Sequestro Moro, le carte e le testimonianze che smentiscono le dietrologie su via Caetani /terza puntata

A partire dal 2010 alcune inchieste giornalistiche e libri pubblicati negli anni successivi, ripresi recentemente anche da una trasmissione televisiva della Rai, hanno diffuso una ricostruzione alternativa sulle ultime ore della vita di Moro, sulle circostanze della sua morte e del ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’analisi delle indagini condotte all’epoca, i documenti e le testimonianze dimostrano l’infondatezza di queste ricostruzioni dietrologiche

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 9 marzo 2024

Questa immagine fotografa la situazione di attesa: lo sportello posteriore destro della Ranault 4 è stato aperto, all’interno è stata verificata la presenza del corpo di Moro. Funzionari di polizia in borghese sono in attesa delle autorità. Davanti alla Renault la Fiat 500 del custode di palazzo Antici-Mattei, più avanti di traverso la Giulia bianca Alfa Romeo della Digos intervenuta per prima sul posto

Che cosa accadde davvero il 9 maggio del 1978 in via Caetani? Le dichiarazioni dell’ex vice segretario del Partito socialista Claudio Signorile a Report del 7 gennaio scorso, in un servizio su nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro, hanno riacceso l’attenzione sulle modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana. Da diversi anni Signorile sostiene che Cossiga (con lui presente) venne informato quella mattina della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata delle Brigate rosse. E lascia intendere intendere che a ucciderlo non furono i brigatisti, per il rifiuto di trattare da parte del governo e dei partiti schierati per la «fermezza», bensì forze straniere che condizionarono l’esito finale del sequestro: una volontà superiore a cui i brigatisti, semplici figuranti di un gioco più grande di loro, dovettero adattarsi. Forse addirittura cedendo l’ostaggio.

I ricordi tardivi
Storici, giudici e poliziotti, abituati a valutare le testimonianze e lavorare con la memoria, sanno bene che i ricordi tardivi dei testimoni rappresentano uno degli aspetti più problematici nella ricostruzione dei fatti, perché troppo esposti al rischio di inquinamento da informazioni e narrazioni circolate nel frattempo. Nelle ore successive al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani all’interno della Renault 4 color amaranto, digos e carabinieri condussero però serrate indagini sui testimoni passati fin dalle del prime ore del mattino in quella via o che lavoravano nei palazzi adiacenti. Queste testimonianze offrono un quadro esauriente per ricostruire quel che avvenne la mattina del 9 maggio 1978.
La signora Carla Antonini affermò di aver visto alle 8,10, mentre a piedi si recava al suo posto di lavoro, la Renault 4 parcheggiata quasi davanti al portone di palazzo Antici-Mattei dove era impiegata nella discoteca di Stato. La testimonianza venne rafforzata da successive dichiarazioni dell’attrice Piera Degli Esposti, sentita dopo il 2013 nell’indagine aperta per verificare la veridicità delle affermazioni di uno degli artificieri che bonificarono la Renault 4 quel giorno, Vitantonio Raso, secondo cui il cadavere di Moro fu trovato molto prima della telefonata delle Br e Cossiga si sarebbe recato sul posto una prima volta intorno alle 11 del mattino e una seconda dopo la diffusione ufficiale della notizia.
Degli Esposti smentì questa possibilità poiché quella mattina aveva atteso inutilmente, proprio nelle ore indicate da Raso, appoggiata inconsapevolmente sulla R4, il direttore del Dramma antico, i cui uffici si trovavano al terzo piano di palazzo Antici-Mattei. Anche altri testi sentiti hanno confermato questa ricostruzione: Annamaria Venturini della Biblioteca di storia contemporanea, Francesca Loverci e Giuseppe D’Ascenzo, entrambi dipendenti del Centro studi americani situato nello steso palazzo, e Francesco Donato che vi risiedeva come custode demaniale. Tutti e tre percorsero più volte via Caetani quella mattina senza mai scorgere presenza della polizia o assembramenti con personalità politiche.

L’arrivo della polizia dopo la telefonata delle Br
È D’Ascenzo a situare il momento in cui arriva sul posto la prima auto della polizia: era uscito dal lavoro alle 10,15 per rientrarvi alle 11 e uscire nuovamente un quarto d’ora dopo per rientrare alle 12,15 quando si accorgeva di una Alfa Giulia bianca in doppia fila accanto alla Renault 4, con a bordo persone in abiti civili che gli chiesero se ne conoscesse il proprietario. Era la pattuglia della Digos guidata dal commissario capo Federico Vito, che in una relazione di servizio scrive di essere stato avvisato dal brigadiere Mario Muscarà, addetto al servizio intercettazioni telefoniche, che era sopraggiunta una telefonata al professor Tritto in cui si annunciava che «il corpo di Moro si trovava in una Renault targata N…. parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure». Il brogliaccio redatto da Muscarà riferisce l’arrivo della telefonata alle 12,10 e la sua conclusione alle 12,13, oltre al tentativo fallito di individuare la cabina da dove la chiamata era partita.
Il commissario Vito si recava immediatamente sul posto con il brigadiere Domenico D’Onofrio, l’appuntato Angelo Coppola e la guardia Nicola Marucci. «Poiché nel bagagliaio si notava una coperta che ricopriva qualcosa di voluminoso – scrive – ho fatto aprire forzatamente l’auto da un Sergente artificiere ed ho constatato che, sotto la suddetta coperta, si trovava il cadavere dell’On.le Aldo Moro». Altre testimonianze, e soprattutto le foto e le immagini esclusive riprese dalla troupe di Gbr, emittente romana, con il giornalista Franco Alfano che riuscì ad entrare nel palazzo Antici-Mattei e riprendere dall’alto quello che avvenne, mostrano che i tempi di apertura della R4 furono molto più lunghi e laboriosi.

Cucchiarelli e la versione dell’artificiere
In una intervista con Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronovo, dopo l’uscita nel 2013 del suo libro La bomba umana, l’artificiere Raso conferma indirettamente la sequenza dei fatti descritta dal commissario Vito. Sostiene, infatti, di essere stato prelevato dalla «volante 23» per essere portato in via Caetani. Non poteva quindi essere sul posto alle 11, se la digos era arrivata solo alle 12,15 e Vito aveva chiesto il suo intervento solo successivamente (accusato del reato di calunnia per queste affermazioni, Raso ha patteggiato la condanna in tribunale).
Non solo: come dimostrano le immagini (e come riferisce il suo superiore Giovanni Chirchetta), Raso non tocca la Renault ma attende rinforzi. Mentre Chirchetta e il sergente Casertano giunsero sul posto dopo Raso. Nel frattempo, sono ormai le 13,35 circa, il custode di palazzo Antici-Mattei avverte gli impiegati delle voci sulla presenza di una bomba nella Renault, così tutti si precipitano all’uscita per spostare le auto.
È ancora il teste D’Ascenzo a riferire con precisione quel che accade: sceso all’ingresso del palazzo nota «che un uomo in borghese, probabilmente un agente di polizia, ha aperto la macchina e dopo aver guardato all’interno è venuto verso di noi dicendo: “È Moro”».

