Il caso Caffarella ha radici nel patriarcato e conseguenze attuali, penali e morali. E chi le denuncia viene querelato
Anita Cenci
Liberazione 7 ottobre 2009
Un coro di polemiche ha accolto la sentenza emessa lunedì scorso dal giudice per l’udienza preliminare, Luigi Fiasconaro, nei confronti dei due autori dello stupro commesso nel parco romano della Caffarella (quelli veri, non i due arrestati inizialmente, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, contro i quali questura e procura si accanirono per settimane nonostante il test del dna li avesse scagionati). La condanna di Oltean Gravila e Jounut Jean Alexandru, rispettivamente a 11 anni e 4 mesi e 6 anni, è stata considerata da diversi esponenti politici e dallo stesso sindaco di Roma Alemanno «troppo mite», «blanda», un «premio» per gli stupratori. Il 14 febbraio di quest’anno un’adolescente di 14 anni era stata sorpresa insieme al suo fidanzatino in un anfratto del parco e sottoposta a brutale violenza. Il ventiseienne Oltean Gravila, che all’esito delle indagini è risultato essere un sex offender seriale, doveva rispondere anche di un’altra violenza contro una donna portata a termine nel luglio precedente a Villa Gordiani. Per il gioco del cumulo delle pene e della riduzione automatica di un terzo prevista dal rito abbreviato, formula procedurale che facilita la speditezza del processo, i due hanno ottenuto sanzioni più basse rispetto alla pena edittale di 12 anni stabilita per questo tipo di reato. Gravila si è visto somministrare 7 anni per lo stupro di san Valentino, saliti a 11 e 4 per l’altro episodio. Il giudice ha invece riconosciuto al diciottenne Jounut le attenuanti generiche per la giovane età e l’assenza di precedenti penali.
Patriarcato penale
Come al solito l’entità delle condanne inferte non ha soddisfatto un’opinione pubblica sobillata dal mito purificatore della punizione che traversa la società. Tra i politici che hanno commentato la sentenza c’è addirittura chi ha strumentalmente chiesto l’ergastolo, come se il giudice potesse somministrare a suo piacimento una condanna che per questo delitto non è contemplata dal codice. Nella loro coazione a domandare punizioni sempre più feroci ed esemplari, queste polemiche sorvolano il fatto che all’interno di un codice penale che prevede condanne molto severe, i cui tetti massimi sono tra i più alti d’Occidente, il reato di violenza sessuale è paradossalmente punito con una pena inferiore ad altri episodi delittuosi che suscitano nel senso comune minore esecrazione. La richiesta di condanne inesorabili esula dunque il problema di fondo, ovvero il pregiudizio patriarcale che ha sempre relegato lo stupro, la violenza carnale, a delitto minore. Il codice Rocco, cioè il nostro codice penale ereditato dal fascismo, ha considerato per oltre 60 anni la violenza sessuale e l’incesto dei delitti “contro la moralità pubblica e il buon costume” (divisi in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all’onore sessuale”) e “contro la morale familiare”. Addirittura l’articolo 544 c.p. ammetteva il ”matrimonio riparatore” come circostanza che poteva estinguere il reato. È solo negli anni 70, grazie all’azione del movimento femminista e alla grande ondata di lotte sociali, che la società prende coscienza del problema e si fa strada l’idea che la violenza sessuale sia un reato contro la persona. Tuttavia soltanto nel 1981 viene abrogata la clausola del matrimonio riparatore. Ci vollero ancora 15 anni prima che si affermasse, con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona coartata nella sua libertà sessuale. Chi polemizza oggi farebbe bene a chiedersi su quale fronte era all’epoca.
L’uso politico dello stupro
Pochi decenni fa si pensava che la violenza sessuale andava combattuta dentro la società, modificando rapporti sociali e modelli culturali e educativi che relegavano la donna a ruoli subalterni e istigavano nell’uomo modelli predatori. Oggi molto è cambiato nella stessa condizione della donna, spesso proiettata in ruoli di primo piano. La violenza sessuale tuttavia permane e nelle reazioni attuali prevalgono le figure del male insieme a una riprovazione etica portatrice di un sottofondo morale spietato. Non per questo però la lettura dei fatti sociali è migliorata, la capacità di previsione cresciuta, la risposta fornita ai delitti più efficace. Lo spettacolo della cronaca nera annichilisce, inchioda alle poltrone, spinge a barricarsi in casa, votare chi promette “legge e ordine”. Negli ultimi anni il tema degli stupri, delle aggressioni sessuali legate strumentalmente alla figura dello straniero, dell’immigrato clandestino, sono diventati argomenti centrali del marketing politico e dell’immaginario sociale. L’ossessione dello sperma straniero che s’insinua nella comunità corrompendone la purezza è da sempre uno degli archetipi prediletti dal razzismo e dalla xenofobia, l’incubo che agita i sonni malati della destra e delle attuali tendenze neoidentitarie che si diffondono nelle periferie. Anche ai migranti italiani che traversarono gli oceani o valicarono le Alpi toccò d’essere considerati potenziali stupratori, truffatori, accoltellatori, terroristi e crumiri che rubavano il lavoro altrui. Tutto già visto e velocemente dimenticato. Le donne sono da sempre le figure cerniera dei processi d’integrazione. Sul corpo delle donne si gioca una battaglia decisiva. È attraverso la loro capacità procreatrice che si costruiscono nuove società, si fondono culture. La donna può essere un veicolo di mescolanza. Non è un caso dunque se il corpo della donna sia utilizzato per erigere politiche xenofobe. La brutale violenza della Caffarella, dopo una campagna che faceva leva anche su altri episodi, è servita al governo per varare l’ennesimo pacchetto sicurezza e introdurre le ronde.
