Il retroscena della cattura di Cesare Battisti, l’inchiesta sporca che nessuno vi racconterà mai

Pubblichiamno alcuni estratti del libro “La polizia della storia, la fabbrica delle false notizie nell’affaire Moro”, all’interno del quale si raccontano i retroscena della cattura di Cesare Battisti in Bolivia, la clonazione del telefono del suo avvocato e l’intercettazione dell’intera attività difensiva, condotta dalla digos su mandato della procura milanese, una volta incarcerato in Italia

«L’attività che ha condotto alla cattura di Cesare Battisti – scriveva la Digos in un rapporto del 24 gennaio 2019 – ha avuto inizio il 16 ottobre 2018 con la richiesta di delega alla Procura generale per l’espletamento dell’attività tecnica»(1). Dodici giorni prima della elezione del leader della destra Jair Bolsonaro alla Presidenza della repubblica brasiliana si erano attivate le intercettazioni sulle linee telefoniche in uso a Battisti ma dopo il 31 ottobre queste risultavano silenti. L’irreperibilità ufficiale di Battisti veniva accertata il 13 dicembre 2018, quando funzionari della Polizia italiana si erano recati a San Paolo per prenderlo in consegna dopo che Bolsonaro aveva revocato l’asilo concesso dall’ex Presidente Lula, incarcerato nel frattempo a seguito di una sorta di «golpe giudiziario».

L’informatore
Secondo la Polizia Battisti si era allontanato nel mese di novembre. Ricorrendo a servizi tecnici «esterni» – è scritto sempre nel rapporto – veniva ricostruito il percorso effettuato dall’ultimo telefono cellulare di Battisti. L’informazione decisiva perveniva però attraverso un metodo classico, la delazione: da un account di posta elettronica dal nome estremamente evocativo, «judas3636@gmail.com», martedì 4 dicembre 2018, alle ore 16.32, giungeva all’ufficio visti delle sede diplomatica italiana di La Paz il seguente messaggio: «Buon giorno, potremmo fornire informazioni preziose su una persona che state cercando da molto tempo, ciò che vorremmo sapere è cosa potrebbe guadagnare la persona che prende il rischio di fornire informazioni sulla sua posizione esatta. Stiamo parlando di Cesare Battisti. Buona giornata». Il giorno successivo l’autore del messaggio veniva identificato: viveva a Santa Cruz de la Sierra, dove immediatamente si concentrarono le indagini. Il rapporto citava il nome di un altro cittadino boliviano che pare avesse preso in consegna Battisti al suo ingresso nel paese. Le verifiche accertarono che «Judas» e questo secondo uomo erano in contatto e che insieme avevano raccolto Battisti dalla frontiera brasiliana per condurlo in un hotel di Santa Cruz, dove aveva soggiornato dal 16 novembre al 21 dicembre. «Il 7 gennaio perveniva una segnalazione della Digos di Milano concernente la possibile presenza del ricercato nella città di La Paz», a scriverlo in un secondo rapporto erano la Dcpp e lo Scip(2). Le indagini si spostarono nella capitale boliviana, dove Battisti cercava di ottenere protezione da parte delle autorità attraverso contati con settori politici. Appariva chiaro che il suo ingresso in Bolivia era avvenuto in modo precipitoso senza un’adeguata preparazione con contatti politici di livello. Grazie al controllo di una serie di telefoni intestati a prestanome, l’uso d’informazioni d’intelligence che utilizzavano fonti molto informate e servizi di appostamento in settori precisi della città, la trappola attorno al ricercato si chiudeva inesorabilmente, finché nel pomeriggio del 12 gennaio 2019 veniva riconosciuto in strada da agenti della polizia locale e tratto in arresto.

La Digos clona il telefono dell’avvocato
Nel mese di gennaio, mentre si stringeva il cerchio attorno al latitante, la Digos milanese lavorava sul telefono di un suo familiare italiano da lui più volte contattato. Dopo l’iniziale intercettazione della linea telefonica, come da prassi erano stati chiesti al gestore i tabulati con il traffico pregresso. Infine il telefonino era stato clonato, una tecnica che consente di poter leggere da remoto tutte le conversazioni via social che sfuggono alle normali intercettazioni della linea telefonica. Dall’analisi del traffico degli ultimi due anni, trattenuti per legge, emergevano dei contatti tra me e il familiare risalenti all’ottobre del 2017, quando Battisti era stato fermato vicino alla frontiera boliviana e arrestato con l’accusa di esportazione della valuta che aveva con sé. Avevo sentito questa persona per consigliarle di prendere un avvocato ed essere pronta al peggio, nel caso Battisti fosse stato ricondotto in Italia, come sembrava in quel momento. Quando mi chiese aiuto per trovare un legale la misi in contatto con l’avvocato Davide Steccanella, mio amico, che si era reso disponibile a prenderne la difesa nella malaugurata ipotesi di una sua estradizione. Le passai anche il numero del Garante nazionale dei detenuti, perché immaginavo – vista la mia personale esperienza dopo la riconsegna all’Italia nel 2002 – che il trattamento penitenziario riservatogli sarebbe stato dei peggiori. Non avevo tutti i torti, visto quel che poi è accaduto una volta ricondotto in Italia. Avevo conosciuto Battisti a Parigi, anche se non c’era tra noi una frequentazione personale. Ci incontravamo con altri rifugiati più che altro in situazioni di «crisi», quando c’erano discussioni politiche sul da farsi. Avevo invece seguito tutte le vertenze estradizionali, la sua e quella di Marina Petrella, perché ne scrivevo, sia quando ero in carcere che in semilibertà, in particolare quando iniziai a lavorare presso il quotidiano «Liberazione». Al giornale mi avevano affidato anche questo incarico: ho scritto più di settanta articoli sulle vicende dell’esilio, delle estradizioni e della cosiddetta dottrina Mitterrand. Sono stato il primo a intervistare in Italia Tarso Genro, il Ministro della Giustizia brasiliano che aveva concesso la prima forma di asilo a Battisti, e che tutti denigravano senza nemmeno ascoltare le sue argomentazioni(3). Sono bastati questi pochi contatti telefonici con alcuni familiari di Battisti per indurre la Digos ambrosiana a ritenere che io fossi a capo di un «rete» che forniva sostegno ai latitanti sparpagliati in mezzo mondo, una sorta di nuovo «Soccorso rosso internazionale», e l’avvocato Steccanella gestisse dall’Italia la latitanza di Battisti fornendogli contatti in loco. Nella richiesta di acquisizione del traffico telefonico pregresso e delle tracce lasciate dai cellulari e schede trovate addosso a Battisti, datata 28 gennaio 2019, venivamo descritti in questo modo: «si tratta di soggetti che almeno dall’ottobre 2018 avevano costantemente seguito e coadiuvato la latitanza di Battisti con informazioni logistiche, consentendogli di trovare ospitalità e mezzi di trasporto, tramite conoscenti, in terra sudamericana ovvero reperire e utilizzare strumenti di comunicazione idonei a mantenere la rete di contatti in una sorta di “cordone sanitario” della propria latitanza». Il 10 gennaio 2019 la Procura generale dispose la clonazione del telefono dell’avvocato Steccanella con l’obiettivo di poter «reperire ulteriori e più circostanziati elementi utili alla esatta localizzazione del latitante», avvalendosi di una giovane società del settore, la BitCorp, che nel preventivo di spesa (500 euro al giorno) forniva chiarimenti sulle modalità di clonazione, ottenuta effettuando: «una serie di “interrogazioni” ai webservice che servono le applicazioni all’interno del sistema che prendiamo come obiettivo. […] In tale modo si è in grado di ricevere in tempo reale ogni flusso di traffico dati generato o transitato attraverso il dispositivo target, in quanto gli stessi webservice ci riconoscono quali legittimi destinatari del flusso»(4). Di questa clonazione l’avvocato Steccanella è venuto a sapere soltanto nel 2021 quando, dopo aver esaminato il fascicolo, l’ho informato personalmente. La clonazione del cellulare dell’avvocato Steccanella è uno – non il solo – degli episodi più sconcertanti e paradossali di questa inchiesta, poiché era avvenuta quando le stesse indagini avevano accertato che Battisti si era avvalso di contatti locali, dimostratisi del tutto inaffidabili, persino estranei a circoli politici. Molto probabilmente la scelta di indirizzare l’inchiesta verso «complici italiani» rispondeva a input politico-ministeriali e a una sorta di effetto doping che la cattura di Battisti aveva suscitato negli apparati di polizia e nella Procura milanese. Una sorta di rottura dei freni inibitori che aveva lasciato via libera alle pulsioni più paranoiche e alla voglia di regolare i conti con quei pochi che in Italia avevano sempre sostenuto pubblicamente le battaglie contro le estradizioni degli esuli degli anni Settanta.