Un funzionario di polizia apre lo sportello della Renault
Chi era quel poliziotto? Tutte le immagini di quel giorno mostrano che lo sportello posteriore destro della R4 fu aperto molto prima che fosse forzato dagli artificieri con le cesoie il portellone posteriore. Un rapporto stilato dal commissario Vito consente di fissare con maggiore esattezza l’orario della prima apertura: si tratta del sequestro avvenuto alle ore 13,20 del borsello di pelle nera presente al suo interno e contenente effetti personali di Moro.
In una audizione del 2 maggio 2017, davanti alla commissione Moro 2, sarà Elio Cioppa a sostenere di avere aperto lo sportello e aver verificato che nel bagagliaio posteriore, sotto la coperta, c’era il corpo di Moro. Cioppa disse di esser arrivato in via Caetani dopo il commissario Vito con una cinquantina di uomini per predisporre il controllo dell’ordine pubblico nella zona. E le foto scattate in via Caetani prima dell’apertura del portellone posteriore e dell’arrivo delle autorità mostrano accanto alla R4 diverse persone in giacca e cravatta, tra cui si riconosce il tristemente famoso Nicola Ciocia, alias dottor De Tormentis, funzionario dell’Ucigos esperto di waterboarding per sua stessa ammissione.

Scatta il piano Mike
Le stesse immagini mostrano che all’arrivo di Cossiga, si può presumere dopo le 13,30, il portellone posteriore non era stato ancora forzato e che il ministro dell’Interno, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al capo della polizia Ferdinando Masone, si sporge sul vetro del lunotto per vedere il corpo di Moro. L’apertura avverrà solo in seguito, quando lo stesso Cossiga, stando agli artificieri, chiederà la bonifica del mezzo. Alle 13,45, come prevedeva il piano Mike, predisposto in precedenza dal ministero dell’Interno in caso di morte dell’ostaggio, venne avvertito il procuratore generale Pietro Pascalino, alle 13,56 il medico legale Silvio Merli e alle 14,02 il perito balistico Antonio Ugolini.

La Renault 4 fu sempre nella mani dei brigatisti
Rubata da Bruno Seghetti il primo marzo del 1978 nella stessa zona dove vennero prese gran parte delle vetture impiegate in via Fani, venne affidata alla brigata universitaria che si occupò di cambiarne la targa, contraffare i documenti, lavarla (il proprietario lavorava nei cantieri edili e la Renault era molto sporca) e spostarla periodicamente. Utilizzato per l’azione contro la caserma Talamo dei carabinieri a Roma, il 19 aprile del 1978, fu richiesta da Seghetti pochi giorni prima del 9 maggio, quando le Brigate rosse avevano deciso di concludere il sequestro. La decisione di giustiziare l’ostaggio e le modalità della sua esecuzione vennero prese l’8 maggio in una drammatica riunione della direzione della colonna romana tenutasi nell’appartamento di via Chiabrera 74, dopo le mancate dichiarazioni di apertura promesse da Fanfani attraverso il suo portavoce Bartolomei.

Il frontalino della Renault venne notato dalla signora Graziana Ciccotti, condomina della palazzina di via Montalcini 8, all’alba della mattina del 9 maggio quando scese nel garage dell’abitazione per andare al lavoro e incontrò sul posto Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento nel quale Moro fu tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro.
 Dopo l’uccisione dello statista all’interno del box dove era parcheggiata la Renault, il mezzo fu portato da Mario Moretti e Germano Maccari in via Caetani. All’altezza di piazza Monte Savello, a ridosso del ghetto ebraico, furono “scortati” da Bruno Seghetti e Valerio Morucci, che all’interno di una Simca fecero da staffetta armata nella parte più delicata del tragitto fino a via Caetani, dove la sera prima lo stesso Seghetti aveva parcheggiato la sua Renault 6 verde per preservare il posto dove lasciare la Renault 4. Poco dopo il mezzo fu visto dalle testi Antonini e Degli Esposti. Negli ultimi giorni del sequestro i brigatisti non persero mai il controllo dell’ostaggio.

Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile

Nel corso della trasmissione in onda su Report in questo momento l’ex vice segretario del partito socialista Claudio Signorile afferma di essere stato convocato al Viminale dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga la mattina del 9 maggio. Nel corso dell’incontro – afferma – Cossiga sarebbe stato avvisato da una telefonata del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. La comunicazione sarebbe giunta, secondo Signorile non oltre le 10.00 del mattino, perché ricorda che prese con un caffé «e il caffé non si prende a tarda mattinata». La telefonata che Valerio Morucci per conto delle Brigate rosse fece al professor Tritto è delle 12.13 minuti. La notizia venne diramata dall’Ansa alle 13.59 mentre il centralinio della sala operativa dei carabinieri riceve comunicazione del ritrovamento di un corpo all’interno di una Ranault 4 in via Caetani alle 13.50 e alle aale 13.59 conferma che si trattava del cadavere di Aldo Moro.
La testimonianza di Signorile lascia intendere dunque che apparati dello Stato erano al corrente del rinvenimento del corpo dello statista democristiano prima della telefonata della Brigate rosse. Una ricostruzione che porterebbe a ritenere provato il coinvolgimento di questi apparati nella esecuzione o comunque nella conoscenza delle ultime mosse fatte dalle Brigate rosse in quelle ore.

Una memoria scivolosa che cambia nel tempo
Tuttavia la testimonianza attuale di Signorile contrasta con quanto da lui affermato in passato.
A pochi anni di distanza dal ritrovamento del corpo di Moro, nei primi anni 80 davanti alla corte d’assise dove si svolgeva il primo processo sul sequestro dello statista democristiano, Signorile lungamente interrogato dal presidente e dalle parti civili non fece mai riferimento all’incontro conn Cossiga e tantomeno alla telefonata da lui ricevuta con largo anticipo sull’orario ufficiale sul ritrovamento del corpo di Moro.
Nel 1980 audito dalla prima commissione Moro accennò per la prima volta all’incontro con Cossiga, dove si era recato per perorare la causa della trattativa. quella mattina infatti si riuniva la direzione della Dc e Fanfani, da lui convinto, avrebbe dovuto prendere la parola in favore di un’apertura verso la trattativa. Disse che intorno alla 11 giunse la telefonata che avvertì Cossiga del ritrovamento del corpo di Moro. In commissione nessuno eccepì sull’orario, in largo anticipo con quello ufficiale, eppure erano presenti i vari Flamigni e compagni. Probabilmente intesero nell’orario inesatto di Signorile che volesse intendere in tarda mattinata o che le 11 era l’ora in cui fosse arrivato all’appuntamento.
Nel 1999 davanti alla commissione Pellegrino, Signorile tornò sull’incontro con Cossiga la mattina del 9 maggio 1978 senza riferire della telefonata giunta in anticipo.
Nel 2010 Francesco Cossiga è morto.
Nel 2013 l’artificiere Vittantonio Raso che la mattina del 9 maggio giunse in vai Caetani per le verifiche di sicurezza e l’apertura del portellone della Renault 4 dove si trovava Moro affermò di esser giunto sul posto con largo anticipo rispetto all’orario poi divenuto ufficiale e disse di aver visto Cossiga giungere una prima volta da solo e poi succesivamente, quando la notizia venne diffusa, con le altre autorità. L’inchiesta che ne seguì però smenti le sue affermazioni tanto da finire indagato per falsa testimonianza. Dopo le parole dell’artificiere, improvvisamente Claudio Signorile ritrovò la memoria per affermare che il 9 maggio era andato da Cossiga, stavolta non più per parlare della trattativa e di Fanfani ma convocato dal ministro dell’Interno che gli sarebbe apparso molto teso. Anche l’orario cambiava, non più le 11 ma tra le 9 e le 10, perché il caffé, che presero insieme, si prende presto e così anche la telefonata, il cicalino che suonò sulla scrivania del minsitro, si fece sentire molto prima. Insomma la polizia e Cossiga avrebbero saputo del ritrovamento del corpo la mattina del 9 maggio e questo perché forze straniere avrebbero agito quel giorno sostituendosi e imponendosi sulle Brigate rosse.
Da allora Signorile ha ribadito questa versione in interviste e in davanti la seconda commissione Moro nel 2016.
Insomma una memoria scivolosa quella dell’ex segretario del partito socialista che si arricchisce nel tempo di dettagli per decenni dimenticati e soprattutto quando chi potrebbe smentirlo e morto. Forse Signorile ha bisogno di dire queste cose per farsi perdonare il suo convolgimento nel tentativo di dare vita ad una trattativa che salvasse Moro.

