Mille anime morte

Editoriale

Dall’urna dove mille anime morte depositavano le loro schede per l’elezione del presidente della repubblica sono usciti tanti nomi: cariatidi imparentate con i palazzinari, capi dei servizi segreti, pornostar, allenatori, presidenti di squadre di calcio, costituzionalisti, banchieri, magistrati, signore in visone, imprenditori scesi in politica. Una sola volta è apparso il nome di Emilio Scalzo, notav estradato in Francia per il suo sostegno ai migranti contro ogni frontiera. Nessuno ha scritto il nome di Lorenzo Parelli, lo studente diciottenne vittima di quel sistema di creazione di manodopera senza costo e precarizzazione assoluta che è l’alternanza scuola-lavoro, morto appena tre giorni prima che le camere si riunissero in seduta congiunta. Alla fine è passato l’unico nome che potesse garantire lo status quo, la garanzia dello stipendio ancora per i pochi mesi che mancano alla fine della legislatura.
Una volta si sarebbe detto che questo ceto parlamentare dava l’immagine di un mondo completamente scollato dal Paese. Oggi invece sembrano esserne la quasi perfetta rappresentazione. Scrivo «quasi» perché da qualche parte c’è un pezzo di società che da questo mondo non è rappresentato e mi auguro che non voglia esserlo, ma fare in proprio. Certo è solo, isolato, in un angolo, come quegli studenti che hanno manifestato e sono stati caricati dalla polizia per ricordare Lorenzo e pretendere che il diritto allo studio sia liberato dalla schiavitù salariale e dal comando dell’impresa.

Cossiga e gli ex Br, «Ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”»

Il titolo della edizione cartacea del Corriere della sera uscito in edicola il 7 agosto 2020 citava le «lettere inedite», titolo che si ritrova anche nella stringa (https://www.corriere.it/…/cossiga-ex-br-lettere-inedite-mi-…).  Stranamente nell’edizione online, quelle lettere «inedite» sono diventate «segrete». Un malizioso stravolgimento del pezzo firmato da Bianconi e della realtà dei fatti, perché l’epistolario di Cossiga non fu segreto né tantomeno inedito

 

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Chi ricorda l’estate del 1991, sa bene come andarono le cose, a partire dai quattro decreti di grazia d’ufficio proposti (cioè promossi direttamente dalla presidenza della Repubblica e non richiesti da Curcio) e rifiutati dall’allora Guardasigilli Martelli (che secondo la Costituzione avrebbe dovuto controfirmare). Questione poi avocata dal presidente del consiglio Andreotti che, a sua volta, pose il veto del governo, spalleggiato dal Pci. Ne scaturì un conflitto di attribuzioni di natura costituzionale che celava anche un conflitto politico. Cossiga graziando Curcio con motivazioni dichiaratamente politiche voleva aprire la stagione dell’amnistia e chiudere con l’emergenza giudiziaria, convinto che questa avesse creato un vulnus nella tradizione giuridica, inasprendo il codice Rocco rispetto alla versione originale d’epoca fascista e soprattutto introducendo palesi criteri d’iniquità nei trattamenti processuali, penali e penitenziari: dove pentiti e dissociati a parità di reati si avvalevano di trattamenti di favore rispetto a chi aveva rifiutato di accedere a quei dispositivi mantenendo la propria dignità personale e politica. Non solo, ma Cossiga aveva capito che la delega fornita alla magistratura aveva favorito il suo ingresso negli affari politici, iniziando a destabilizzare l’equilibrio tra poteri previsto dalla costituzionalismo liberale. Cossiga era cosciente di aver innescato lui stesso una profonda ferita nella tradizione giuridica italiana quindi pensava all’amnistia come ad uno dei modi per disinnescare l’emergenza giudiziaria, ricollocare la sfera giudiziaria nel suo alveo naturale e rilanciare una più corretta dialettica politica e sociale. Intravedeva all’orizzonte quel che poteva accadere di lì a poco e poi accadde: la fine della Prima repubblica e l’avvento del protagonismo politico delle procure che deflagrò con le inchieste per «Mani pulite». Mesi prima aveva avviato un duro braccio di ferro con il Consiglio superiore della magistratura sulla definizione di alcuni ordini del giorno, uno di essi riguardava la vicenda Gladio, fino al ritiro della delega al vicepresidente Giovanni Galloni. Nel novembre successivo inviò la forza pubblica nell’aula del Csm, giustificando la presenza in aula dei Carabinieri con i ‘poteri di polizia delle sedute’ a lui attribuiti. Da quello scontro venne fuori la stagione delle “esternazioni», del «presidente picconatore».

Il 28 luglio, in una delle sue sortite Cossiga disse: «Quando noi, alla fine degli Anni Settanta, ci battevamo con tutta la forza di cui poteva disporre lo Stato contro la banda armata detta Brigate rosse, il partito comunista di mio cugino Berlinguer portava in quella lotta anche un impegno ulteriore, per un fatto propriamente politico, che andava oltre quello, comune a tutti, della difesa dello Stato dall’eversione. A quei tempi il Pci voleva impedire a qualsiasi costo che una guerriglia, in qualsiasi maniera legittimata, potesse pretendere di occupare uno spazio alla sua estrema sinistra. Guai se, dal punto di vista del Pci, la guerriglia brigatista avesse ottenuto una legittimazione alla maniera dell’Olp. Questo interesse in qualche misura privato del Pci si aggiungeva allora al nostro, che era semplicemente quello di difendere lo Stato, battere quei nemici, ma senza rinunciare a capirli: per far fallire il loro piano dal punto di vista morale e politico, e poi anche sul terreno dello scontro militare. Quello volevamo ottenere e quello ottenemmo. Io fui sconfitto col caso Moro, è vero. Ma sono stato un combattente di prima linea in quella guerra». Ed ancora, «I comunisti sono stati i più scatenati contro di me in questo momento. Mi dispiace per loro, perché io credo che proprio a sinistra sia stato capito nel modo giusto quello che era mia intenzione sottolineare dando la grazia a Curcio […] Il Pci – mi scusi, io seguito a chiamarlo Pci – è rimasto in braghe di tela. Politicamente sono sconfitti: non hanno saputo cogliere neanche una questione così delicata e importante per la sinistra, qual era e resta la questione del terrorismo e del partito armato. Io ho proposto la grazia per Curcio perché sento di essere il capo di uno Stato forte. Loro sono apparsi deboli», (La Stampa, 15 agosto 1991).

L’epistolario di Cossiga è una diretta conseguenza di quella clamorosa stagione di cui si trova traccia nelle emeroteche. Dopo il rifiuto della grazia, Cossiga rese visita in carcere a Curcio, da qui il resoconto che questi scrisse del loro incontro. Negli anni successivi arrivarono le altre lettere a Gallinari e Maccari, il biglietto per il libro intervista di Mario Moretti del 1993, che ricostruiva la storia delle Brigate rosse e il sequestro Moro. Nel 2002 la lettera al sottoscritto, pervenuta nel reparto di isolamento del carcere di Marino del Tronto, immediatamente dopo la mia estradizione dalla Francia, salutata da tutti i media italiani come la fine della dottrina Mitterrand. Lettera che fece il giro del mondo, finendo davanti alle giuridizioni francesi, argentine e brasiliane. Questi messaggi, e le dichiarazioni del 1991 di Cossiga, meriterebbero una riflessione più approfondita. Per il momento mi limito a sottolineare solo una cosa: Renato Curcio ricevette la visita di Cossiga dopo il rifiuto della grazia, sucessivamente chiese al tribunale di Sassari un cumulo di pena che gli avrebbe permesso l’uscita dal carcere. I magistrati sardi glielo negarono. Terminò di scontare la pena molto più tardi. Prospero Gallinari e Gennaro Maccari sono morti durante l’esecuzione della loro condanna. Mario Moretti è ancora “fine pena mai”, ha raggiunto ormai il suo 39vesimo anno di carcere. Il sottoscritto ha terminato la pena nel 2014, scontata fino all’ultimo giorno (quindici anni e alcuni mesi). L’interlocuzione con Cossiga verteva su una soluzione generale della prigionia politica che alla fine non ci fu. Quelle di Cossiga furono le lettere di uno sconfitto, un capo di stato maggiore che aveva vinto la battaglia contro la lotta armata ma aveva perso la guerra contro l’emergenza, da lui stesso creata.