«L’intercettazione dell’attività difensiva»
Quando, il 14 gennaio, Battisti nominò come suo legale di fiducia l’avvocato Steccanella, che da quattro giorni aveva il telefono clonato, nella Procura di Milano deve esserci stato grande imbarazzo e forse anche qualcosa di più. Con il passaggio formale dell’inchiesta dalla Procura generale, che aveva esaurito la propria competenza con la cattura del latitante e la notifica del provvedimento di esecuzione pena, la direzione delle indagini perveniva nelle mani del Coordinatore della sezione distrettuale antiterrorismo, Alberto Nobili, che apriva una inchiesta per identificare i «complici italiani della latitanza di Battisti», ipotizzando il reato di «assistenza ad appartenenti ad associazione sovversiva» (270 ter). Evaso dal carcere di Frosinone il 4 ottobre del 1981, Cesare Battisti era stato lontano dall’Italia trentotto anni: approdato inizialmente in Francia, si era trasferito in Messico per ritornare a Parigi nel 1990, nel 2004 fuggire di nuovo in Brasile e infine nel 2018 approdare per pochi settimane in Bolivia. Nonostante avesse vissuto buona parte della propria esistenza tra Nord Europa e Centro-Sud America, secondo la Digos e la Procura di Milano i complici della sua libertà, quelli che lo avrebbero appoggiato per decenni, stavano in Italia, anzi stavano nelle carceri italiane. Mentre Battisti era in Francia e in Brasile, dal 2002 al 2014 mi trovavo in un cella italiana a da lì – secondo la Digos milanese – l’avrei appoggiato, senza aver mai conosciuto altri paesi fuorché l’Italia e la Francia, senza parlare una parola di portoghese e spagnolo e saper nulla del Sud America, trovandogli rifugio e contati in Brasile e Bolivia. Appena la Procura prese in mano le redini della nuova inchiesta fece «omissare» dall’indagine i risultati della clonazione effettuata sul telefono dell’avvocato Steccanella e il 24 gennaio 2019 dispose «con precedenza assoluta» l’intercettazione e localizzazione delle utenze del mio intero nucleo familiare e dei familiari di Battisti, che si protrarrà fino al maggio successivo. L’ avvocato Steccanella si era gettato anima e corpo in questa nuova impresa, nel frattempo Battisti era stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove, col pretesto dei sei mesi di isolamento diurno previsti nella sentenza di condanna (una pena accessoria eredità dell’epoca fascista), era stata aperta un’ala solo per lui. Di fatto gli era stata costruita attorno una piccola sezione di 41 bis abusivo, nonostante l’ordinamento non consentisse questo regime detentivo per la sua fascia di reato. Non ero per nulla stupito di questo trattamento: nel corso delle conversazioni telefoniche che scambiavo col mio amico avvocato spiegavo che ai rifugiati ricondotti in Italia veniva fatta scontare una pena supplementare, che non stava scritta da nessuna parte, il «reato di esilio». Gli raccontavo la mia esperienza, la condizione di «trofeo della repubblica» sul quale si erano sfogati decenni di frustrazioni suscitate nei vertici delle forze di polizia e della magistratura dal rifiuto delle estradizioni e dalla politica di Mitterrand. Gli ricordavo quel povero magistrato bolognese che durante un interrogatorio mi disse che la Francia da decenni tramava contro la democrazia italiana fornendo riparo agli esuli degli anni Settanta e per questo aveva trasformato Parigi in un «santuario della lotta armata». Era la fine del 2002, e mentre in Parlamento si legiferava sulla stabilizzazione normativa del 41 bis, mi avevano già condotto in isolamento a Marino del Tronto, penitenziario di massima sicurezza dove era presente un importante reparto con regime 41 bis. Se non fosse stato per l’ostinata battaglia di una pattuglia di parlamentari garantisti le nuove norme mi avrebbero spedito sotto quel regime detentivo per il resto della pena.
Il rientro di Battisti in Italia era avvolto da un vuoto giuridico: la Bolivia non lo aveva estradato e la procedura di espulsione non era stata rispettata. E siccome il vuoto in diritto non può esistere, l’unico titolo giuridico che faceva testo era il provvedimento di estradizione brasiliano a cui si ancorava l’accordo bilaterale sulla commutazione della pena dall’ergastolo a trent’anni, concluso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando con l’omologo brasiliano il 7 ottobre 2017. Accordo che aveva sbloccato l’estradizione. Intanto Digos e Polizia di prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa. Ricorrendo agli strumenti dell’indagine difensiva, l’avvocato Steccanella ottenne dal Ministero della Giustizia copia dell’accordo di commutazione della pena pubblicato dall’«Adnkronos» il 7 maggio 2019, ma le sue richieste davanti alla Corte d’appello di Milano non ottennero successo anche se i giudici sottolinearono che i reati di Battisti non impedivano l’accesso ai benefici di legge.