«Fronte del porto», una recensione critica al libro di Sergio Luzzato sulla colonna genovese della Brigate rosse

L’imponente lavoro realizzato da Sergio Luzzato sull’insediamento delle Brigate rosse a Genova solleva un problema storiografico importante: l’arrivo della Brigate rosse è un parto degli intellettuali radicali della università di Balbi, come sostiene l’autore, oppure prende avvio all’Ansaldo e in porto, come riferiscono alcuni testimoni chiave, protagonisti di quella vicenda?

di Paolo Persichetti

Bisogna riconoscere grande coraggio a Sergio Luzzato per aver provato a ricostruire la storia della colonna genovese delle Brigate rosse fin dalla copertina che ha scelto per il suo volume, Dolore e furore, una storia delle Brigate rosse, appena uscito per Einaudi, titolo suggerito da una sferzante critica indirizzatagli da Rossana Rossanda nel 2010. L’immagine, molto bella, ripresa da una elaborazione grafica di una foto di Viktor Bulla, è stata realizzata da Carlo Rocchi, uno pseudonimo dietro al quale si celava Livio Baistrocchi, ex di Potere operaio, artista di formazione, divenuto uno dei brigatisti più importanti della colonna genovese, latitante da oltre 40 anni.

La «Legera»
Uno dei maggiori meriti di Luzzato è l’imponente mole documentale raccolta, una ricchezza che fornisce al lettore e allo studioso infiniti spunti e poi la dovizia descrittiva che lo ha portato a immergere – com’è giusto che sia – quella vicenda in una ancora più grande: la storia della città di Genova tra gli anni 60 e 70. Una impresa di oltre 700 pagine da cui è scaturito un affresco vivido di biografie, percorsi, colori, idee, immagini, situazioni, storie che sono al tempo stesso ritratto sociologico, culturale, politico, etnografico di Zena. Le duecento pagine iniziali sono senza dubbio, insieme al taglio letterario della prosa e all’intreccio dei percorsi biografici, la parte più riuscita del libro. Dal porto, cuore pulsante, alle sue fabbriche, a Balbi, l’università con i suoi intellettuali ultraradicali; dai marginali della Garaventa, nave di correzione minorile, alla nuova classe operaia che anche a Genova, come negli altri poli del triangolo industriale, si era popolata di giovani migranti meridionali insofferenti alla disciplina del partito e del sindacato che spesso si sovrapponeva a quella dell’impresa, fino a raccontarci del conflitto sulla «Legera». Uno scontro di culture, una distanza antropologica che aveva messo contro le vecchie maestranze super professionalizzate, impregnate di ideologia del lavoro, di «doverismo morale» e fedeltà al Pci e i nuovi arrivati che non volevano sentir parlare di etica del lavoro e mal sopportavano il controllo politico, morale e professionale dei primi. Nuove leve operaie insofferenti alla presenza opprimente dell’attivista sindacale: «che se non lavori come lui desidera, va dal capo e dice che sei una legera e gli chiede di prendere provvedimenti, che se vai sottomutua o se sei un estremista comincia ad odiarti e a farti dispetti. La possibilità di organizzare gli operai estremisti e leggere è dunque sistematicamente spezzata dalla presenza capillare degli operai super professionalizzati».
Luzzato non si ferma qui, ci descrive la presenza della chiesa reazionaria e anticonciliare del cardinale Siri e il suo contraltare: i preti di strada come don Gallo, allontanato dalla Garaventa perché inviso per la sua pedagogia radicale, la comunità del Molo, circoli come il clan della Tortilla che furono incredibili crogioli, le idee dei basagliani che si facevano strada, gli intellettuali non più organici come l’avvocato Edoardo Arnaldi, Sergio Adamoli, medico chirurgo al san Martino, che tanti brigatisti ha rappezzato, figlio di Gelasio sindaco partigiano della città nel secondo dopoguerra, membro del Pci al pari di Giovanni Nobile, dirigente della federazione che vide la figlia Marina tra gli effettivi della colonna genovese. Gianfranco Faina l’enfant prodige della Fgci genovese che rigetta la carriera già pronta nel Pci per costruire la sua via alla rivoluzione sulle tracce di un comunismo libertario, dietro di lui molto più defilato Enrico Fenzi, il suo amico Andrea Canevaro che intreccia la sua biografia con quella di Giovanni Senzani, di cui Luzzato segue ostinatamente le orme genovesi antidatandone erroneamente l’ingresso nelle Br. Lungo questo tragitto, l’autore incrocia di nuovo Guido Rossa a cui aveva già dedicato una monografia, per rivelarne senza reticenze il lavoro informativo condotto in fabbrica per conto di un apparato riservato di controllo e contrasto della lotta armata messo in piedi dal Pci.

Chi era Dura?
Luzzato racconta al lettore con un’apprezzabile trasparenza l’origine della sua curiosità per gli anni genovesi della lotta armata, quando nel 1985, giovane ricercatore, scorgeva chini sui tavoli dell’allora biblioteca nazionale Richelieu di Parigi alcuni fuoriusciti italiani degli anni ’70. Raffrontare le loro biografie di sconfitti con quelle dei rivoluzionari francesi fuggiti a Bruxelles l’intrigava, si domandava se anch’essi fossero «assediati dalla loro propria memoria», se «continuamente riabitassero il passato degli anni di piombo, per difendersi dal presente nel presente», per scoprire come i loro predecessori parigini: «quanto la posterità fatichi a essere imparziale». L’altro interrogativo dell’autore riguarda la figura di Riccardo Dura, narrato da sempre come un «fantasma». Chi era veramente? Da dove veniva? Il volume parte dall’unica traccia istituzionale conosciuta sul giovane: il fascicolo psichiatrico che racconta i suoi due internamenti nel manicomio di Genova Quarto e poi gli anni nella Garaventa, la nave correzione per minorenni in difficoltà. Le perizie mediche ritrovate e le interviste con i dottori che lo visitarono rendono giustizia della leggenda nera costruita dai criminologi del tribunale e da alcuni pentiti dopo la sua esecuzione a freddo del marzo 1980. Adolescente in difficoltà, in conflitto con una madre possessiva ma al tempo stesso anaffettiva, il ragazzo non aveva sopportato la separazione dei genitori. Gli scontri in casa erano sempre più accesi e la madre non trovava di meglio che chiamare i carabinieri col risultato di farlo internare. Inizia così, in una società dove ancora non si era affermata la rivoluzione basagliana, l’infelice tragitto di questo adolescente con il mondo contro. Il racconto di Luzzato in questa prima parte è empatico, tifa palesemente per il ragazzo che studia anche con profitto, sperando che alla fine riesca a venirne fuori. E Riccardo ce la fa, uscito dalla Garaventa ormai diciottenne recide ogni legame materno e si imbarca come marittimo nella scala più bassa dei lavori del mare: mozzo o ragazzo da camera.

La colonna genovese è nata tra gli universitari di Balbi?
Sorge qui il primo problema storiografico posto dal libro di Luzzato: non riuscendo a trovare tracce significative di Dura al porto, salvo alcuni rollini con i suoi numerosi imbarchi, l’autore ricostruisce una genealogia della colonna genovese seguendo biografie intellettuali che invece hanno lasciato dietro di sé molta documentazione e anche auto-narrazioni. Dura riappare solo nel racconto di Andrea Marcenaro che l’accoglie in Lotta continua tra l’agosto del 72 e il settembre del 1973, quando preferisce andarsene perché non condivideva la distanza mostrata verso il gruppo XXII ottobre. Senza Dura e senza le fabbriche inevitabilmente l’università di Balbi si ritrova al centro della trama della futura colonna con le figure intellettuali di Faina e Fenzi, il primo importante, il secondo semplice gregario, e più in là Senzani che, contrariamente a quanto tenta di dimostrare Luzzato, entrerà nelle Br solo nel 1979 a Roma quando prenderà la responsabilità del Fronte carceri, oppure Adamoli e Arnaldi, certamente con un ruolo più significativo nello sviluppo della colonna. Un récit che ricalca la teoria dei «cattivi maestri», del ruolo nefasto degli intellettuali, del loro veleno ideologico senza il quale tutto non sarebbe potuto nascere, tanto caro al generale Dalla Chiesa. Per Luzzato se la storia delle Br era stata fatta, come gli aveva scritto Rossanda nella critica mossagli anni prima, «da persone un po’ qualsiasi», operai, tecnici, studenti, giovani delle periferie, a Genova le cose sono andate diversamente: «intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre».

All’Ansaldo qualcuno già guardava alle Br
Il volume ruota attorno a questa convinzione nonostante Luzzato stesso dissemini alcuni indizi che mettono in dubbio la sua tesi: nel dicembre del 1973 nello stabilimento di Sampierdarena dell’Ansaldo Meccanico Nucleare viene distribuito un volantino identico a quello diffuso a Torino per il sequestro del capo del personale Fiat Amerio rapito dalle Br, salvo differire nel titolo: «Oggi Amerio, domani Casabona». Effettivamente Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo verrà rapito dalla colonna genovese delle Brigate rosse il 23 ottobre del 1975. Chi aveva diffuso quel volantino aveva già dei contatti con le Brigate rosse.
Nel 2012, Augusto Viel della XXII ottobre racconta nel libro di Donatella Alfonso di aver conosciuto Riccardo Dura nel 1967, quando questi era ancora diciassettenne, insieme a Giuliano Naria in un circolo marxista-leninista di Pegli, davanti a Porto, fondato dal partigiano Agostino Marchelli. Dopo il suo arresto Dura era sempre andato a trovare la madre, sfidando i controlli e quando fu massacrato questa lo pianse come un figlio.

La versione di Moretti: «No, le Br genovesi sono nate al Porto e all’Ansaldo»
Lo storico Davide Serafino nel suo saggio del 2016 sulla colonna genovese ha spiegato come Dura avesse seguito da vicino l’intera vicenda della cosiddetta XXII ottobre, che poi altro non era che il Gap genovese del gruppo Feltrinelli, e ricorda che Naria, dopo l’esperienza in Lotta continua, fece uscire con il collettivo operaio dell’Ansaldo un foglio che appoggiava il sequestro Sossi. A queste testimonianze preesistenti e che Luzzato incomprensibilmente sorvola si aggiunge la versione di Mario Moretti, da me raccolta nel corso dei diversi colloqui che ho avuto con lui nell’ultimo decennio: a chiamarlo a Genova furono Giuliano Naria, che aveva una sua rete all’Ansaldo, e Riccardo Dura dal porto. D’altronde i vasi erano comunicanti, come abbiamo visto i due già si conoscevano. Un copione consolidato che già si era svolto a Torino e poi si ripeterà a Roma con i militanti di alcune strutture politiche delle periferie, a Napoli con Bagnoli. La Brigate rosse sono arrivate a Balbi solo in un secondo momento – precisa Moretti – per incontrare Faina e il suo gruppo, a cui Dura si era legato. Entrarono così anche Fulvia Miglietta e Livio Baistrocchi. Figura incontornabile nella scena politica rivoluzionaria genovese, Faina non fu mai veramente integrato nella colonna, «non per ragioni ideologiche» ma per questioni pratiche: l’emergere di riserve e lamentele interne alla nascente colonna legate alla sua inadattabilità alla guerriglia urbana che ne provocarono l’esclusione, con suo grande rammarico e dolore. Determinante fu poi l’arrivo di Rocco Micaletto che con la sua esperienza strutturò la colonna mentre Moretti, chiamato nella Capitale, si spostò per costruire la colonna romana. Ma c’è un fatto che Moretti sottolinea con forza: «se le Br a Genova catturano per poche ore, processano e poi lasciano libero il Capo del Personale della fabbrica Ansaldo Meccanico Nucleare, come si può pensare che una cosa del genere sia stata possibile se non perché sei già lì, radicato nelle vertenze tra operai e padroni di quella fabbrica, perché ci vivi e lavori gran parte della tua vita, mica perché l’hai letto sui giornali. Guarda caso Giuliano Naria è un operaio dell’Ansaldo. Non è forse questo un buon punto di partenza per fare “storia” sulla genesi della colonna genovese delle Brigate Rosse? Tutti dimenticano che questi compagni erano dei ragazzi di ‘movimento’, che si erano formati in pochi mesi nel grande e vario movimento rivoluzionario di quegli anni».
Giovani operai molto lontani dall’idea di dolore e furore indicata nel titolo. Al pari di Giuliano Naria che venne espulso da Lotta continua perché fumava hascisc, anche Riccardo Dura fumava come tutti gli uomini di mare. Prima di entrare in clandestinità con le Br – racconta sempre Moretti – fece una chiusa di tre giorni fumando hashish in continuazione. Una specie di addio al celibato. Naria probabilmente non smise mai, Moretti ricorda la sua visione orgiastica della rivoluzione dove il proletariato avrebbe dovuto assumere i vizzi della borghesia abolendone solo le virtù. Schizzi di vite che sgretolano il cliché costruito attorno all’unica colonna che aveva arruolato un anarchico ma è stata dipinta come «stalinista, cubo d’acciaio, fantasma senza radici».

Chiaroscuri
Nella seconda parte del volume Luzzato scrive pagine che sconcertano il lettore, inspiegabili scivoloni metodologici che allontanano l’autore dal rigore storiografico dimostrato nel racconto della società genovese. Che senso storico ha rilanciare domande, senza approfondimenti personali e documentazione, ma solo sulla scorta della letteratura dietrologica, sulla reale prigione di Moro e sul numero e l’identità dei brigatisti in via Fani? Nonostante questi incidenti il lavoro di Luzzato è importante perché offre una lezione fondamentale: non può esserci storia degli insediamenti territoriali delle Brigate rosse senza un adeguato approfondimento della temperie sociale, culturale e politica che le ha viste nascere.

Rapimento Moro, quei complottisti a caccia di fantasmi…

Via Gradoli, al posto di Moro un paio di stivali con il dna della brigatista Faranda e dentro la 128 bianca con targa diplomatica, che bloccò in via Fani il convoglio dello statista, il dna del proprietario. Daniele Zaccaria riprende su il Dubbio le ultime novità presenti nel volume La polizia della storia, Derviveapprodi, maggio 2021, sulla sesta inchiesta aperta dalla procura romana sul rapimento e l’uccisione del leader democristiano da parte delle Brigate rosse.


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 19 marzo, 2023

Sono passati quarantacinque anni esatti dal sequestro di Aldo Moro e dalla strage della sua scorta, ma i dietrologi e gli illusionisti di ogni risma non riescono proprio ad accettare il fatto che a rapire e a uccidere il presidente della Democrazia cristiana furono le Brigate rosse e nessun altro. A quasi mezzo secolo di distanza da quei tragici eventi continuano infatti ad evocare cospirazioni, manipolazioni, regie occulte, disturbati dal pensiero che un piccolo manipolo di operai e studenti di bassa estrazione sociale abbia tenuto sotto scacco lo Stato e i suoi apparati per così tanto tempo. La chiamavano “geometrica potenza” delle Br una bella suggestione letteraria, in altri termini il nome che lo Stato aveva dato alla sua incapacità di comprendere e contrastare il fenomeno brigatista, ma quell’immagine di efficienza militare attribuita dalla politica e dal circo mediatico all’organizzazione comunista armata ha alimentato con enorme successo il filone del complottismo.

Un flusso di opinione qualunquista e gelatinoso alimenta la dietrologia
Non stiamo parlando solamente del flusso di opinione qualunquista e gelatinoso che scorre sui social, dei discorsi da bar o delle ossessioni degli “specialisti” della congiura come Sergio Flamigni o Paolo Cucchiarelli che su questi giochetti di ombre cinesi agitate attorno all’affaire Moro hanno costruito una discreta carriera.
La caccia ai fantasmi di via Fani è purtroppo uno sport ancora in voga anche ai più alti livelli politici e istituzionali. Illuminante in tal senso è stato il lavoro della Commissione Moro II con la sua fissazione di voler scovare a tutti i costi il Dna di individui estranei alle Br sul luogo dell’attentato per suffragare l’ipotesi di complotto.
Come nel plot twist di un film hollywoodiano i commissari di Palazzo San Macuto speravano di far emergere verità scottanti e inconfessabili, magari illuminando la longa manus dei servizi segreti, o addirittura quella delle centrali di intelligence straniere: la Cia, il Kgb, e persino gli israeliani del Mossad come sostenne l’ex Pubblico Ministero di Genova Luigi Carli in una memorabile audizione davanti alla Commissione.
Un fronte di indagine, quello genetico, affidato al Reparto investigazioni speciali dei carabinieri, il celebre Ris, che ha messo a confronto le tracce biologiche rinvenute in via Fani con quelle presenti nel covo brigatista di via Gradoli 96. Le analisi però non confermano nessun sospetto evocato dalla Commissione, al contrario denudano diverse fake news che negli anni hanno tentato di smontare senza successo la “versione ufficiale”.

Via Gradoli, al posto di Moro un paio di stivali con il dna della Faranda
In primo luogo nel covo non è stato ritrovato nessun frammento del Dna di Moro ( i quattro profili genetici isolati dal Ris, due maschili e due femminili, non coincidevano con quelli prelevati ai familiari dello statista Dc), il che smentisce chi afferma che il leader democristiano fosse stato imprigionato o comunque avesse transitato anche per via Gradoli: in tutti i 55 giorni del sequestro rimase nella “prigione del popolo” di via Montalcini come hanno sempre affermato i brigatisti coinvolti.
Inoltre nei reperti di via Gradoli emerge una «compatibilità biologica» con il l Dna della brigatista Adriana Faranda, un’altra conferma di quanto sostenuto dai protagonisti: nella base avevano vissuto infatti tre coppie, Carla Maria Brioschi e Franco Bonisoli, Adriana Faranda e Valerio Morucci, Barbara Balzerani e Mario Moretti, questi ultimi proprio durante i giorni del rapimento dopo che l’appartamento di Piazzale Vittorio Poggi in cui vivevano si era “bruciato”. Anche l’inseguimento dei “tabagisti” sulla scena del delitto si è rivelato un flop: le analisi dei 39 mozziconi ritrovati nella Fiat 128 targata corpo diplomatico utilizzata in via Fani per bloccare le automobili di Moro e della sua scorta isolano infatti le tracce genetiche di Nando Miconi, il proprietario del mezzo rubato, su alcuni mozziconi ci sono invece le tracce miste di Miconi e di un ignoto, con ogni probabilità un suo amico o conoscente. Sono soltanto dieci i mozziconi riconducibili a sei ignoti, ma poiché nessuno ha mai visto uscire sei persone dalla Fiat 128 la mattina del 16 marzo 1978, con tutta evidenza le tracce sui mozziconi appartenevano anch’esse a conoscenti del proprietario.
Nel 2021 il fascicolo sui tabagisti viene ereditato dalla procura di Roma la quale convoca quei brigatisti che inizialmente si erano rifiutati di fornire alla Commissione i loro profili genetici. Un accanimento che secondo Enrico Triaca, il “tipografo” delle Br «è un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità come le torture». Arrestato il 17 maggio del 1978, otto giorni dopo la morte di moro, Triaca venne in effetti torturato dal funzionario di polizia Nicola Ciocia, il cosiddetto “professor De Tormentis” che lo sottopose al waterboarding, la stessa tecnica utilizzata dalla Cia per far parlare i sospetti jihadisti e proibita da qualsiasi convenzione internazionale.
Convocazioni pittoresche quelle della procura romana, basti pensare a Corrado Alunni, fuoriuscito dalle Br addirittura nel 1974 o a Giovanni Senzani che non è mai stato un fumatore. In tutto furono una dozzina abbondante gli ex Br convocati, la maggior parte condannati in via definitiva per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Cercando di comprendere l’utilità di simili test, siamo ancora in attesa degli esiti dei nuovi accertamenti genetici visto che l’inchiesta della procura è ancora in corso.
Un altro brutto autogol della Commissione riguarda il testimone Alessandro Marini: nessuno aveva sparato contro di lui in via Fani e il parabrezza del suo motorino Boxer Piaggio si era rotto a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti.
Peraltro, e questo particolare la dice lunga su quanto il furore cospirazionista flirti con il cinismo, il presidente della Commissione Fioroni non hai mai contattato la procura perché avviasse la revisione delle condanne per il tentato omicidio di Marini, tentato omicidio che logicamente non è mai avvenuto.