Inchiesta poco esemplare
La sentenza emessa lunedì chiude una vicenda che oltre ad aver impressionato l’opinione pubblica per la brutalità della violenza perpetrata contro un’adolescente, chiamata ora a trovare dentro di sé la forza che le consenta nei prossimi anni di sormontare un trauma così profondo, ha suscitato molte polemiche per il modo in cui furono condotte le indagini. «La politica ha messo fretta», dichiarò in un’intervista il prefetto Serra. Isztoika e Racs, i primi due accusati ingiustamente, erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. L’adolescente aggredita non impiegò molto tempo a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto, gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta “riconosce” Isztoika. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: «L’abbiamo violentata per sfregio…». Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito percosse. Nessuno lo ascolta. Senza attendere le conferme tecniche, in questura si tengono trionfali conferenze stampa. I giornali dipingono ritratti agiografici degli inquirenti. Il questore non sta nella pelle: «Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti». Ma a rovinare la festa arrivano i test del dna. Le tracce dello stupro non appartengono ai due. A san Vitale fanno muro: «bastava quello che ci aveva riferito Isztoika per sbatterlo in galera», risponde il questore. Ma il punto è proprio questo, Isztoika aveva riferito solo dettagli ripresi dalla prima versione dei fatti fornita dai ragazzi. Una ricostruzione inesatta che i giovani modificarono pochi giorni dopo. Insomma il biondino era stato “indottrinato” visto che sul posto non c’era. Da chi? Resta il grande mistero dell’inchiesta. Un mistero che nessuno vuole chiarire. Rientrati in Romania, Isztoika e Racz raccontano a un quotidiano romeno (Adevarul, 18 giugno) le percosse e le pressioni subite, insieme a altri dettagli che smentiscono la versione ufficiale.
Un clima d’intimidazione
I due vengono messi in condizione di abbandonare l’Italia: persone non gradite perché “mostri” mancati e soprattutto involontari responsabili di un gigantesco danno d’immagine per la squadra mobile. A Racz, dopo una trasmissione televisiva, fanno balenare la promessa di un lavoro che non arriverà mai. Per tutta risposta Isztoika resta sotto inchiesta per «calunnia», avendo dichiarato il falso (surreale), mentre contro Racs la procura mantiene in piedi l’accusa per lo stupro di Primavalle, nonostante una sentenza contraria del tribunale del riesame e le ripetute contraddizioni in cui è caduta la vittima.
Nel frattempo Liberazione, che ha cercato di raccontare questa vicenda, è stata citata in giudizio di fronte al tribunale civile dal capo della squadra mobile romana, Vittorio Rizzi, protagonista delle indagini. Palese tentativo di mettere il bavaglio a un’informazione libera. Il dottor Rizzi sembra quasi voler attribuire a Liberazione i clamorosi errori incorsi nell’indagine, accusandola di volergli rovinare la carriera… Nei giorni in cui i più importanti quotidiani nazionali e il più grande quotidiano della capitale dedicavano (non senza critiche) pagine e pagine all’inchiesta, il capo della mobile era un nostro fedele lettore. Lo ringraziamo per questo. Per giustificare la sua azione legale ha addirittura chiamato in causa la vicenda del commissario Calabresi, proponendo un parallelo tra le cronache che questo giornale ha dedicato alle indagini sullo stupro della Caffarella con la campagna condotta a suo tempo da Lotta continua contro il commissario ucciso nel 1972. Alla luce di ciò, chiosa a conclusione della querela il suo legale, è di tutta evidenza che rivolgergli delle critiche «in un quotidiano tra i cui lettori è verosimile che vi siano militanti della sinistra più estrema[…] significa esporlo ad un ingiustificato rischio per la propria incolumità personale». Dire che tutto ciò è totalmente destituito di fondamento, è un’ovvietà. Registriamo invece la pesante insinuazione. Che il capo della polizia se la prenda con un giornale d’opposizione la dice lunga sul clima politico che stiamo vivendo. Arrivederci in tribunale.
Le puntate della montatura poliziesca sullo stupro della Caffarella
Il capo della mobile querela Liberazione
L’uso politico dello stupratore
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso
La fabbrica dei mostri
Racs innocente e senza lavoro
Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos?
Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs
Stupro della Caffarella
Negativi i test del Dna fatti in Romania
Racs non c’entra
Non sono colpevoli ma restano in carcere
Parlano i conoscenti di Racs
La difesa di Racs denuncia maltrattamenti
L’accanimento giudiziario
Non esiste il cromosoma romeno
Tante botte per trovare prove che non ci sono
Quando il teorema vince sulle prove
L’inchiesta sprofonda
È razzismo parlare di Dna romeno
Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro