sostenere che Moro non sarebbe stato condotto in via Montalcini e il commando brigatista non avrebbe raccontato la verità sui suoi reali movimenti dopo l’assalto di via Fani.

Altri neotestimoni, come l’attore Francesco Pannofino e i giornalisti Rai Diego Cimarra e Alessandro Bianchi, hanno provato a modificare la scena di via Fani, dove avvenne il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei membri della sua scorta, sostenendo che il bar Olivetti, situato all’angolo della scena dell’agguato e dalla cui terrazza esterna partirono all’assalto i membri del commando brigatista, fosse aperto quella mattina. Per Pannofino era in attività ma chiuso quel giorno per riposo settimanale. Cimarra e Bianchi si sono abbandonati invece in dettagliatissime descrizioni dei baristi e clienti presenti all’interno del locale, tra cui uomini in divisa con l’immancabile accento tedesco nonostante l’esercizio commerciale fosse abbandonato da tempo perché fallito, avesse le serrande tirate giù, i dipendenti licenziati, i contratti della luce chiusi e i libri contabili depositati in tribunale di commercio, come hanno sempre dimostrato i rilievi documentali nonché le innumerevoli immagini riprese quella mattina.

Sostenere con tanta ostinazione che quel bar fosse aperto serviva a dimostrare che i brigatisti avevano per l’ennesima volta mentito, coperti da un patto di omertà con quelle autorità politiche e istituzionali anch’esse coinvolte nella eliminazione dello statista democristiano.

Altri ancora, come la signora Cristina Damiani e Luca Moschini, hanno arricchito le loro precedenti dichiarazioni aumentando il numero dei partecipanti all’agguato, aggiungendo nuovi sparatori e percorsi di fuga a piedi (cf. la relazione scritta dall’ex magistrato Guido Salvini per conto della commissione antimafia), che non trovano conferma nelle deposizioni dei numerosi altri testimoni presenti sulla scena.
«La persona informata sui fatti – ha scritto recentemente il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato e che il testimone deve soltanto ritrovare. «Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..] Un falso ricordo – conclude Giostra – viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche».

Brigit Kraatz, l’Italia a giudizio davanti alla corte europea per colpa della commissione Moro 2

Negli anni Settanta Brigit M. Kraatz era la corrispondente a Roma di Der Spiegel. Negli atti parlamentari viene definita una terrorista coinvolta nel sequestro Moro. Non era vero ma, per ottenere giustizia, si è dovuta rivolgere alla Cedu che ora ha ammesso il suo ricorso. Questo blog ha denunciato già nel maggio 2020 questa storia (puoi leggere qui) di cui ha continuato e continuerà a occuparsi (leggi qui 1,2, 3).
La vicenda è anche all’origine di una querela contro l’ex membro della commissione parlamentare Gero Grassi. All’origine delle accuse mosse contro la corrispondente della stampa tedesca c’è una indagine promossa da un consulente della Commissione Moro 2. Massimo Giraudo – sulla scorta di una ricca letteratura complottista presente sull’argomento – si è mosso per dimostrare che un condominio romano, ex Ior, situato nella zona della Balduina ebbe un ruolo decisivo nelle prime fasi del sequestro del persidente democristiano. L’inchiesta, infarcita di confidenze originate da persone oggi defunte, passate di bocca in bocca, scenari suggestivi e congetture iperboliche è stata rilanciata con grande enfasi anche nella puntata di Report del 7 gennaio scorso.
Definire la signora Kraatz attivista del movimento tedesco 2 giugno, «Bewegung 2 Juni», è un po’ come dire che Lilli Gruber sia stata un membro delle Brigate rosse. Ora che una persona come il tenente colonnello dei Cc, Massimo Giraudo, insignito nel 1988 anche del titolo di cavaliere, ordine al merito della repubblica per il lavoro svolto in diverse indagini, nato nel 1960, non sapesse o non sia stato in grado di verificare con un semplice giro sul web che la signora Kraatz fosse una importante giornalista tedesca, insignita per altro di vari premi per i suoi articoli, autrice di un libro con Willy Brandt e di interviste con i vertici delle istituzioni e dei partiti degli anni 70 e 80, collaboratrice di Rai tre nei giorni in cui cadeva il muro di Berlino (su internet si trova con facilità una sua foto accanto ad Agnelli), accreditata presso il Vaticano mentre seguiva il pontefice nei suoi viaggi intercontinentali, insomma una figura pubblica molto nota negli ambienti della stampa e non solo, solleva inquietanti interrogativi sulla natura cialtronesca, o forse sarebbe meglio dire bantitesca, dei lavori condotti dalla commissione parlamentare sul sequestro Moro, condotti sotto la guida e la responsabilità dell’allora presidente Giuseppe Fioroni. Come se non bastasse, quanto scritto negli atti resi pubblici dalla commissione è poi finito nella sentenza Bellini sulla strage di Bologna. E’ bastato un semplice copia-incolla. Come un virus le affermazioni indimostrate della Cm 2 si sono propagate, riprese come verità, in realtà politica ma dai più confusi con quella storica, sono migrate in una sentenza che nulla c’entra con le vicende del sequestro Moro. E così la brillante giornalista che per un trentennio ha raccontato le vicende italiane al pubblico tedesco si è ritrovata coinvolta nel sequestro Moro e nella strage di Bologna.