La commissione d’inchiesta “privata” del giudice Salvini sul sequestro Moro

E’ stata diffusa ieri la relazione della commissione antimafia sul sequestro Moro. Consulente il giudice Guido Salvini. Un’orgia di dietrologia

E’ stata resa pubblica la relazione prodotta nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, «sulla eventuale presenza di terze forze, riferibili ad organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani». A conclusione della legislatura la relazione non era ancora pronta, anche se alcune indiscrezioni erano filtrate verso giornalisti amici che ne avevano subito diffuso una velina il 6 maggio 2022 e le bozze preparatorie erano state sintetizzate nel settembre successivo (senza turbare minimamente la magistratura), sempre su The post internationale.

Una commissione omnibus
Presieduta dal 5stelle Nicola Morra, la commissione aveva suddiviso le sue attività d’inchiesta in 24 sezioni che si sono occupate degli argomenti più disparati, molti dei quali distanti anni luce dalle vicende mafiose o di criminalità organizzata: la morte del ciclista Marco Pantani, il massacro di due minori a Ponticelli nel 1983, l’omicidio di Simonetta Cesaroni in via Poma a Roma, i delitti del mostro di Firenze, la morte di Pasolini. Fatti di cronaca nera in parte rimasti irrisolti. Sulle attività mafiose invece si è lavorato sulla strage di via dei Georgofili, le infiltrazioni negli enti locali, massoneria, usura, strage di Alcamo marina, presenza e cultura mafiosa nelle università e nell’informazione. Infine, ciliegina sulla torta, non poteva mancare – come si è visto – via Fani e il rapimento Moro. Insomma una commissione omnibus, aperta a tutte le vicende giudiziarie e non, una sorta di supplemento politico dell’attività investigativa delle forze di polizia e della magistratura. Non solo, ma con ampio utilizzo discrezionale, quasi personale, dello strumento d’inchiesta, che sembra essere sfuggito al mandato e al controllo parlamentare.

Una indagine doppione
Nel caso della relazione sui fatti di via Fani appare evidente l’entrata a gamba tesa sulle inchieste in corso condotte della Procura della repubblica e dalla Procura generale di Roma che hanno ereditato dalla precedente Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, alcuni filoni d’indagine sulla vicenda Moro. Un doppione d’indagine che sembra quasi voler imporre la “giusta linea politica” all’inchiesta condotta dalla magistratura capitolina. Non solo, emergono ulteriori criticità sulla competenza territoriale: basti pensare al coinvolgimento come consulente del magistrato Guido Salvini, già collaboratore della precedente commissione Moro 2. Insoddisfatto del lavoro svolto nella precedente commissione – senza successo è bene sottolineare – Salvini si è ritrovato tra le mani una commissione tutta per sé, dando sfogo alla propria irrisolta libidine complottista che tormenta la sua esistenza. Questo magistrato, che svolge le proprie funzioni giudiziarie come Gip al settimo piano del tribunale di Milano, in questo modo è riuscito a dotarsi di una competenza sull’intero territorio nazionale per svolgere indagini, interrogatori e altro, senza possedere le dovute conoscenze e competenze sulla materia, e si vede dal risultato dei lavori. Un vero aggiramento politico delle norme e delle procedure giustificato da una sorta di stato d’eccezione complottista perseguito con fanatica voracità.

Il supermercato dei testimomi
A suscitare imbarazzo sono anche i metodi di indagine e le risorse impiegate: per esempio il tentativo di pilotare il ricordo di alcuni testimoni, trascelti perché ritenuti più comodi: tra questi Cristina Damiani che crede di vedere sei persone armate sulla scena, oltre all’agente Iozzino sceso dall’Alfetta di scorta, o ancora il ripescaggio dell’eterno ingegner Marini, uno che è riuscito a raccontare più bugie di Saviano, ricordatevi la storia del parabrezza del suo motorino. O ancora Luca Moschini che parla di una motocicletta vista prima dell’agguato cavalcata da uno dei quattro brigatisti in divisa da stewart dell’Alitalia, in contrasto con le dichiarazioni di tutti gli altri testimoni e con la moto descritta ad azione conclusa da altri due testi, Marini e Intrevado. Insomma la regola è quella del supermercato: mi scelgo i testi che meglio aggradano la mia teoria e ignoro quelli che la smentiscono e così diventa più facile far spuntare la presenza di un quinto sparatore in abiti civili, fuggito a piedi e in direzione opposta agli altri, nonostante sulla scena manchino i bossoli della sua arma, che poi sono l’unico dato obiettivo, e la sua fuga con un’arma lunga in mano (una canna di almeno 30 cm) non sia stata intercettata da nessun altro testimone che era sullo stesso lato del marciapiede nella parte alta di via Fani. E come si sarebbe allontanato dal luogo questo individuo, se non era salito in nessuna delle tre macchine del commando brigatista? Attendendo un mezzo pubblico ad una fermata dell’autobus di via Trionfale con un mitra in mano mentre vetture della polizia confluivano sul posto e l’intero quartiere si riversava in strada? Infine ci sono i soliti Pecorelli, De Vuono, Nirta, i calabresi, l’anello, persino lo stragista fascista Vinciguerra, uno dei cocchi adorati del giudice Salvini che non esita a metterlo dappertutto come il prezzemolo. Una specie di festival canoro di vecchie glorie del complottismo. Mentre chi c’era, i brigatisti, sono sempre dei bugiardi buoni a prendersi solo raffiche di ergastoli.

Il club dei dietrologi digitali
Ancora più problematico appare il ricorso ad alcune «consulenze esterne» del tutto prive di valenza scientifica: amichetti del quartierino complottista, dietrologi digitali, giornaliste da velina, amici della domenica che si dilettano del caso Moro come fosse un gioco di società. Insomma un circo Barnum, roba da avanspettacolo, un vero specchio del livello infimo della politica e delle istituzioni parlamentari attuali.

Se non sei complottista sei ancora un brigatista
Scorrendo le pagine della relazione ho scoperto persino di esser citato, il che devo dire mi suscita solo vergogna. A pagina 37 si richiama il mio ultimo libro, La polizia della storia, La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (Deriveaprodi 2021). Nel testo mi si attribuisce l’appartenenza alle Brigate rosse che rapirono Moro, di cui parlerei come un conoscitore interno, «facendo mostra di un’adesione ancora attuale al pensiero brigatista». Il 16 marzo 1978 non avevo ancora compiuto 16 anni, ero un ginnasiale e mi trovavo nel mio liceo sgarrupato di via Bonaventura Cerretti, quartiere Aurelio di Roma. Era un magazzino di un palazzo sotto il livello stradale, buio, alcune aule piene di scritte del ’77 e dei bagni da dove uscivano i topi. Non c’era altro. Mancavano laboratori, aula magna, palestra. Non era una scuola ma un cesso di periferia. L’avevamo occupato e facevamo autogestione. Eravamo a due passi da Valle Aurelia e il convoglio che portava Moro verso la prigione di via Montalcini al Portuense transitò a due passi da lì, in via Baldo degli Ubaldi. Per parlare della mia esperienza in una delle ultime branche che si separò da quel che restava delle Brigate rosse, a loro volta figlie della scissione in tre tronconi dei primi anni 80, bisogna attendere ancora otto anni. Altri tempi, altre storie.

Il secondo furgone e le parole ignorate di Moretti
Gli estensori mi citano per la presenza il giorno del sequestro di un secondo furgone, un Fiat 238 di colore chiaro, tenuto di riserva e parcheggiato lungo la via di fuga nella zona di Valle Aurelia. Mezzo da impiegare per un eventuale secondo trasbordo dell’ostaggio ma poi inutilizzato e spostato da uno dei brigatisti che parteciparono all’azione di via Fani. Di questa circostanza parlammo già nel libro uscito nel 2017, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera (Deriveapprodi). Ne La Polizia della storia ho solo aggiunto il nome di chi realizzò quello spostamento. Aggiungono gli autori della relazione che «la circostanza della suo mancato utilizzo proviene solo, e anche in forma impersonale, dal racconto dei brigatisti in contatto con Persichetti», ciò – proseguono ancora gli esponenti della commissione – «E’ esempio, come in altri casi, di una logica di verità a rate».
A questo punto sarebbe il caso di sottolineare che a rate c’è solo il cervello a fette dei dietrologi, perché del secondo mezzo aveva parlato Mario Moretti nel libro con Rossanda e Mosca nel lontano 1994, «Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina», (Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, Anabasi 1994, p. 131).
Punto.

La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

Quando la storia finisce all’asta. Non è il comunicato originale del sequestro Moro quello messo in vendita in questi giorni

Paolo Persichetti

Il volantino di rivendicazione del sequestro Moro messo all’incanto con base d’asta 600 euro e offerte che al momento sono già arrivate a quota 5 mila (11 mila ultimo aggiornamento), non è uno dei nove comunicati originali stampati con la famosa Ibm a testina rotante in light italic fatti ritrovare a Roma il 18 marzo 1978 dalle Brigate rosse.
Come è noto, Bruno Seghetti, Adriana Faranda e Valerio Morucci, che si occuparono della diffusione dei primi comunicati e delle lettere scritte dal prigioniero, il giorno dopo il rapimento lasciarono in un plico nascosto dietro una macchinetta per le fototessere collocata nel sottopassaggio di piazza Argentina (oggi non più esistente) le prime 5 copie originali della rivendicazione del sequestro e la foto polaroid di Moro. Tuttavia il giornalista del Messaggero che era stato contattato per il recupero non riuscì a trovalro. Per questa ragione il primo comunicato brigatista arrivò con 48 ore di ritardo. Ricontattato nuovamente con istruzioni più dettagliate lo stesso cronista prese finalmente il plico il sabato successivo, 18 marzo. A quel punto i brigatisti diffusero altri 4 originali in piazzale Tiburtino non lontano dalla redazione di radio Onda Rossa situata in via dei Volsci e che venne allertata con una telefonata, in via Parigi sotto la sede del quotidiano Vita sera che aveva l’abitudine di pubblicare il testo integrale dei comunicati, in via Teulada dove si trovava la sede della Rai e in via Ripetta, nei pressi della sede dell’agenzia d’informanzione Adnkronos. A partire dal lunedì 20 marzo la colonna romana si mobilitò per una diffusione più larga del comunicato nel frattempo ritrascritto con un’altra macchina e ciclostilato: 96 copie vennero rinvenute in via Casilina. Il 21 marzo fu la volta delle periferie e delle scuole: 66 copie furono ritrovate nella zona di villa Gordiani (via Albona, via Pisino, via Rovigno d’Istria), 15 in via s. Igino Papa a Primavalle, 7 davanti al liceo Lucrezio Caro, 1 all’Armellini (dove evidentemente erano andate a ruba), 9 ancora a Primavalle, in via Boromeo davanti l’istituto professionale commerciale, e poi ancora centinaia di copie furono diffuse nei giorni e settimane a venire per tutta la città come si può leggere nel rapporto redatto dalla questura il 29 aprile 1978, quando la diffusione del primo comunicato lasciò il posto agli altri.

Netta è la differenza tra il testo originale scritto da Mario Moretti nella cucina di via Moltalcini, poco dopo l’arrivo con l’ostaggio nascosto in una cassa e il suo trasferimento nello stanzino prigione ricavato da una intercapedine costruita su una parete dell’appartamento. Intanto il carattere del testo in light italic, il passo differente, il numero delle righe, 81 nell’originale, anziché le 80 del testo ciclostilato diffuso nei giorni successivi dalla colonna romana e di cui una copia è ora all’asta. Altri dettagli mostrano la notevole differenza presente tra le due versioni, la presenza di una “I” maiuscola al posto del numero 1 per indicare la data del 16 marzo, mentre nell’originale in light italic, il numero è scritto correttamente.

Di seguito una copia della rivendicazione originale diffusa il 18 marzo 1978, Acs, Migs busta 2

La copia messa all’asta

Copia identica a quella messa in vendita presente in Acs, Migs busta 1

Quanto basta anche per trarre alcune considerazioni:

Non è la prima volta che della case d’asta mettono all’incanto dei volantini o materiale scritto dalle Brigate rosse. Già nel 2012 la Bolaffi ricavò 17 mila euro per 17 volantini acquistati da Marcello Dell’Utri per la sua biblioteca privata di via Senato a Milano. Si trattava di volantini noti, presenti in molteplici copie nella certe processuali e negli archivi di Stato. In Acs presso il fondo Russomanno si trova una intera collezione della pubblicistica brigatista che arriva fino al 1981. Molto più interessante era l’origine di quel piccolo archivio, i volantini infatti presentavano dei fori da catalogatore che lasciavano pensare ad una raccolta messa su da qualche apparato di monitoraggio dell’attività brigatista, forse di origine sindacale e di qualche forza politica che una volta dismessa la propria attività se ne era liberata.

La copia messa in vendita dalla Bertolani Fine Art non ha grande rilevanza storica, esistono negli archivi centinaia di copie del medesimo volantino. Si tratta di una classica operazione commerciale di materiali e oggetti divenuti cimeli del passato. Fortemente segnata da ipocrisia appare invece la polemica sollevata da questa vendita, non risulta che suscitino analogo scandalo i cimeli fascisti, i busti di Mussolini, la pubblicistica del ventennio in vendita nei mercati dell’antiquariato. Siamo nella società della merce, perché dovrebbe stupire se oggetti che datano quasi cinquant’anni si trasformano in materiale d’antiquariato per cultori e feticisti? Sorprende invece l’insipienza storica di quegli specialisti che hanno chiesto l’intervento del ministero della Cultura per l’acquisizione di copie di volantini che esistono già in grande quantità negli archivi statali.

L’unico aspetto interessante che – a nostro avviso – mette in luce questa vicenda è l’attualità che ancora riveste la storia degli anni 70, quella delle Brigate rosse e del sequestro Moro in particolare. Un’attenzione ancora tormentata: sembra che il mezzo secolo che ci separa da quelle vicende non sia mai trascorso. Siamo in presenza di una presentificazione permanente che annulla ogni tentativo di prospettiva storica. Emerge sistematicamente da parte delle istituzioni una postura di disapprovazione etica, la tabuizzazione di un’epoca condannata all’anatema perenne. Un tentativo di esorcismo che non riesce a cancellare l’interesse, la curiosità, la voglia di conoscere che non trovando però una corretta sintassi storiografica, sfocia nel feticismo.