Note
1/ Questura di Milano, Digos, «Riepilogo attività delegata che ha condotto alla cattura del latitante Battisti Cesare» a firma Vice Ispettore Ivan Pavesi, Vice Questore Cristina Villa, 24 gennaio 2019.
2/ Direzione centrale della Polizia di prevenzione e Servizio per la cooperazione internazionale della polizia, «Relazione di servizio», a firma Giuseppe Codispoti, Emilio Russo, Sandro Chiatto, 23 gennaio 2019.
3/ P. Persichetti, Caso Battisti, parla Tarso Genro: «Anni Settanta in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo», «Liberazione», 11 ottobre 2009, anche in, https://insorgenze.net/2009/11/12/caso-battisti-parla-tarso-genro-%c2%abanni-70-in-italia-giustizia-d%e2%80%99eccezione-non-fascismo%c2%bb/; e ancora in, P. Persichetti, «Battisti, Genro: L’italia si è dimostrata autoritaria e arrogante», «Liberazione», 14 novembre 2009, in https://insorgenze.net/2009/11/14/battisti-genro-litalia-e-stata-autoritaria-e-arrogante/.
4/ BitCorp, «Offerta per servizio di intercettazione telematica ibrida e localizzazione su dispositivi mobili», Milano, 8 gennaio 2019.

I mal di pancia dell’ex procuratore Giancarlo Caselli

Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo».
I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione.
Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni.
Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato.
A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione.
Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni.
Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.

Archivio Persichetti, dopo 16 mesi per il Gip «l’imputazione ancora non c’è ma l’inchiesta continua»

«L’accusa ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai» è questo il passaggio decisivo che riassume la sostanza di un’inchiesta che ha messo sotto accusa la libertà di ricerca storica. Lo scrive il Gip del Tribunale di Roma Valerio Savio in chiusura del provvedimento in cui si nega per il momento la riconsegna delle copie forensi, ovvero il clone digitale del mio archivio sequestrato ormai 16 mesi fa: «rilevato ancora come non si pongano questioni in ordine alla riservatezza dei dati, tuttora coperti da segreto investigativo; laddove per altro profilo ogni questione di “utilizzabilità“ dei dati medesimi è semplicemente prematura e allo stato non importabile, in assenza di una imputazione che tuttora potrebbe ancora non essere mai formulata».

La procura inizialmente aveva contestato il reato associativo
Il 9 giugno del 2021 una nutrita truppa di poliziotti di tre diversi servizi della polizia di Stato aveva occupato il mio appartamento con un mandato di perquisizione e sequestro dei miei strumenti di lavoro: l’archivio di materiali storici raccolto in anni di ricerche, computer, tablet, telefoni, pendrive, hard disk e schede di memoria di ogni tipo. Sotto la guida di funzionari della Polizia di prevenzione, gli agenti della Digos e della Polizia postale in realtà portarono via anche l’intero archivio di famiglia: cartelle scolastiche e cliniche dei miei figli di cui uno disabile, l’archivio amministrativo, l’intero archivio fotografico della mia compagna. Le imputazioni iniziali, mosse dalla Procura della repubblica e dalla Procura generale, erano l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp), rapidamente evaporata dall’inchiesta, e il favoreggiamento (378 cp).

La giostra delle accuse
Nel corso dell’inchiesta si sono succedute ben 5 imputazioni: prima della perquisizione l’indagine si era aperta ipotizzando una violazione di segreto d’ufficio (prima imputazione), successivamente lievitata in associazione sovversiva a scopo di terrorismo (seconda imputazione) e favoreggiamento (terza imputazione). Nel luglio del 2021 il Tribunale della libertà, sollevando dubbi sulle precedenti incolpazioni, evocate – a suo dire – «senza indicare precise condotte di reato», suggerì una nuova accusa: «violazione di notizia riservata» (quarta imputazione), che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando attraverso la posta elettronica avevo inviato alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo e sul quale non era mai stato posto alcun segreto, nemmeno funzionale. Pagine destinate a un gruppo di persone coinvolte insieme a me nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera). Nell’ottobre successivo, cioè un anno fa, il Gip scrisse in uno dei suoi provvedimenti che, in realtà, mancava «una formulata incolpazione anche provvisoria» (leggi qui). Insomma le uniche certezze dell’indagine erano il sequestro del mio archivio, le intercettazioni della posta elettronica, ma non l’esistenza di un reato per cui tutto ciò avveniva. A quel punto la procura sposando la richiesta di incidente probatorio sul materiale sequestrato, avanzato in precedenza dal mio avvocato, si attestò nuovamente sull’accusa di favoreggiamento (quinta imputazione).

La perizia accerta l’assenza di materiale riservato ma la procura non si arrende
A fine aprile 2022 il perito del tribunale dopo aver clonato i 27 supporti sequestrati estrae 725 elementi attinenti all’indagine: 589 pdf, 117 immagini, 1 video, 13 files testo e 5 folder, per buona parte scaricati dal sito di un ex membro della Commissione Moro (i (https://gerograssi.it/b131-b175/#B131). In nessuno di essi è presente materiale riservato. Per la procura è un clamoroso buco nell’acqua (leggi qui) ma nonostante ciò il pm si oppone alla riconsegna dell’archivio e il Gip lo appoggia. La procura chiede alla Polizia di prevenzione di analizzare il materiale estratto dal perito e a fine maggio dispone la riconsegna dei 23 supporti nei quali il perito non aveva trovato elementi attinenti all’indagine ma trattiene le copie forensi.