Documenti – Un articolo di Giovanni Bianconi racconta la corrispondenza privata, resa pubblica dalla Camera dei deputati, che l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ebbe con alcuni esponenti delle Brigate rosse dal 1991 fino al 2002

Corriere della sera del 7 agosto 2020
di Giovanni Bianconi

Un anno dopo il fallito tentativo di concedergli la grazia nell’estate 1991, l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontrò Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Il colloquio avvenne a quattr’occhi, nel carcere romano di Rebibbia, il 25 novembre 1992, quando Cossiga aveva lasciato il Quirinale da sei mesi. Parlarono di molte cose, dal «carattere sociale e politico del fenomeno armato», che l’ex capo dello Stato non definiva terrorismo bensì «sovversivismo di sinistra», al caso Moro, alla vicenda della grazia abortita. 

Cossiga spiegò che nelle sue intenzioni quell’atto di clemenza unilaterale doveva essere un primo passo per superare le leggi di emergenza a cui lui stesso aveva contributo, prima da ministro dell’Interno e poi da presidente del Consiglio, quando le Br avevano lanciato il loro «attacco al cuore dello Stato». I vertici delle forze di sicurezza erano d’accordo, ma i parenti delle vittime no, al pari di alcune forze politiche; in primo luogo l’ex Pci divenuto Partito democratico della sinistra.
Lo scritto di Curcio
«Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare», ha scritto Curcio in un resoconto dell’incontro conservato nell’archivio privato del presidente emerito. Insieme e a un biglietto inviato al fondatore delle Br per ringrazialo dell’incontro che «è stato per me di grande interesse politico, culturale, e soprattutto umano». Risposta dell’ex brigatista: «Debbo dirle che dopo anni di fuoco, non solo metaforico, e di K (nell’estrema sinistra il ministro dell’Interno del ’77 veniva chiamato Kossiga, con la doppia S stilizzata come il simbolo delle SS naziste, ndr), ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale… Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato». 

Curcio comincerà a uscire dal carcere solo l’anno successivo, in un periodo in cui Cossiga (non più Kossiga bensì il «picconatore» del sistema di cui era stato parte) ha intrattenuto rapporti epistolari e diretti con molti ex terroristi. In prevalenza di sinistra, ma non solo. Nel suo archivio donato alla Camera dei deputati, oltre al carteggio con Curcio ci sono le lettere inviate ad altri brigatisti come Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, militanti dell’Unione dei comunisti combattenti, pentiti come Marco Barbone e l’ex di Prima linea Roberto Sandalo, esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia per evitare il carcere, a cominciare da Toni Negri. Il quale, una volta rientrato in Italia per finire di scontare la pena, si rivolse all’ex presidente per chiedere una buona parola con un dirigente della Digos.

La vacanza di Toni Negri
Su sollecitazione di Cossiga, in virtù di un’antica conoscenza personale e «come primo effetto della reciproca smobilitazione ideologica», Negri gli dava del tu, e il 12 aprile 1998, giorno di Pasqua, gli scrisse per fargli gli auguri e «per chiederti di intervenire eccezionalmente in mio favore». Dopo un primo diniego, il professore detenuto aspirava a ottenere un permesso per «una brevissima vacanza», però serviva che la polizia «dichiarasse insussistente, come in realtà è, il pericolo di fuga». Così Negri s’era rivolto al presidente emerito: «Mi permetto di insistere con te perché, se ti è possibile, tu faccia questo intervento. Ti ringrazio fin d’ora per quello che potrai fare». 