Quale è il nesso, vi chiederete? I servizi segreti ovviamente, quei poteri occulti: la Cia, il Secret team, il Mossad, la P2 e la massoneria che tutto reggevano e disfacevano, ovvero la favola che ci ha propinato Report.
Ora il ricorso presentato dai legali della Kraatz davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ultima possibilità che le restava dopo i tentativi andati falliti di far correggere i grossolani errori, e le prese in giro ricevute da parte dei vertici istituzionali, dal presidente della commissione al Quirinale, ha superato il vaglio dell’ammissibilità legale. La squallida montatura di via dei Massimi assume così una rilevanza internazionale e diplomatica dalle molteplici conseguenze che difficilmente potranno essere ignorate.

Non si tratta solo di ripristinare l’onorabilità di una persona tacciata di essere stata altro da quella che era effettivamente; in ballo ci sono le procedure che conducono alla costruzione delle “verità politiche deliberate” all’interno delle commissioni parlamentari e del loro rapporto con la verità storica.
Il tema è quello della intangibilità delle asserzioni contenute nelle relazioni parlamentari una volta deliberate con il voto dei commissari e del parlamento. Se delle successive acquisizioni storico-documentali vengono a smentire quanto affermato all’interno di queste relazioni perché mai queste non possono essere corrette?

di Paolo Morando, Domani, 19 gennaio 2024

La commissione parlamentare d’inchiesta “Moro 2” l’ha definita «già attiva nel movimento estremista “Due giugno”». Che però era qualcosa di più: un vero e proprio gruppo di lotta armata che, nella Germania Ovest degli anni Settanta, si rese protagonista di svariati attentati e rapimenti, anche con la morte del presidente della Corte federale tedesca Günter von Drenkmann durante le concitate fasi del sequestro.
Ma lei, la giornalista tedesca Birgit Kraatz, oggi ottantacinquenne ma negli anni Settanta firma di punta e corrispondente da Roma per importanti testate (i settimanali “Der Spiegel” e “Stern” e la televisione pubblica Zdf, ha scritto pure un libro intervista con l’allora cancelliere Willy Brandt pubblicato anche in Italia), terrorista non lo è mai stata.
Le ha provate tutte in questi anni per cercare di farsi togliere di dosso quella infamante definizione, ma senza riuscirci. Tanto che si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo che, è notizia di queste ore, ha accettato il suo ricorso e ora se ne occuperà formalmente, per giungere a una sentenza che in ipotesi potrebbe portare anche a pesanti sanzioni contro lo Stato italiano, in termini di multe e risarcimenti. E chi conosce l’attività della Cedu, sa bene che nell’80 per cento dei casi l’accoglimento del ricorso (questo è infatti lo scoglio maggiore dal punto di vista procedurale) porta poi nella stragrande maggioranza delle volte a un pronunciamento favorevole al ricorrente.

Una vicenda kafkiana
Quella frase è contenuta nella relazione conclusiva dell’attività 2017 della commissione, depositata dal presidente Giuseppe Fioroni. Fu anche l’ultima. E da allora, come sempre accade in questi casi, non si fermò lì. Di citazione in citazione è finita infatti addirittura in una sentenza, e non di scarsa importanza, anzi: è infatti quella della Corte d’assise di Bologna che nell’aprile 2022 ha condannato all’ergastolo l’estremista di destra Paolo Bellini per la strage alla stazione (il processo d’appello inizierà tra l’altro a fine mese), con la giornalista citata nelle motivazioni depositate lo scorso aprile, nei termini già formulati dalla Commissione Moro 2.
È una vicenda davvero kafkiana, perché invece i fatti parlano chiaro. Si tratta di due comunicazioni del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 del Bundeskriminalamt (Bka), l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, nei quali si certifica che il nome di Birgit Kraatz non risulta mai essere stato menzionato in alcun documento della struttura, attestando così la totale estraneità della donna al movimento «2 giugno».
Ha scritto testualmente il direttore del Bka, Jürgen Peter: «Va dato per scontato che la signora Kraatz non ha avuto alcun contatto o altri legami con il gruppo “2 Giugno” che vadano al di là dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento terrorismo di sinistra in Germania e in Italia». E ancora: «Allo stato degli atti del Bundeskriminalamt non è accertabile nessun contatto o altro legame con il gruppo “2 Giugno” che abbiano a che fare con la signora Kraatz».

La commissione Stragi
Sono documenti che i legali della giornalista spedirono a suo tempo allo stesso presidente Fioroni, senza però che fosse possibile ottenere una rettifica della relazione, avendo la Commissione parlamentare d’inchiesta già concluso i propri lavori e chiuso i battenti per via della fine della legislatura. E quelle relazioni, in quanto approvate dal Parlamento, sono ora del tutto intangibili. Peraltro, appunto in quanto parlamentari, tutti gli allora componenti della commissione sono coperti da immunità. Non lo sono però per affermazioni successive al mandato politico: e infatti l’ex deputato Gero Grassi, tra i più attivi componenti di quella commissione, è già stato raggiunto da una querela della giornalista, querela ancora pendente.
Come una palla di neve che rotolando a valle diventa valanga, quell’evidente errore contenuto nella relazione di Fioroni è figlio di un altro atto parlamentare di addirittura ventiquattro anni fa, rimasto a lungo sottotraccia. Si deve infatti tornare al 2000 e alla allora Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. In quella sede, i parlamentari di Alleanza nazionale Vincenzo Fragalà e Alfredo Mantica presentarono una relazione in cui veniva appunto fatto il nome di Birgit Kraatz come esponente del gruppo “2 Giugno”.
Così ha ricostruito la vicenda il ricercatore Paolo Persichetti: «A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo “2 giugno”, la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo del Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo “2 giugno”».