La Procura riconsegna il materiale sequestrato ma trattiene le copie forensi dell’archivio
Nel frattempo la Polizia di prevenzione analizza il materiale individuato dal perito e il 9 luglio 2022 invia una informativa alla pubblico ministero Albamonte, titolare dell’indagine, nel quale «si da riscontro dei contenuti dei file estrapolati dal perito nel corpo dell’incidente probatorio». In seguito a questa informativa il 26 luglio il pm dispone la riconsegna dei due telefonini, del tablet e del computer e dello spazio cloud ancora sequestrati ma anche in questo caso trattiene le copie forensi, ovvero il clone digitale dell’intero materiale presente nei quattro supporti, «in quanto – scrive il pm – costituiscono necessario compendio del fascicolo fino alla sua definizione e risultano tutt’ora utili ad approfondire le indagini circa la provenienza del materiale riservato trovato nella disponibilità del Persichetti».

Un’inchiesta senza più reato
L’avvocato Francesco Romeo chiede la visione dell’informativa della Polizia di prevenzione che aveva provocato l’improvviso cambio di atteggiamento della Procura ma la Procura oppone un rifiuto. A quel punto solleva un nuovo ricorso contro la decisone del pm per riavere le copie forensi dell’intero materiale portato via il 9 giugno 2021. L’impugnazione viene discussa lo scorso 30 settembre, per il Gip nonostante «l’assenza di una imputazione», che addirittura «potrebbe non essere mai formulata», le copie forensi dell’archivio devono restare in mano alla procura fino alla conclusione dell’indagine. Con buona pace della libertà di ricerca storica.

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

«Da 12 mesi i miei archivi in mano alla polizia della Storia e al complottismo…»

Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi storico e ricercatore, è accusato di aver diffuso documenti riservati della Commissione Moro 2: se le perizie hanno smontato la tesi dei Pm perché il materiale delle sue ricerche rimane sotto sequestro?

Daniele Zaccaria, Il Dubbio 9 giugno 2022

Sono passati 12 mesi da quando la procura di Roma gli ha sequestrato archivi cartacei, computer, telefoni, tablet, pieni di email, foto, video in larga parte materiale privato di nessuna rilevanza che giace ancora nelle mani degli inquirenti. Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi apprezzato storico e ricercatore, avrebbe diffuso documenti riservati della Commisione Moro 2 allo scopo di favorire, non si sa in che modo, dei latitanti. Le indagini non hanno confermato nessuna delle accuse, al contrario le perizie dei file hanno escluso che si trattasse di materiale sottoposto a segreto, ma Persichetti non ha ancora avuto indietro i suoi file. Convincendosi che lo scopo del sequestro non sia accertare le accuse, ma ostacolare con ogni mezzo il suo lavoro storiografico sugli anni di piombo, la sua lotta incessante contro le dietrologie, contro le ricostruzioni fantasy e i complottismi sul sequestro Moro puntualmente smentite dai fatti ma che continuano a titillare ampi settori della politica, della magistratura e degli apparati di sicurezza dello Stato. Tesi ben illustrate nel suo ultimo, documentatissimo libro, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato da Derive e Approdi. «La polizia della Storia non è soltanto una metafora suggestiva, ma un fatto concreto: in Italia ci sono poliziotti che indagano in carne e ossa sugli archivi, che presidiano la memoria e decidono su cosa si possa o no fare della ricerca, è assurdo!».

Perché questo accanimento?
Credo che questo sia tutto un pretesto, il vero problema è che vogliono il mio archivio e tenerselo il più tempo possibile per bloccarmi e intralciare il mio lavoro di ricerca, magari nell’idea di non restituirmelo mai più per neutralizzarmi del tutto. Non vedo altra ragione: dopo un anno sono crollate tutte le accuse, la perizia, ripeto, ha stabilito che non c’è nulla di rilevante, il teorema come si capiva fin dall’inizio, era del tutto infondato.

Cosa sosteneva il “teorema”?
Che io avessi trasmesso ad altre persone del materiale riservato della Commissione Moro 2, in particolare la bozza della prima relazione annuale che non è un atto riservato nemmeno per i criteri interni della Commissione, ma un documento politico destinato ad essere pubblico che deve essere votato ed emendato. Siamo nel campo di interpretazioni infondate. La bozza è stata utilizzata come espediente per cercare nel mio archivio documenti davvero riservati ma non li hanno trovati perché semplicemente non ci sono, non li ho mai avuti e non ne ho accesso.

Quale sarebbe stata la finalità?
Siamo nel cuore del teorema : mi hanno accusato di favoreggiamento, ossia avrei svolto una sorta di attività di intelligence, appropriandomi di atti riservati e avrei condiviso il materiale con due latitanti, allo scopo di favorire la loro latitanza. Stiamo parlando di persone latitanti da oltre trent’anni, dai tempi in cui ero minorenne, peraltro uno di loro, Alvaro Lojacono ha già scontato la sua pena, mentre con l’altro, Alessio Casimirri, non ho mai avuto contatti, non ci ho mai parlato. E infatti non è stata agomentata nei miei confronti nessuna ipotesi accusatoria, ma solo un generico favoreggiamento. La cosa surreale è che tutto nasce dalle “recensioni” della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos n.d.r) che ha letto le bozze del libro sulla storia delle Brigate rosse a cui ho partecipato, trovandole sospette.

In che senso “recensioni”?
Secondo i funzionari della polizia di prevenzione, che svolgono sia attività di intelligence che di polizia giudiziaria, nelle mie carte ci sarebbero tesi che non corrispondono agli esiti processuali. Inoltre sostengono che nelle mie mail sarebbero citati episodi e fatti che poi non ho inserito nel libro e questo giustificherebbe il presunto favoreggiamento. È ridicolo.

A quali fatti si riferiscono?
Alla via di fuga del commando brigatista che ha sequestrato Moro e al secondo furgone, che avrebbe dovuto entrare in scena nel caso le cose fossero andate male e di cui si occupò Lojacono, ma che non fu mai utilizzato. Se io scopro dei dettagli che non erano emersi nei processi ma lo faccio senza avere elementi tali da riempire una pagina di storia, a causa di testimonianze incongruenti e contrasti di memoria, è mia responsabilità di ricercatore non pubblicarli, è una questione di serietà. E stiamo parlando di un aspetto del tutto secondario di cui nessuno si è mai interessato fino ad ora. Coinvolgermi in questa vicenda fa parte della narrazione dietrologica sul caso Moro che circola da almeno trent’anni senza mai trovare riscontri nella realtà.