All’ex carceriere di Moro Prospero Gallinari, scarcerato per motivi di salute, Cossiga scrisse il 5 maggio ’94: «Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena». Aggiungendo il rammarico perché nell’ex Pci c’era chi considerava le Br «uno strumento della Cia e della P2! Che vergogna e che falsità, che viltà e che malafede! Ma non se la prenda. Se viene a Roma me lo faccia sapere». 

In una lettera a Mario Moretti, il «regista» del caso Moro, l’ex presidente lo ringrazia per il libro sulla storia delle Br scritto nel 1994, e ribadisce la sua idea di un fenomeno «radicato socialmente e radicalmente nella società e nella sinistra italiana, e collegata alla divisione ideologica dell’Europa».

L’omicidio Giorgieri
È per questa sua analisi che Cossiga, morto dieci anni fa, è stato e continua ad essere pressoché l’unico politico apprezzato dagli ex militanti della lotta armata di sinistra. Compresi i giovani aderenti alla fazione brigatista che nel 1987 uccisero il generale Licio Giorgieri, come Francesco Maietta e Fabrizio Melorio. «Le sue esternazioni hanno avuto per me lo stesso effetto di rottura e di nuovo punto di partenza delle considerazioni del professor De Felice in materia di fascismo e resistenza», gli scrive Maietta dalla cella nel 1993; cinque anni dopo Cossiga sarà ospite al matrimonio dell’ex brigatista, uscito dal carcere. 

E al suo compagno di cella Melorio, che all’ex presidente aveva raccontato il passaggio dall’essere suo nemico giurato nel ’77 a «condividere molte delle cose che lei sostiene», Cossiga confida: «Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ “colpevole” della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori».

La mamma di Mambro
Nel 2002 il «picconatore» manda una lettera a Paolo Persichetti, altro ex dell’Udcc appena estradato dalla Francia e chiuso in prigione: «Ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato». 

In un altro faldone, insieme a documenti e atti parlamentari e giudiziari sulla strage di Bologna di quarant’anni fa, sono conservate alcune lettere inviate a Cossiga da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando ancora erano sotto processo per la bomba alla quale si sono sempre proclamati estranei. Dopo la condanna nell’appello bis, a luglio ’94, gli scrisse pure la mamma di Francesca Mambro: «Io e i miei figli Le chiediamo aiuto per la ricerca della verità, perché chi è dalla parte della Giustizia si senta anche dalla parte della difesa di Francesca e Valerio». Ma un anno dopo arrivò l’ergastolo definitivo.

Il testo della lettera di Cossiga
Francesco Cossiga, Eravate dei nemici politici, non dei criminali
La fotocopia della lettera di Cossiga

L’intervista alla Stampa
Persichetti, «Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni 70»

Un ritratto di Cossiga
Franco Piperno, Cossiga architetto dell’emergenza giudiziaria. Era convinto che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni

L’articolo 18 di Emma Marcegaglia

L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori pone dei limiti al licenziamento per ragioni disciplinari stabilendo che la rescissione del contratto di lavoro non può avere carattere discriminatorio diretto e indiretto, cioè in quest’ultimo caso ammantarsi di ragioni che celino nella realtà una volontà di censura dell’attività sindacale, delle opinioni politiche, religiose, culturali, di appartenenza etnica o linguistica o degli orientamenti sessuali del lavoratore, come sancito per altro dallo stesso articolo 3 della Costituzione. Per questo motivo quando il giudice del lavoro ne dovesse accertare la violazione, al datore di lavoro viene imposto il reintegro del dipendente licenziato per ingiusta causa e il risarcimento integrale delle mensilità perdute.
Per Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori serve invece a proteggere ladri e fannulloni. Lo ha detto ieri. Da molti anni il padronato non compie più l’errore, o sarebbe meglio dire che non ha avuto più la forza e la legittimità – grazie alle lotte sociali degli anni 60 e 70 ivi compresa la lorta armata – di liberarsi di un dipendente accusandolo apertamente di avere idee o condotte politiche poco gradite all’azienda.
Chi fa attività sindacale o politica verrà, per esempio, accusato di essere un violento (come è accaduto alla Fiat di Melfi non molto tempo fa e come accadde nel 1979 a Mirafiori con i 61 quadri di lotta licenziati in blocco perché accusati di connivenza con le organizzazioni comuniste armate), di avere infranto le regole aziendali; i rimproveri disciplinari saranno sempre fondati su contestazioni subdole come l’assenteismo, l’errore professionale, la poca diligenza, eccetera. Il fondamento di questo tipo di accuse viene vagliato nel merito dal giudice del lavoro, una volta che il lavoratore presenta ricorso. E’ questo margine interpretativo che padronato, governo e forze sindacali tradizionalmente filo governative, corporative e concertative, vogliono ridurre.
Per dirla in breve, il padronato rivendica mano libera, dominio totale sul posto di lavoro. Incrinando il principio delle tutele antidiscriminatorie potrà disporre come vuole della sua forza-lavoro, resa docile da una gestione terroristica del rapporto di lavoro. E’ questo il nodo della partita in corso: flessibilità totale in uscita, dopo aver reso totalmente flessibile, cioè totalmente precario, il mercato del lavoro in entrata.

C’è un’altro aspetto delle dichiarazioni della signora Marcegaglia contro l’articolo 18 sul quale vale la pena soffermarsi: l’attuale presidente uscente della Confindustria ha parlato a proposito dell’articolo 18 di tutela dei ladri…
Forse è il caso di ricordare alcune vicissitudini non proprio in regola con la legge che hanno visto come protagonista il gruppo Marcegaglia.

Scandalo Enipower
Nel 2007 Mario Perego, un dirigente della società N.E.-C.C.T. (“joint venture” tra gli americani di Nooters Eriksen e la C.C.T. del gruppo Marcegaglia), fu accusato di aver pagato nel 2003 una tangente a un dirigente di Enipower, Lorenzino Marzocchi. Anche Antonio Marcegaglia, fratello di Emma, amministratore delegato della capogruppo e presidente di N.E.-C.C.T., venne indagato per corruzione. Si difese sostenendo di aver autorizzato il pagamento di quella che gli era stata prospettata dal suo manager («in larga autonomia») come una consulenza richiesta da Marzocchi per dar spessore al desiderio della società di essere ammessa nella lista dei fornitori di Enipower. Per l’accusa, invece, quella consulenza sarebbe stata solo la «maschera» legale di una tangente da 1,1 milioni di euro. Alla fine Antonio Marcegaglia preferì uscirne patteggiando una condanna: undici mesi di reclusione (subito sospesa) per lui; 500mila euro di pena pecuniaria e 250 mila di confisca per Marcegaglia spa; 500 mila euro di pena pecuniaria e cinque milioni di confisca per la N.E.-C.C.T.
Come ha scritto Luca Piana sull’Espresso, le indagini milanesi hanno rivelato l’esistenza di numerosi conti “off shore” intestati alla famiglia, sui quali sono transitate negli anni cifre importanti. In pratica, il gruppo non sempre acquistava i materiali necessari per l’attività industriale, ma li comprava da società di trading che riversavano i guadagni su appositi conti cifrati. Rispondendo ai magistrati, Antonio Marcegaglia ha spiegato che il sistema serviva a creare «risorse riservate che, peraltro, abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo, per le sue esigenze non documentabili». Antonio Marcegaglia ha raccontato che nell’agosto 2004 si decise di chiudere il sistema di triangolazioni che ha alimentato i fondi neri. Una parte dei fondi, circa 22 milioni di euro, venne tuttavia trasferita a Singapore.
«La decisione», ha detto Antonio Marcegaglia, «era stata presa da tempo anche per motivi commerciali. Tuttavia non nego che l’inchiesta Enipower abbia impresso un’accelerazione nel timore di un sequestro giudiziario.» Secondo Piana dell'”Espresso”, «nelle motivazioni di diversi trasferimenti di denaro, non mancano pagamenti in nero a collaboratori, professionisti, fornitori italiani».  Emma Marcegaglia accolse favorevolmente lo scudo fiscale voluto da Giulio Tremonti sui patrimoni detenuti all’estero.*

L’appalto berlusconiano del G8 alla Maddalena
Mita Resort è una società attiva soprattutto in Sardegna (nel 2008 ha fatturato 66 milioni di euro, producendone 3,2 di utile) controllata al 50% dalla Gaia Turismo della famiglia Marcegaglia e al 50% dalla Olii Resorts, una spa che appartiene al 72% alla Life & Resorts di Massimo Caputi. Mita, si occupa di costruzione e gestione di immobili turistici la cui proprietà resta di soggetti terzi.
All’inizio del 2009 il Governo Berlusconi affida a Mita Resort l’appalto per la costruzione e la gestione di una nuova area turistica in Sardegna, di fronte all’Arsenale dell’isola di La Maddalena, proprio davanti a Caprera e a Santo Stefano. Lo scopo iniziale è di riqualificare l’area in preparazione del G8, che doveva tenersi in loco. Gli investimenti dello Stato in questa operazione immobiliare sono stati pari a circa 210 milioni di euro. Come scrive Fabrizio Gatti sull’Espresso, fra il primo maggio e il 20 giugno 2009 la Mita Resort avrebbe dovuto completare e arredare le 95 stanze dell’albergo destinato a Barack Obama e alla sua delegazione, assumere e formare il personale, gestire l’hotel secondo uno standard di cinque stelle lusso, attrezzare il porto turistico. Inoltre, la Mita Resort avrebbe dovuto versare 41 milioni di euro una tantum allo Stato, e un affitto di 600 mila euro all’anno alla regione Sardegna. In cambio, la società avrebbe ottenuto la concessione per costruire e gestire un’area di 155 mila metri quadrati nella parte più ricca della Sardegna, edificando un hotel di lusso, un centro delegati da 10 mila metri quadrati progettato per esser poi trasformato in sala conferenze o centro commerciale, ulteriori aree coperte per 16 mila metri quadrati di estensione, 30 mila metri quadrati di verde, un porto turistico.All’ultimo momento si decide di trasferire il G8 in Abruzzo per catalizzare l’attenzione mondiale sulla tragedia del terremoto.
In questo modo, si determina una sorta di «perdita» per Mita Resort, che non può utilizzare l’evento per promuovere l’area turistica. Come «risarcimento» Mita ottiene la conferma delle medesime condizioni, e il prolungamento della concessione da 30 a 40 anni. «Così Mita Resort incasserà due volte», scrive Gatti, «dal prolungamento del periodo di gestione e dal risparmio per la cancellazione del vertice.» In pratica, a fronte di un esborso pubblico pari a 210 milioni di euro, Mita Resort investe 65 milioni di euro (41 milioni di una tantum + 600 mila euro per 40 anni) per avere in affitto l’area per 40 anni. A conti fatti, si tratta di un canone di locazione annuale di 10 euro al metro quadrato per una delle aree migliori della Costa Smeralda. Un ottimo affare per Mita Resort, «uno schiaffo ai contribuenti» secondo Gatti.
L’ottimo affare della presidente di Confindustria viene sottolineato da Silvio Berlusconi stesso, quando, nel giugno 2009, interviene al convegno dei giovani imprenditori di Santa Margherita Ligure: «Abbiamo ultimato i lavori di rilancio della Maddalena, lavori affidati al gruppo Marcegaglia», dice il presidente del Consiglio di fronte alla platea confindustriale e a tutte le televisioni, sottolineando una seconda volta: «lavori affidati al gruppo Marcegaglia». Chi doveva capire ha capito.*


* Fonte: Filippo Astone, Il Partito dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia, Longanesi, Milano 2010

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