Richieste vane
Il documento di Mantica e Fragalà peraltro non venne mai né discusso né tanto meno approvato. E di errore in errore, come detto, l’appartenenza di Birgit Kraatz al movimento terroristico è finito addirittura nelle motivazioni della sentenza Bellini. E va detto che la giornalista, nei mesi scorsi, si è rivolta anche ai magistrati bolognesi, affinché correggano nei successivi gradi di giudizio quell’infamante definizione.
Sul fronte Commissione Moro 2, invece, le sue doglianze sono state recepite ma senza apporre correzioni alla relazione Fioroni, per i motivi già citati. Gli uffici del parlamento hanno in effetti protocollato il materiale inviato da Kraatz, ma ad oggi non risulta che siano stati allegati agli atti nel portale della commissione. E quei documenti del Bka sono stati invece catalogati “fisicamente” in una sezione non accessibile al pubblico.
La citazione di Birgit Kraatz da parte della Commissione Moro 2 riguardava le palazzine di via Massimi, anche al centro pochi giorni fa di un ampio servizio della trasmissione di Rai3 “Report” sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse: palazzine indicate come uno dei possibili luoghi in cui lo statista democristiano sarebbe stato tenuto prigioniero.
Questa la citazione completa contenuta nella relazione Fioroni: «Si è in particolare riscontrato che in quelle palazzine abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno. Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta. La stessa Kraatz ha ricordato la sua relazione con il Piperno, ma ha escluso che si trattenesse nel condominio».
Piperno, come noto, era stato dirigente di Potere operaio. E venne contattato dal Partito socialista (in particolare dall’allora vicesegretario Claudio Signorile) nel tentativo di giungere a una liberazione dello statista democristiano. Ironia della sorte, in quel servizio di “Report” è comparsa anche la fotografia della stessa Birgit Kraatz, peraltro correttamente indicata solo come giornalista. Ma si diceva, lanciando una suggestione: «Kraatz e Piperno si sono visti anche durante il periodo del sequestro Moro?».

Le palazzine di via Massimi
A questo proposito, ancora nel febbraio 2018 al presidente Fioroni la giornalista aveva scritto così: «L’insinuosa descrizione che il mio amico, il professore Franco Piperno, avrebbe sorvegliato dalla mia casa, oppure in qualche modo con la protezione della mia casa, lo scambio delle vetture durante il sequestro Moro nel garage che apparteneva a due palazzi in via Massimi 91 (ipotesi peraltro mai provata – né tantomeno affrontata – in alcuna sede giudiziaria, ndr), è falsa: questo non sarebbe stato nemmeno tecnicamente possibile perché dalle finestre della mia casa l’entrata del garage non era né visibile né raggiungibile come sarebbe stato facile verificare con un semplice sopralluogo. Inoltre al garage io non avevo mai accesso».
E sono tutte circostanze che la giornalista aveva riferito in precedenza anche al colonnello dei Carabinieri Massimo Giraudo, consulente della commissione, senza la presenza di un avvocato «perché non ho nulla da nascondere». C’è comunque da scommettere che la questione sarà destinata ad avere altre puntate. Sempre che nel frattempo la Corte europea dei diritti dell’uomo non gli dia un taglio netto.

La puntata di Report sul caso Moro, ecco le prove del contatto di Ranucci con Pazienza

di Paolo Persichetti

Oggi siamo in grado di rivelare ulteriori dettagli sul contatto tra Sigfrido Ranucci e Francesco Pazienza nelle settimane precedenti la messa in onda della puntata di Report dedicata alle presunte verità sempre tenute nascoste sul sequestro Moro. 
Ci scusiamo per l’attesa che ha creato un certo suspense sulla vicenda e che alcuni hanno interpretato frettolosamente come la prova che noi stessimo bluffando, senza avere in mano nulla. Non siamo abituati a mentire, tanto meno a tentare azzardi. Semplicemente attendevamo che Ranucci e Pazienza dicessero la loro, lasciandogli il tempo di spiegare i fatti e le eventuali ragioni.
Ma Ranucci si è ben guardato dal farlo accusandomi di aver scritto falsità, omettendo la circostanza del contatto avuto con Pazienza. Mentre Pazienza ha sostenuto di non aver mai sentito Ranucci e di aver agito autonomamente contattando il giornalista Lovatelli Ravarino, ritenuto depositario di informazioni sulla vicenda Moro, in particolare sul ritrovamento del cadavere dello statista Dc in via Caetani, informazioni che Ravarino peraltro smentisce categoricamente di possedere. La nostra inchiesta, in effetti, nasce proprio da un commento che Cristiano Lovatelli Ravarino aveva fatto sotto un mio articolo su Report postato su Fb (qui l’articolo).

Il commento di Ravarino

Lo scambio watsapp tra Pazienza e Ravarino

Ne parliamo con Paolo Morando, giornalista e saggista, autore di numerosi volumi sulla strage di piazza Fontana, la storia di Cefis, la strage di Peteano e quella di Bologna.
Conosco Paolo da quasi due anni. Abbiamo condotto insieme alcune inchieste, in particolare sul carteggio Sismi-Olp, le cosiddette «carte di Giovannone» (leggi qui).