È molto difficile fare lavoro storiografico in queste condizioni?
Il problema principale è che c’è una sovrapposizione tra l’indagine della procura e le vecchie e mai dimostrate tesi dietrologiche e cospirazioniste sull’affaire Moro, trovo questo aspetto sconcertante. Soprattutto da quando, con le direttive Prodi e Renzi, sono stati resi pubblici gli archivi, un tempo monopolio della magistratura e dei consulenti delle commissioni, tutti personaggi lottizzati. È finita l’epoca in cui i documenti venivano citati a rovescio o a metà o con le sequenze sbagliate, oggi i ricercatori possono verificare tutto e questo ha prodotto un nuovo lavoro storiografico che smonta le narrazioni costruite fino ad oggi e questo fatto evidentemente dà fastidio. Al punto da creare il cortocircuito di cui parlavo.


E sembra ancora più difficile farlo sugli anni di piombo, ancora oggi un campo minato.
Se oggi qualcuno compie un lavoro di ricerca e di memorialistica sul ventennio fascista viene considerato uno storico, se invece lo fai sugli anni 70, sulla lotta armata, si parla di attività di propaganda se non addirittura peggio. Ho sentito persino l’incredibile definizione di “banda armata storiografica”.


C’è però anche un elemento personale, che riguarda la biografia dell’autore.
Certo, questo ahimé è un aspetto centrale: in sostanza non mi viene riconosciuto il fatto di aver scontato la pena e il diritto di poter svolgere ricerca storica su quegli anni. La conseguenza è che i miei studi non vengono considerati come una libera e disinteressata attività intellettuale, ma sarebbero un’ambigua opera di proselitismo, di favoreggiamento, di mantenimento di non si sa quali legami e quali vincoli associativi. Non avendo argomenti e non potendomi contestare sul merito subisco un attacco e una delegittimazione totale del mio lavoro di storico e della mia stessa persona. Non dovrei essere io a dirlo, ma trovo incredibile che in Italia non si parli di questa vicenda, di questa censura odiosa, del fatto che la polizia sequestri impunemente degli archivi e, pur non trovandoci dentro nulla, continui a tenerli sotto sequestro.

Quando l’Italia dava asilo agli attentatori De Gaulle

Agli smemorati che si indignano per la decisione della cassazione di Parigi di chiudere definitivamente il contenzioso con l’Italia sulle richieste di estradizione dei dieci ex militanti di gruppi armati di sinistra degli anni 70, riparati in Francia da diversi decenni, vale la pena ricordare che anche l’Italia negli anni 60 offrì protezione e rifiutò di estradare gli esponenti dell’Oas che attentarono contro il presidente francese De Gaulle oppure sul fronte opposto gli esponenti del Fronte di liberazione nazionale algerino

Esattamente un anno fa, nella serata di lunedì 28 marzo 2022 la rete televisiva pubblica francese France 2 ha trasmesso una inchiesta giornalistica all’interno di un format mensile di approfondimento, Affaires sensibles, dal titolo: «Brigate rosse, la fine dell’esilio?». Per circa 70 minuti gli spettatori d’Oltralpe hanno visto scorrere immagini che provavano a riassumere oltre 40 anni di politica d’asilo informale offerta ai rifugiati italiani degli anni 70, nota come «dottrina Mitterrand», anche se non si è mai trattato di una dottrina codificata ma di una politica di fatto, perseguita con alcune rilevanti eccezioni da ben quattro presidenti della Repubblica: Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande. Un dibattito tra l’avvocato e presidente onorario della Ligue des droits de l’homme, Henri Leclerc, e il giornalista della Stampa Paolo Levi, chiudeva la trasmissione. Il primo chiamato a difendere le ragioni giuridiche, politiche e umane di questa politica d’accoglienza, il secondo a dare voce un po’ sguaiata alle ragioni avverse dello Stato italiano. Nel tentativo di trovare argomenti suggestivi in favore della estradizione degli ex militanti italiani, ormai integrati da decenni nella società francese, il giornalista Paolo Levi ha paragonato le azioni mirate dei gruppi armati della sinistra dell’epoca, rivolte contro obiettivi selezionati delle gerarchie economiche, politiche e statuali italiane, a quelle indiscriminate dei jihadisti che dagli anni 90 in poi hanno insanguinato le città francesi, fino al massacro del Bataclan, molto più simili per la loro natura stragista alle bombe che in Italia fascisti e apparati dello Stato hanno disseminato nelle piazze e stazioni nei primi anni 70, provocando centinaia di morti e feriti. Preso dalla foga, l’inviato de la Stampa ha provocatoriamente chiesto cosa mai avrebbe pensato l’opinione pubblica francese se gli autori del massacro del Bataclan avessero trovato ospitalità in Francia. Levi avrebbe fatto bene a leggere qualche libro in più prima di lanciarsi in simili incauti paragoni, perché qualcosa di simile è già accaduto in passato. Durante la guerra d’Algeria, in Italia trovarono ospitalità e sostegno esponenti importanti dell’Oas, una organizzazione clandestina della destra francese messa in piedi da membri dell’Esercito e dei Servizi segreti contrari all’indipendenza dell’Algeria. La loro presenza in Italia era sottoposta alla stretta sorveglianza dell’Ufficio affari riservati, recenti studi hanno dimostrato che si avvalevano anche del sostegno del Sifar. Quando le autorità italiane non poterono fare a meno di arrestarli per le loro attività cospirative contro il presidente francese De Gaulle e persino contro Enrico Mattei, odiato per il sostegno che attraverso l’Eni forniva alle forze nazionali algerine, evitarono di estradarli favorendo la loro partenza verso Paesi amici o neutri. Uno di loro, Jean-Jacques Susini, beneficiò di una notevole impunità sul territorio italiano anche quando le autorità furono informate del suo coinvolgimento nel fallito attentato contro De Gaulle presso il monumento commemorativo del Monte Faron, a Tolone. Azione concepita in territorio italiano (1). Susini rimase quattro anni in Italia sotto la benevola protezione dalla polizia nonostante le condanne del Tribunale per la sicurezza dello Stato francese.
Al suo arrivo all’Eliseo, nel 1981, François Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta, con la differenza che i fuoriusciti italiani non hanno utilizzato il territorio francese come retroterra per fare incursioni in Italia. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta consigliere giuridico dell’Eliseo Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».

1 Pauline Picco, Liaisons dangereuses, Les extrême droites en France et en Italie, 1960-1984I, Presses universitaires de Rennes, Rennes, coll. « Histoire », 2016.

L’archivio di Persichetti resta nelle mani della magistratura. Per il Gip Savio è fisiologico sequestrare più del dovuto

Il Gip Valerio Savio non ha accolto la richiesta di restituzione del mio archivio personale di studio sugli anni 70 e la storia della lotta armata, sequestrato l’8 giugno 2021. Nonostante l’istanza fosse stata presentata la scorsa estate e discussa solo il 17 dicembre 2021, la decisione è giunta a poche ore dalla data fissata per l’avvio dell’incidente probatorio sul materiale sequestrato, prevista il prossimo venerdì 14 gennaio 2022.
Contravvenendo a quanto indicato nel mandato di perquisizione disposto dalla procura, l’8 giugno 2021 il personale di polizia non si era limitato a individuare e sequestrare la documentazione relativa alle attività della commissione parlamentare Moro 2, che interessava un’indagine dai contorni ancora incerti (nel tempo si sono susseguiti diversi capi d’imputazione: dalla violazione del segreto d’ufficio, all’associazione sovversiva, alla violazione di notizia riservata, al favoreggiamento) ma aveva portato via ogni tipo di supporto informatico. La difformità tra quanto indicato dalla procura e quanto effettivamente preso non era stata successivamente sanata dalla procura con la convalida del materiale sequestrato in eccedenza. Da qui la richiesta di annullamento e restituzione avanzata dall’avvocato Romeo.
Nel provvedimento di rigetto il Gip, pur ammettendo che nel corso della perquisizione vi è stato un «esteso e certo verosimilmente in parte inutile sequestro operato», ha tuttavia ritenuto di non dover censurare questo comportamento, ridimensionando l’operato della polizia come una «una fisiologica o comunque non abnorme estensione del mandato contenuto nel decreto di perquisizione».
Nella ordinanza è scritto anche che nel corso delle operazioni peritali di imminente inizio sarà «possibile discernere i dati utili alle indagini e quelli invece inerenti la vita privata della persona indagata (o comunque irrilevanti per le investigazioni) alla cui restituzione l’indagato legittimamente aspira, e limitare ai primi la copia forense).

Il sequestro Moro e quelle illusioni della memoria

Anticipazioni – Il Dubbio pubblica alcuni stralci del mio prossimo saggio “La polizia della Storia” che a partire dal sequestro del mio archivio di materiali storici (nonché documentazione dei miei figli e parte dell’archivio fotografico di mia moglie) affronta l’offensiva poliziesca e giudiziaria contro la ricerca storica indipendente. Nel volume sono raccolti una lunga serie di articoli e saggi sulla vicenda Moro, l’attività della Commisssione Moro 2 e la dietrologia

Daniele Zaccaria, Il Dubbio 27 novembre 2021

Vi ricordate il blitz della polizia nel paese di Gradoli durante i drammatici giorni del sequestro Moro? I blindati della celere, gli elicotteri, le unità cinofile, le perquisizioni “casa per casa”, “cantina per cantina”, gli sguardi attoniti degli abitanti del piccolo centro della Tuscia?
Immagini vivide, impresse nella memoria anche di chi scrive. Peccato che quel blitz tanto spettacolare quanto inutile non sia mai avvenuto e le forze dell’ordine non siano mai entrate a Gradoli per cercare il covo dove era prigioniero il presidente della Dc.
Una fake news come si dice oggi. Tutta la vicenda, poi era circondata da un fitto mistero; il nome di Gradoli emerge nella famosa seduta spiritica del 2 aprile 1978 tenuta da alcuni professori universitari tra cui Romano Prodi. Una boutade se non fosse che in via Gradoli a Roma ci fosse stata effettivamente una base delle Br che venne poi scoperta fortuitamente a causa di un guasto idraulico nell’appartamento.
«La comune convinzione che ci fu una perquisizione di massa nasce dalle immagini di un film di Giuseppe Ferrara sul rapimento Moro, apparso nel 1986, ben otto anni dopo i fatti. Fu proprio Ferrara a mettere in scena la perquisizione di fantasia i cui frames sono fissati nelle menti di molti, persino in quella del presidente della Commissione stragi che ribadì con forza questa sua convinzione: “Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, serbo ancora un ricordo preciso, si vedevano gli uomini con il mitra che entravamo e perquisivano un intero paese”».
A raccontare con dovizia di particolari questa vera e propria “illusione di memoria” che ci ha colpiti tutti è Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore che ha anticipato al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo lavoro “La polizia della Storia”, edito da Derive e Approdi.
Un’opera complessa di ricostruzione degli eventi come probabilmente nessuno aveva fatto prima, che si scontra inevitabilmente con i miraggi della percezione che offuscano fatti lontani nel tempo, a volte avvolgendoli in una densa cortina di fumo, altre volte operando scambi, sostituzioni, inversioni.
Lo storico rigoroso sa che i fatti non corrispondono alla memoria, e che attingere alle fonti seguendo una tesi da dimostrare a priori è uno degli errori più gravi che si possano commettere. Specialmente se la tesi è di natura politica.
La narrazione complottista che da oltre quarant’anni avvelena i pozzi e accompagna il sequestro Moro (senza mai aver fornito una prova concreta), adombrando fantomatiche infiltrazioni e manipolazioni da parte di altrettanto fantomatici poteri occulti che avrebbero eterodiretto i brigatisti ha contribuito non poco a traviare la nostra memoria.
Anche opere di scarso livello come i libri di Sergio Flamigni o pellicole fantasy come Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (di cui Flamigni è stato consulente storico) pur nella loro inverosimiglianza hanno nutrito l’inconscio cospirazionista naqzionale. Che in Italia è una specie di disposizione permanente, un habitus per dirla con Pierre Bordieu.
L’allucinazione collettiva del blitz della polizia nel paese di Gradoli è solo un esempio di quanto sia difficile mettere a fuoco gli eventi, anche per chi agisce in buona fede e non ha interessi diretti nella vicenda. Peccato che questi bias cognitivi tracimino nella letteratura ufficiale, nelle aule di giustizia e nelle Commissioni parlamentari facendo a loro modo la “Storia”.
«Quando tra il 2014 e il 2015 ho iniziato il lavoro di ascolto delle fonti orali in parallelo alla raccolta dei documenti disponibili per la ricostruzione degli aspetti politici, logistici, e operativi del sequestro Moro ho scoperto che il memoriale Morucci e la ricostruzione effettuata in sede giudiziaria corrispondevano solo in parte a quanto realmente accaduto».
Secondo Persichetti le stesse “verità giudiziarie” sottoscritte dai giudici che hanno redatto la sentenza del Moro quater sono piene di approssimazioni, di piccoli grandi errori.
Ad esempio sempre secondo i giudici il primo trasbordo del prigioniero dalla Fiat 132 al furgone Fiat 850 sarebbe avvenuto in via Bitossi anziché piazza Madonna del Cenacolo, il che contrasta in modo flagrante con le testimonianze di tutti i membri del commando, da Valerio Morucci a Mario Moretti, a Prospero Gallinari. In realtà i brigatisti nella seconda parte della via di fuga utilizzano un altro mezzo ancora di cui non si sapeva l’esistenza: è la famosa Renault 4 rossa dove poi verrà ritrovato il corpo di Moro in via Caetani che venne usata da due membri del commando che dovevano dare appoggio a un secondo trasbordo del prigioniero previsto nel quartiere di Valle Aurelia che alla fine non avvenne.
Questa informazione è presente nelle carte del Moro quater ma inquirenti e giudici non l’hanno mai sfruttata probabilmente perché non hanno voluto dare credito al racconto della via di fuga fatto dai brigatisti. Se invece di sequestrare l’archivio di Persichetti per cercare reati alla cieca avessero riletto i documenti dei processi questi elementi sarebbero venuti alla luce.
Si tratta di aspetti  secondari del sequestro che non toglie o aggiunge granché al quadro d’insieme, ma la distorsione della memoria si annida anche nei dettagli apparentemente insignificanti, alimentata poi dal mormorio, quello senz’altro in malafede, delle dietrologie.
«Nella nostra ricerca ci siamo dovuti misurare costantemente con questa insidia, chi si confronta con la memoria sa che questa può giocare pericolosi tranelli. Per il ricercatore a volte è meglio confrontarsi con testimoni che hanno vuoti di memoria piuttosto che doversi misurare con le illusioni del passato, ricordi distorti e reinvenzioni che stravolgono i fatti».

Lo storico Marco Clementi, «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»

Quando il terremoto distrusse Amatrice e gli altri comuni vicini ero lì con la mia famiglia. Paolo Persichetti e la sua erano partiti da qualche giorno e quella mattina avremmo dovuto incontrarci in Umbria. Stavamo lavorando a un libro sul caso Moro e più in generale sugli anni della lotta armata in Italia assieme alla prof.ssa Elisa Santalena, che vive in Francia, e anche durante il periodo estivo ci si incontrava per consultarci. Paolo aveva fatto un lavoro egregio in Archivio di Stato, a Roma, quartiere Eur, dove era stata depositata una mole enorme di documentazione proveniente dalla PS, dai carabinieri, dai servizi (direttive Prodi e Renzi), passando intere settimane a leggere, ordinare e creare un suo inventario di carte che era il primo studioso in Italia a vedere.
Il mio archivio, che contiene documenti provenienti un po’ da tutto il mondo e in molte lingue straniere, si trovava a Capricchia, la frazione di Amatrice da dove è originario mio padre, mentre mia nonna era di Accumoli, tanto per non farci mancare nulla quella notte. Saputo della tragedia, Paolo corse con un amico. La casa, che avevamo ristrutturato da pochi anni, aveva tenuto. Entrammo e con calma, nei giorni successivi, nei momenti in cui non dovevamo provvedere all’ennesima emergenza, mettemmo in salvo l’archivio e circa mille libri, che avevo portato per aprire una biblioteca in paese. Pensavo, all’epoca, che la comunità dove ero nato meritasse un luogo di cultura, sebbene fossero rimasti in pochi a vivere stabilmente tra i Monti della Laga. E lo pensava anche Paolo, per quella che è ormai diventata la sua comunità di adozione.
Di adozione sua e della sua famiglia, con il piccolo Sirio, un bambino che adesso tutti conoscono come il “capo” dei Tetrabondi, un bambino con una forza e di una intelligenza rare, che sta superando ogni difficoltà che la vita gli ha posto di fronte fin dal ventesimo giorno dalla nascita grazie alle sue qualità e al lavoro instancabile dei suoi genitori.
Il dott. Persichetti è un grande papà. Poco mi importa che sia un docente mancato in Francia a causa della sua estradizione e che abbia passato anni in carcere. Resta tra i migliori ricercatori che abbia mai incontrato in quella che, purtroppo, può oramai definirsi una lunga carriera. Chi mi conosce lo sa: ne stimo pochi, con ancora meno parlo. Paolo Persichetti è un uomo colto, acuto, meticoloso (molto più di me), capace di ragionare da storico, politologo e sociologo (molto meglio di me), instancabile lettore di lavori altrui, con una straordinaria capacità di giudizio critico e in grado di tornare sui propri errori. Il suo italiano, poi, è tra i migliori sulla piazza storica. È un cercatore di risposte a domande storicamente fondate e sarebbe in grado di tenere un ottimo corso sugli anni Sessanta e Settanta in qualunque università del mondo.
Qualcuno ha parlato, per la perquisizione della sua casa avvenuta l’8 giugno 2021, di attacco alla ricerca storica. Mica gli storici ufficiali, quelli delle organizzazioni scientifiche e dell’accademia. Quelle e quelli credo non diranno una parola in merito. Li conosco e non mi faccio illusioni. Paolo non è considerato un pari. Tra l’altro la ricerca storica non è una persona. Anzi, non so bene proprio di cosa si tratti. Non so cosa sia la storia, non so cosa sia il passato, il presente, un fatto, un avvenimento. Provate a chiederlo a decine di storiche e di storici. Ognuno darà una risposta differente, spesso vaga, a volte incomprensibile. La questione, allora, riguarda le ricerche proprio del dott. Persichetti. Le sue ricerche, non quelle di chiunque altro. Quelle di uno dei migliori, se non il migliore, studioso del caso Moro. In grado di aprire le contraddizioni e stanare le dietrologie basate sul nulla, di mettere in fila le deduzioni che diventano per miracolo “realtà” e di porre infine il quesito dei quesiti in maniera chiara: se si chiede verità ancora oggi, dopo 40 anni, i processi che hanno condannato decine di persone all’ergastolo o a centinaia di anni di carcere, che cosa hanno detto?
Come se la verità fosse un punto fermo in qualche parte del cosmo e servissero solo le chiavi giuste per aprire la porta che la custodisce. Come se la presenza, ingombrante, di storico o storica non fosse determinante nel maneggio personale e soggettivo delle carte. Come se il soffio che regolarmente passiamo sulla polvere del passato, non scoprisse il nulla che oggi resta e non ci chiedesse, a noi che ci assumiamo la responsabilità di raccontare, di dire esclusivamente la nostra. La verità storica non esiste. Esistono gli uomini e le donne e le loro opere. Paolo è uno di loro. Nelle sue carte e nei computer gli inquirenti troveranno risposte storiografiche solide, ben strutturate, chiare. Troveranno il riflesso di quello che ho potuto osservare in tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme e anche se da tempo ho scelto di non occuparmi più di di lotta armata in maniera professionale, ci consultiamo, leggo ancora parte delle cose che scrive, continuo a essere una presenza nella sua vita di studioso, oltre che in quella privata. Credo di aver imparato da lui, come lui ha imparato da me. Ma è arrivato il momento che il dott. Persichetti sia riconosciuto non come un ex, ma per quello che è: un ottimo storico, il migliore sul caso Moro e la storia delle Br. Per distacco.

Se fare storia è un reato

Paolo Persichetti

La libera ricerca storica è ormai divenuta un reato. Per la procura di Roma sarei colpevole di «divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro». Per questa ragione martedì 8 giugno dopo aver lasciato i miei figli a scuola, da poco passate le nove del mattino, sono stato fermato da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della polizia di Stato: Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia postale. Ho contato in totale 8 uomini e due donne, ma credo ce ne fossero altri rimasti in strada. Una tale dispiegamento di forze era dovuto alla esecuzione di un mandato di perquisizione e contestuale sequestro di telefoni cellulari e ogni altro tipo di materiale informatico (computers, tablet, notebook, smartphone, hard-disk, pendrive, supporti magnetici, ottici e video, fotocamere e videocamere e zone di cloud storage), con particolare attenzione per il rinvenimento delle conversazioni in chat e caselle di posta elettronica e scambio e diffusione di files, nonché ogni altro tipo di materiale. Decreto disposto dal sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma Eugenio Albamonte che ha dato seguito ad una informativa della Polizia di Prevenzione del 9 febbraio scorso. La perquisizione è terminata alle 17 del pomeriggio e ha messo a dura prova lo stesso personale di polizia estenuato dalla quantità di libri e materiale archivistico (scampato pochi mesi fa a un incendio), raccolto dopo anni di paziente e faticosa ricerca.
La divulgazione di «materiale riservato» (sic!), secondo la procura della Repubblica si sarebbe concretizzata in due reati ben precisi, il favoreggiamento (378 cp) e l’immancabile 270 bis, l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo, che avrebbero avuto inizio l’8 dicembre 2015. Da cinque anni e mezzo, secondo la procura, sarebbe attiva in questo Paese un’organizzazione sovversiva (capace di sfidare persino il lockdown) di cui nonostante le molte stagioni trascorse non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete (e violente, senza le quali il 270 bis non potrebbe configurarsi). E’ legittimo, a questo punto, chiedersi se il richiamo al 270 bis sia stato un espediente, il classico “reato passepartout”, che consente un uso più agevolato di strumenti di indagine invasivi (pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni e sequestri), in presenza di minori tutele per l’indagato.
L’8 dicembre del 2015 era un martedì in cui cadeva la festa dell’immacolata. In quei giorni la commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni discuteva ed emendava la bozza finale della relazione che chiudeva il primo anno di lavori, approvata appena due giorni dopo, il 10 dicembre. Copie di quella bozza finale erano pervenute in tutte le redazioni d’Italia ed io presi parte, per conto di un quotidiano con il quale collaboravo, alla conferenza stampa di presentazione.
Cosa abbia giustificato un tale imponente dispositivo poliziesco, il saccheggio della mia vita e della mia famiglia, la perquisizione della casa, la sottrazione di tutto il mio materiale e dei miei strumenti di lavoro e di comunicazione, della documentazione amministrativa e medica di mio figlio disabile di cui mi occupo come caregiver, la spoliazione dei ricordi della mia famiglia, foto, appunti, sogni, dimensioni riservate, la nuda vita insomma, non so ancora dirvelo. Ne sapremo qualcosa di più nei prossimi giorni, quando la procura a seguito della richiesta di riesame avanzata dal mio difensore, avvocato Francesco Romeo, dovrà versare le sue carte.

Quello che è chiaro fin da subito è invece l’attacco senza precedenti alla libertà della ricerca storica, alla possibilità di fare storia sugli anni 70, di considerare quel periodo ormai vecchio di 50 anni non un tabù, intoccabile e indicibile se non nella versione quirinalizia declamata in queste ultime settimane, ma materia da approcciare senza complessi e preconcetti con i molteplici strumenti e discipline delle scienze sociali, non certo penali e forensi.
Oggi sono un uomo nudo, non ho più il mio archivio costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi presenti presso l’Archivio centrale dello Stato, l’Archivio storico del senato, la Biblioteca della Camera dei deputati, la Biblioteca Caetani, l’Emeroteca di Stato, l’Archivio della Corte d’appello e ancora ricavato da una quotidiana raccolta delle fonti aperte, dei portali istituzionali, arricchito da testimonianze orali, esperienze di vita, percorsi. Mi sono state sottratte le tonnellate di appunti, schemi, note e materiali con i quali stavo preparando diversi libri e progetti. Ho dovuto rinunciare in queste ore a un libro che dovevo consegnare nel corso dell’estate, perché i capitoli sono stati sequestrati. Forse qualcuno ha pensato di ammutolirmi relegandomi alla morte civile. Quel che è avvenuto è dunque una intimidazione gravissima che deve allertare tutti in questo Paese, in modo particolare chi lavora nella ricerca, chi si occupa e ama la storia.
Oggi è accaduto a me, domani potrà accadere ad altri se non si organizza un risposta civile ferma, forte e indignata.