Allora com’è andata?
«Ancora domenica mattina ho letto anch’io quel commento su Facebook di Lovatelli Ravarino. E quel riferimento a un contatto tra Pazienza e Ranucci mi ha incuriosito. Mi sono allora procurato il numero di Pazienza, che non avevo, e gli ho mandato un messaggio via whatsapp».

Che ora era?
«Le 14.14».

E che cosa gli hai scritto?
«Te lo leggo: “La contatto perché avrei bisogno di chiederle una cosa a proposito della puntata di Report sul caso Moro, che andrà in onda stasera. Posso chiamarla? Grazie”. Mi ha risposto un minuto dopo: “Mi chiami pure”».

E poi?
«Siamo stati al telefono una decina di minuti. È stato cordiale e affabile. Mi ha detto di conoscere benissimo Lovatelli Ravarino, ma che non era del tutto esatto quello che aveva scritto su Facebook».

Cioè?
«Le sue esatte parole, le ho riascoltate, sono state: “Quando a un certo momento ho saputo che Ranucci stava preparando questo numero che va stasera su Moro, ho detto a Ranucci: guarda che c’è uno che io conosco eccetera che mi ha raccontato un sacco di storie, perché hanno lasciato l’automobile lì, il palazzo, eccetera. Lui mi ha detto: vabbè dammi il suo numero di telefono. Non so perché Ranucci non abbia ritenuto opportuno chiamarlo o verificare, questi sono problemi dei giornalisti, non so perché”».

Gli hai chiesto altro?
«Sì, in che rapporti era con Ranucci. E lui mi ha detto: “Con Ranucci siamo in questi rapporti: all’inizio Ranucci praticamente scrisse una stronzata su Gelli e compagnia cantante e io gli mandai la prova documentale che io con Gelli non c’entravo assolutamente niente, anzi, e lui fece una dichiarazione Ansa in cui diceva che la trasmissione di gennaio scorso, eccetera, effettivamente aveva detto cose che non sono esatte e compagnia cantante, da quel momento siamo diventati sempre un po’ più amici perché ogni tanto ci sentiamo per vedere se io sappia o meno cose e compagnia cantante”. Poi gli ho chiesto che cosa si aspettava dalla puntata di Report che sarebbe andata in onda in serata».

Che cosa ti ha detto?
«Ha risposto così: “Non faccio mai domande ai giornalisti, non so che taglio daranno, ma mi ha detto che ci saranno dei fatti nuovi eccetera”. E poi ha aggiunto: “Secondo me Moro lo hanno ammazzato le Brigate rosse”». Poi abbiamo chiacchierato ancora un po’, divagando: mi ha parlato di sue vicende giudiziarie con magistrati di Bologna. Infine ci siamo salutati».

Poi però hai sentito anche Ranucci.
«Sì, il giorno dopo. Prima volevo vedere la puntata di Report. Lunedì mattina ho contattato l’autore del servizio, Paolo Mondani, che un po’ conoscevo. Gli ho scritto così: “Vorrei chiedere a Ranucci una cosa un po’ delicata sulla puntata di ieri, ma ne parlerei prima con te (anche perché di Ranucci non ho alcun numero)”. Era poco dopo mezzogiorno. Mi ha risposto che mi avrebbe richiamato dopo pranzo. E così ha fatto».

Che cosa vi siete detti?
«Gli ho spiegato la cosa, era molto sorpreso. Mi ha detto di non aver mai sentito il nome di questo Lovatelli Ravarino e che mai Ranucci gliene aveva parlato. E mi ha appunto girato il suo numero, consigliandomi di parlarne con lui. A quel punto ho mandato un messaggio a Ranucci».

Che cosa gli hai scritto?
«Gli ho citato il commento su Facebook di Lovatelli Ravarino, aggiungendo che la cosa mi aveva colpito e invitandolo, se credeva, a richiamarmi. Dopo un po’ mi ha risposto che era falso, che non aveva chiesto aiuto a Pazienza e che Mondani si era mosso in assoluta autonomia. Erano le 16.15. Subito dopo mi ha richiamato».

E che cosa ti ha detto?
«A proposito di Lovatelli Ravarino, anche qui riascolto le sue esatte parole: “Io posso pure smentirlo ma penso di dargli più pubblicità, oltretutto io Pazienza lo conosco bene perché gli abbiamo fatto il culo tre quattro volte, quindi figurati, non è quello il tema. Pure Pazienza, che tra parentesi me l’ha girato prima questo messaggio, dice che non è vero, non so che dirti”. E poi: “Ma figurati se io posso contattare Pazienza, io Pazienza l’ho solamente sentito per dirgli è vero o no che tu frequentavi palazzo via Massimi, punto, perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi, non l’ho contattato per altre cose, figurati, Pazienza è sempre Pazienza”».

Altro?
«È stata una telefonata breve. Alla fine mi ha detto: “Se vuoi ti do pure il numero di Pazienza, senti Pazienza, te lo smentirà pure lui”. E gli ho detto che lo avevo già».

Ranucci afferma quindi di avere sentito Pazienza. Perché non ne hai scritto?
«Perché te ne stavi già occupando tu e volevo vedere come andava a finire. Comunque, da quello che mi ha detto Ranucci, non è chiaro se si è trattato di una telefonata o di un messaggio, e neppure chi abbia contattato chi. Io peraltro non glielo ho chiesto. Con il “Domani” abbiamo invece preferito occuparci nel merito della puntata di Report sul caso Moro, in particolare dell’intervista a Signorile: l’articolo è uscito oggi».

Ricapitolando
Ranucci ammette di aver sentito Pazienza durante la preparazione dell’inchiesta per chiedergli se era vero che frequentasse palazzo via Massimi, «perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi». Va detto per inciso che si tratta di una novità assoluta, mai sentita prima d’ora. Ranucci aggiunge che lo conosce da tempo, confermando quanto detto da Pazienza e che questi gli aveva già girato «il messaggio», non sappiamo se intendesse il commento di Ravarino sul mia pagina fb o lo screenshot dello scambio whatsapp che aveva avuto con lo stesso Ravarino. In ogni caso la circostanza conferma la facilità e celerità dei loro contatti, dando ragione alle parole di Pazienza sui loro rapporti pregressi, risalenti a oltre due anni prima, dopo una puntata di Report ch lo aveva tirato in ballo. Pazienza aggiunge, dopo aver saputo della puntata su Moro, di avergli offerto aiuto e in effetti contatta Ravarino. Ranucci nega. Nei giorni scorsi Pazienza ha aggiunto di essere stato la fonte di numerosi scoop fatti dalla Rai in questi ultimi tempi (leggi qui). «Pazienza sarà sempre Pazienza», come dice Ranucci, però non basta una semplice battuta per chiarire questa vicenda. Ci vuole quella trasparenza che fino ad ora è mancata.

Sulla stessa vicenda
La domenica bestiale di Rai 3, Sigfrido Ranucci trasforma Report in una fabbrica di bugie sul sequestro Moro
Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile
Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro
Report e il caso Moro, il silenzio di Ranucci e le rivelazioni di Pazienza
Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda



Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda

di Paolo Morando, Domani 11 gennaio 2024

Davvero l’ex esponente socialista e l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga seppero della morte di Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?

Davvero Claudio Signorile e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, il 9 maggio 1978, seppero della morte di Aldo Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?
È solo uno dei tanti elementi del servizio di Report di domenica scorsa sul rapimento e l’uccisione dello statista democristiano da parte delle Brigate rosse, ma è forse quello più suggestivo, tra le miriadi di dubbi, zone d’ombra e presunti misteri su cui dopo decenni si discute ancora oggi, a oltre 45 anni dai fatti.
Tutto ruota attorno a una questione sostanziale: quell’agguato, quel rapimento e quell’uccisione furono tutta farina del sacco brigatista? Oppure vi fu chi “diresse” (o “facilitò”) quell’operazione? E, seguendo questa ipotesi, chi? Servizi segreti, P2, Cia, Kgb, Mossad: da questa maionese impazzita nessuno è stato lasciato fuori. Ma la giustizia ha da anni chiuso la partita, attraverso più processi. E neppure le due inchieste ancora aperte a Roma, condotte dalla procura ordinaria e da quella generale, sembrano fare passi in avanti.
Nel frattempo si è fatto strada un inesauribile filone di pubblicazioni in controtendenza con quanto è stato appurato nelle Corti d’assise. E oltre ai processi ci sono le commissioni parlamentari d’inchiesta. A una prima, specifica, istituita nel 1979 e che chiuse i propri lavori nel 1983 (gli atti sono contenuti in centotrenta volumi, ognuno dei quali composto mediamente da svariate centinaia di pagine), in anni recenti se n’è aggiunta una seconda, la cui documentazione pure consta di migliaia di carte.
Anche commissioni d’inchiesta istituite su altri temi (stragi, P2, Mitrokhin, Antimafia) di Moro si sono lungamente occupate. Aggiungete a tutto questo più opere cinematografiche, una moltitudine di inchieste giornalistiche sulla stampa o in tv, romanzi di para-fiction, opere teatrali… E poi i dibattiti in rete, in cui si discute senza sosta su particolari più o meno rilevanti della vicenda.

La perizia balistica del 2016 che Report non cita
Lo spazio non consente di riprendere qui punto per punto le mille suggestioni di Report, basate principalmente sui lavori della commissione Moro 2, quella presieduta da Giuseppe Fioroni.
Nella trasmissione, a un certo punto, è però stato detto che mai sono state eseguite perizie balistiche aggiornate rispetto a quelle di oltre quarant’anni fa. Lo si diceva a supporto dell’ipotesi secondo cui a sparare il 16 marzo 1978 in via Fani non sarebbero stati solo quattro brigatisti (Fiore, Morucci, Gallinari e Bonisoli), ma anche un altro paio, finora sconosciuti.
E che lo avrebbero fatto non da sinistra, come nella ricostruzione fin qui accreditata, bensì da destra. Ebbene, proprio la Moro 2 si è invece giovata nel 2015 di una perizia balistica compiuta dalla polizia scientifica. E i risultati, che avvalorano la versione brigatista, sono stati recepiti nella stessa relazione del presidente Fioroni conclusiva dell’attività di quell’anno.

Dubbi sull’uso di una moto nell’azione. Le bugie del testimone Marini e il parabrezza mai attinto da colpi di mitraglietta
Non solo. Sempre nella relazione, si sottolineano «due acquisizioni» raggiunte dalla polizia scientifica: «La prima riguarda la scoperta che il parabrezza di Marini non è stato attinto da colpi d’arma da fuoco come finora si è creduto».
E si tratta di quell’ingegnere a bordo di uno scooter che sarebbe stato preso di mira da due motociclisti in fuga da via Fani: vicenda del tutto destituita di fondamento, come lo stesso Marini dovette ammettere in un verbale ancora nel 1994. Il che, per inciso, pone in discussione l’esistenza stessa di quella motocicletta, della cui presenza in via Fani parlarono solo tre degli oltre trenta testimoni a suo tempo messi a verbale.

Nessun superkiller
Ancora, sempre citando Fioroni: «Il secondo punto acquisito dalla polizia riguarda la messa in crisi dell’idea che a via Fani abbia operato un super killer. È vero infatti che vi fu una bocca di fuoco che sparò da sola quarantanove colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata (da quell’arma soltanto sei colpi andarono a bersaglio, attingendo l’agente Iozzino)».
Altro che super killer. Il fatto che poi quella perizia sia stata «oggetto di un’attenta analisi critica da parte di alcuni componenti della Commissione», come scrive Fioroni, conferma una volta di più che anche elementi scientifici possono servire per tirare l’acqua al proprio mulino.

La prigione di Moro fu una sola
Altra questione ampiamente analizzata da Report: davvero Moro è stato tenuto prigioniero nell’appartamento di via Montalcini 8? È stata citata una mezza dozzina di possibili covi alternativi, dei quali pure si parla da anni. Si può però davvero pensare che le Brigate rosse abbiano spostato l’ostaggio più volte nella Roma militarizzata di quelle settimane? Ma soprattutto: perché farlo se davvero le Br erano protette da entità indicibili?

Signorile da Cossiga e la questione dell’ora
Si diceva però di Signorile. La sua presenza nell’ufficio di Cossiga la mattina del 9 maggio è circostanza da tempo nota. Ma davvero al ministro la notizia della morte di Moro arrivò molto prima della telefonata con cui Morucci, alle 12.13, diede notizia al professor Tritto, assistente di Moro, che lo statista era stato ucciso e di dove si sarebbe potuto ritrovare il corpo? Rivedendo Report, ci si accorge che a dire «le 9.30-10» non è Signorile, bensì l’intervistatore.
Signorile peraltro lo lascia parlare senza interrompere, quindi di fatto conferma. Se così fosse, lo capite, si aprirebbero scenari vertiginosi – pure sviluppati da Report – su cui da anni la cosiddetta dietrologia non si è risparmiata. Qui il punto riguarda la validità delle testimonianze orali, soprattutto quelle di coloro avanti con l’età e rese a tanti anni dai fatti su cui la memoria viene sollecitata.
Inoltre, l’impossibilità di riscontrare tali testimonianze con tutti i protagonisti (in questo caso Cossiga). Anche perché l’orario dell’alert al ministro – si scopre rileggendo le tante dichiarazioni di Signorile – è ballerino. Come pure la rilevanza che diede alla questione l’esponente socialista.
Già nel 1980 (commissione Moro 1) Signorile raccontò quella mattina, collocando l’avviso a Cossiga della morte di Moro alle 11: orario inconciliabile con i fatti accertati. Nessuno dei parlamentari però pensò di chiedergli maggiori dettagli sul punto (e della commissione faceva parte pure il comunista Sergio Flamigni, da sempre capofila di chi non crede alle versioni “ufficiali”), probabilmente pensando che Signorile con quell’orario intendesse quello dell’appuntamento con Cossiga al Viminale.
Davanti alla Corte d’assise di Roma invece, nel 1982 in un lungo interrogatorio come testimone, Signorile non sfiorò minimamente la questione di quello strano orario. E anche nel 1999, davanti alla commissione Stragi (quella presieduta da Pellegrino), nuovamente nessun accenno: eppure non si trattava di una questione banale.
Poi, nel gennaio 2010 ne riparlò in una intervista all’Ansa: «Dopo pochi minuti che ero nella sua stanza, erano le 10 e mezzo-11, sentiamo l’altoparlante della centrale operativa, annunciare che la nota personalità era stata ritrovata al centro di Roma», disse a Paolo Cucchiarelli (autore di più libri a cui si è ispirato il servizio di Report). Non risulta che Cossiga abbia smentito.
Ma neppure che qualcuno ne abbia mai chiesto conferma all’allora senatore a vita. Tre anni più tardi (ma attenzione: Cossiga nel frattempo era morto, nell’agosto 2010), parlando con l’Huffington Post, Signorile tornò sulla questione: e collocò invece a mezzogiorno l’allarme a Cossiga. Mentre nel 2020, in una lunga intervista al Corriere della Sera (e l’intervistatore era Walter Veltroni), ecco ancora una volta il racconto di quella mattinata al Viminale. Ma senza alcun riferimento (e relativo sospetto) all’orario in cui Cossiga fu avvisato.
Nel frattempo Signorile era stato sentito anche dalla commissione Moro 2, il 12 luglio 2016: «Io vi sto testimoniando la telefonata vera, quella cioè della questura che chiama il ministro dell’Interno», disse. E all’allora senatore Miguel Gotor, che indicava come orario le 11, rispose: «Più o meno a quell’ora, sì».

L’artificiere Raso e Signorile si smentiscono a vicenda
Va detto che nel 2012 era stato pubblicato un libro di memorie dell’artificiere che intervenne quella mattina in via Caetani, Vitantonio Raso, il quale ha sostenuto di essere arrivato lì tra le 10.30 e le 10.45. E di aver parlato con Cossiga, che era già presente in strada. Peraltro non c’è traccia di sue relazioni di servizio.
Le affermazioni di Raso, per inciso, contrastano con quelle di Signorile: se Cossiga stava già in via Caetani, come poteva essere alla stessa ora con Signorile al Viminale? La procura di Roma, comunque, a suo tempo incriminò Raso per calunnia. E della cosa non si è più sentito parlare.
Che cosa ci dice tutto questo? Quanto meno che quell’orario non è riscontrato (né è più riscontrabile).

Gli orari della centrale operativa dei carabinieri
D’altra parte, il registro delle comunicazioni telefoniche della legione Roma dei Carabinieri di quel giorno attesta alle 13.50 il rinvenimento del cadavere nella R4 rossa, alle 13.59 la sua identificazione e dalle 14.01 in poi l’informazione a tutte le autorità, a partire dalla Presidenza della Repubblica. Ce n’è insomma abbastanza per prendere la cosa (assieme a molte altre) con tutte le molle possibili.

Report e il caso Moro, il silenzio di Ranucci e le rivelazioni di Pazienza

Ho posto ieri a Sigfrido Ranucci delle domande molto semplici a cui ha ritenuto di non dover rispondere convinto che la precedente smentita fornita all’Adnkronos fosse più che sufficiente.

La bugia di Ranucci

Ranucci sostiene che «La puntata gli è arrivata chiusa» è che il programma sia «stato realizzato in piena autonomia dal collega Paolo Mondani», senza alcun intervento da parte sua. 
Ranucci glissa sulla questione essenziale: non dice se c’è stato un contatto tra lui e Pazienza durante la preparazione del servizio, dice di non sapere chi sia Lovatelli Ravarino ma non smentisce il rapporto con Pazienza. Omette imbarazzato la vicenda e sposta il discorso altrove.

«Se abbiamo ricalcato la Commissione Moro 2 non possiamo aver depistato»
Siccome tra le critiche ricevute c’è chi gli ha fatto notare che non c’erano grandi novità nella inchiesta andata in onda, poiché questa «ricalca molto il lavoro della seconda commissione Moro», Ranucci ne ha concluso che non può «esserci stato alcun depistaggio». Lasciando intendere che il lavoro della commissione Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni abbia dimostrato delle verità storicamente valide e incontestabili e non abbia fatto, come è accaduto, molta confusione, tanti errori, numerosi falsi, ignorando persino le conclusioni delle nuove perizie svolte dalla polizia scientifica e dal Ris dei carabinieri con l’ausilio delle più moderne tecniche forensi.
Ranucci si mostra impreparato sul tema poiché la Moro 2 non ha prodotto alcuna relazione conclusiva sulle indagini svolte, ma ha pubblicato tre relazioni annuali di natura provvisoria che riportavano l’andamento dei lavori. Tanto che uno dei suoi consulenti, l’allora magistrato ancora in attività Guido Salvini, profondamente frustrato per la chiusura anticipata della legislatura e la fine dei lavori della commissione, è riuscito a strappare un incarico ad personam dalla commissione antimafia istituita nella legislatura successiva per portare avanti il suo personale teorema, ripreso pedissequamente da Report (leggi qui).

Le verità contrapposte dei commissari della Moro 2
La mancata conclusione dei lavori con una relazione conclusiva, come già avvenne per la Pellegrino, ha spinto i diversi membri che vi hanno preso parte a pubblicare considerazioni personali in libri e interviste in forte contrasto tra loro (come per altro già avviene tra le varie pubblicazioni dietrologiche che si smentiscono reciprocamente) e che riassumiamo in tre sostanziali posizioni:

  1. La linea Fornaro-Gotor, ricalcata da Report e che in sostanza rilancia la tesi di una interferenza diretta delle forze atlantiche sulla vicenda (Usa-Nato-Inglesi-Israele-P2-Massoneria-Vaticano-Ior-‘Ndrangheta). Narrazione tanto cara all’ex senatore Flamigni ed elaborata per conto del Pci. Tesi che vorrebbe Moro rapito e ucciso per impedire una svolta democratica e progressista nella politica dell’Italia, «l’alleanza rivoluzionaria tra Dc-Pci» come l’ha definita Ranucci.

2. La linea Fioroni-Grassi del tutto ignorata da Report che invece attribuiva le interferenze nel sequestro all’asse geopolitico opposto, ovvero i Paesi del campo socialista (Urss-Rdt-Cecoslovacchia-Bulgaria-Vaticano-Nicaragua con tanto di palestinesi e Libia di Gheddafi con il Lodo Moro sullo sfondo).

3. La posizione condotta dall’allora onorevole Lavagno che ha criticato il metodo approssimativo, per tesi precostituite, portato avanti dalla commissione che ignorava sistematicamente le smentite interessata unicamente a dimostrare i propri pregiudizi complottisti.

L’invenzione della verità ufficiale e la menzogna del patto di omertà
Va detto che le due linee complottiste convenivano su un punto comune, ovvero che esistesse una fantomatica «verità ufficiale» espressa – a loro dire – nelle sentenze giudiziarie (4 processi con relativi gradi di giudizio più 5 inchieste) sommate al «memoriale» dei dissociati-collaboranti Morucci-Faranda, eletto a ricostruzione unica della vicenda, presentato come il frutto di un accordo, un patto di omertà reciproca tra Stato e Br, tra Dc e brigatisti tutti senza distinzione di sorta (in proposito leggi qui).

Si tratta dello schema narrativo costruito negli ultimi anni sulla vicenda e che anche Report ha riprodotto senza particolare originalità. Un schema che consente di presentarsi come i disvelatori di una menzogna pattuita, coloro che fanno riemergere una verità occultata. L’invenzione del «patto», la tesi che i brigatisti abbiano sempre sostenuto un verità che fosse sovrapponibile con la versione delle istituzioni è la prima grande falsificazione di questa narrazione sul sequestro Moro.

Chi conosce l’immensa mole documentale che riguarda la vicenda, chi ha letto le varie sentenze, sa – per esempio – che esse sono in contrasto tra loro, che ci sono errori e inesattezze nelle ricostruzioni dovute alle carenze informative e di indagine che si sono colmate nel tempo, ma mai del tutto, grazie alle successive inchieste e processi. Basti pensare alla dinamica dell’agguato di via Fani descritta nel primo processo e agli accertamenti successivi che l’hanno in parte corretta. O ancora, al numero spropositato di condannati per la partecipazione al sequestro che non corrisponde al numero ben minore dei reali partecipanti, o alle condanne per un fatto mai accaduto, come il tentato omicidio contro il testimone Alessandro Marini, un mentitore seriale alla fine smentito anche dalla Moro 2.

Un memoriale eletto a verità ufficiale
Non esiste una verità ufficiale monolitica, come al tempo stesso il cosiddetto memoriale Morucci-Faranda costruito attraverso il collage delle varie deposizioni fornite durante l’istruttoria e poi nei vari gradi di giudizio, con l’aggiunta finale dei nomi lì dove in precedenza erano stati indicati solo dei numeri (per ottenere ulteriori vantaggi nel trattamento penitenziario), rappresenta la ricostruzione di Moruci e Faranda non delle Brigate rosse, i cui partecipanti al sequestro hanno fornito nel tempo, attraverso libri, interviste, alcuni anche in sede processuale, la loro versione dei fatti. Una poliedricità testimoniale raccolta e ristudiata recentemente da diversi ricercatori che Report si è ben guardata dal consultare. La parola degli storici come quella dei protagonisti ancora in vita, brigatisti da una parte, poliziotti, carabinieri e giudici dall’altra, è l’unica assente nell’inchiesta.

Le versione di Pazienza
L’Adnkronos ha ascoltato anche Francesco Pazienza che ha smentito di esser stato contattato da Ranucci in occasione della inchiesta in preparazione su Report: «Avevo saputo solo – spiega – che (Report ndr.) doveva fare un servizio su Moro». 
Come lo avrebbe saputo non lo dice e sarebbe utile saperlo, visto che non lavora in Rai. Pazienza spiega di essersi mosso autonomamente, rivolgendosi a Lovatelli Ravarino per chiedergli notizie su una vicenda collegata al sequestro per «dare una mano». Nello scambio whatsapp con Lovatelli Ravarino, documentato dallo screenshot (vedi qui), scrive però «Ti contatterà Sigfrido Ranucci se mi dai l’ok per dargli il tuo numero». Lovatelli lo autorizza.

Le rivelazioni di Dark Side

Non vorremmo essere troppo puntigliosi ma l’espressione «Ti contatterà» lascia intendere che ci sia stato un pregresso accordo con Ranucci o comunque l’intenzione di contattarlo immediatamente. Di questo parleremo meglio in una prossima puntata, per ora limitiamoci ad una grossa novità emersa ieri nel corso di una nuova intervista a Pazienza trasmessa sul sito di Dark Side, un format complottista che si occupa della «storia segreta d’Italia», curato da Gianluca Zanella, agente letterario che ha promosso il libro, La versione di Pazienza, scritto da Pazienza stesso, e si occupava di inchieste sul Giornale.it insieme al suo amico Marcello Altamura, giornalista su Cronache di Napoli e in passato sul Giornale, autore di un libro su Maradona e di uno su Senzani.
Nel corso della intervista, Pazienza ribadisce quanto già detto all’Adnkronos sul rapporto nato «un paio di anni fa» con Ranucci. Ma dal minuto 4 possiamo sentire (clicca qui):

«Conosco Ranucci da due anni e mezzo perché Ranucci scrisse alcune imprecisioni su di me, io gli dimostrai che quello che aveva detto era assolutamente contrario alla verità con documenti alla mano e lui molto onestamente rilasciò una dichiarazione Ansa in cui diceva chiaramente che era incorso in una imprecisione nei miei confronti. Da quel momento è nato un rapporto amichevole con Ranucci, è tutto qui né più né meno […] Adesso io non faccio la lista ma ci sono alcuni enormi scoop fatti dalla Rai che sono stati fatti grazie a me».

Zanella non incalza Pazienza, non gli pone subito la domanda giusta: quali sarebbero questi scoop e per quali trasmissioni della Rai li avrebbe forniti?

Ricapitoliamo
Pazienza conosce Ranucci da due anni e mezzo, si sono sentiti più volte. Ranucci è il conduttore di Report dal 2017 e vicedirettore di Rai Tre dal 2020.
Credo che tutti cittadini che pagano il canone Rai vorrebbero sapere quale sia la natura dei rapporti che intercorre tra Ranucci e Pazienza e quali scoop egli ha fornito alla Rai o a Report?

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