La polizia della storia

Il corpo del reato

Prima puntata – Il pm Eugenio Albamonte ha finalmente depositato una parte delle carte dell’inchiesta che ha portato al sequestro del mio archivio storico e dei miei strumenti di lavoro. Al centro delle accuse c’è il lavoro preparatorio condotto per la redazione del volume “Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera

di Paolo Persichetti

In Italia esiste un organismo di Polizia che si occupa di storia. Proprio così, si intromette nell’attività di ricerca, sorveglia il lavoro dello storico, ascolta le sue conversazioni con le fonti, intercetta le caselle di posta elettronica, sequestra archivi. Come in una sorta di scenario orwelliano si erge a ministero della verità e con il suo occhio minaccioso amministra il passato, decide chi può scrivere, recinta gli argomenti, filtra i contenuti e sopratutto gli autori. Decide insomma come e chi può scrivere la storia. Questo organismo si chiama Polizia di Prevenzione, ex Ucigos, una struttura che nasce dalle ceneri della dissolta e famigerata Uar. Di sicuro non lo sapevate, a dire il vero nemmeno io ne ero al corrente fino a quando non ho letto l’informativa della Polizia di prevenzione del 21 dicembre 2020 (N.224/B1/Sez.2/18803/2020, procedimento penale nr. 93188/20). Un rapporto che fa seguito ad una lunga serie di indagini originate nel gennaio 2019 e da cui è scaturita una ulteriore ed intensa attività investigativa che ha radiografato l’esistenza della mia intera famiglia dalla fine del 2015 ad oggi, e ancora domani e dopodomani, poiché l’attività investigativa e “tecnica” è tuttora in essere. Un attacco frontale al mio lavoro di ricerca che ha portato, l’8 giugno scorso, a una lunga perquisizione nella mia abitazione e al sequestro del mio intero archivio digitale, dei miei strumenti di lavoro e di comunicazione, della documentazione amministrativa e medica di mio figlio disabile. Non è stato portato via solo il materiale d’archivio raccolto e prodotto negli ultimi 15 anni, ma la storia della mia famiglia, di mia moglie e dei miei figli, il nostro passato, la nostra intimità.

L’irruzione nel passato
Questi nuovi storici con l’uniforme si intromettono nel lavoro complicato e complesso della ricostruzione del passato, fanno irruzione in quella bottega dove il ricercatore come un artigiano impasta le sue mani con la polvere del tempo: raccoglie documenti, testimonianze, tenta di colmare i buchi della memoria, rappezza brandelli di ricordi, tracce spezzettate, indizi che pazientemente prova a rimettere insieme, soprattutto ad interrogare. Ma a questi nuovi sbirri del passato tutto ciò non interessa. Nella visione poliziesca della storia i testimoni, gli attori, i soggetti e i gruppi sociali vengono sostituiti dai colpevoli, dai fiancheggiatori e dalle vittime. Le sfumature non esistono, il contrasto è netto, bianco e nero, luce e tenebre, buoni e cattivi. Il terreno storiografico è solo un pretesto per cercare nuovi colpevoli, arrestare gli scampati, affibbiare nuovi ergastoli. La storia si fa riserva di caccia, un safari dove conquistare un trofeo da mostrare in manette ad una conferenza stampa con tanto di selfie. E con queste aspettative che il nuovo ministero della verità – avrebbe detto Orwell – si è intromesso nel rapporto che in questi anni ho intrattenuto con alcune delle mie fonti, ha sorvegliato il lavoro preparatorio che ha portato alla stesura del primo volume del libro Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, scritto insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena e apparso nel febbraio 2017. «Peraltro – scrivono nella loro informativa – Persichetti emerge nelle e-mail oggetto di analisi anche in riferimento all’invio a Loiacono di documenti riguardanti una bozza di una futura pubblicazione relativa ad una ricostruzione dell’azione di via Fani, dalla pianificazione fino alla sua conclusione. Tale materiale è poi effettivamente confluito, sebbene con alcune modifiche, in un capitolo del citato libro. Queste ultime mail, in particolare, contengono una ricostruzione dell’azione di via Fani per alcuni versi distonica rispetto a quanto accertato sinora dai processi e dalle varie Commissioni sul sequestro dell’on. Moro. Lo scopo del libro – e quindi anche di queste e-mail che ne rappresentano una bozza preliminare – è assertivamente quello di “sgomberare il campo dalle mille bufale che circolano sul 16 marzo in via Fani e di ribadire che “via Fani fu in tutto e per tutto un’azione operaia”. Finalità più volte esplicitata da Persichetti in più passaggi dello stesso libro, come per esempio a pagina 9, dove si legge testualmente
“… Ciò che preme sottolineare qui per restare sul terreno della critica è la sordità cognitiva delle narrazioni dietrologie, impermeabili alle smentite accumulatesi nel tempo. Le teorie del complotto, a causa del loro divenire circolare, si sottraggono alla verifica della coerenza interna ed esterna delle loro asserzioni”».
Quella coerenza che sembra mancare anche ai poliziotti della memoria, come vedremo meglio tra un po’.

Una ricostruzione veritiera
«Si tratta di documenti – proseguono gli autori del testo – che forniscono una ricostruzione per alcuni versi inedita, basata sul Memoriale Morucci, ed integrata sulla base dei contenuti di alcuni libri scritti dagli stessi brigatisti e delle nuove dichiarazioni rese “agli autori da Moretti, Seghetti e Balzerani nel corso di una serie di conversazioni tra il 2006 e il 2016». Ricostruzione che ad avviso della Polizia di prevenzione appare veritiera poiché «La lettura delle mail induce a ritenere che i protagonisti fossero “genuini” nella cristallizzazione dei propri ricordi, non fosse altro che per la presunzione di poter discutere in forma “riservata“ […] Una analisi integrata del materiale a disposizione, partita dai dati desumibili da queste “inedite” mail, da rapportare poi alla versione “ufficiale” presente nel libro e a quella presente nel “memoriale Morucci”, non ha evidenziato elementi di novità ad eventuali altri brigatisti o soggetti estranei alle Brigate rosse che possano aver preso parte alla strage».

Non un ricercatore ma un favoreggiatore
Talmente veritiera che secondo i poliziotti non «avrei», in reltà sarebbe stato più corretto scrivere avremmo (il libro è opera a più mani, ma alla polizia della storia fa comodo indicarmi come autore unico), riportato correttamente le informazioni raccolte. Per questo mi sarei macchiato di favoreggiamento, in particolare nei confronti di Alvaro Loiacono Baragiola. Nella relazione si sostiene che «la mancata trasposizione nel libro di alcuni passaggi invece presenti nelle email implica una scelta che potrebbe non essere solo di natura editoriale, ma anche “politica”, tenuto conto delle contraddizioni che pure erano emerse tra i racconti dei vari terroristi intervistati e tra questi e il memoriale Morucci e/o gli iscritti già pubblicati da alcuni militanti delle Br».
Affermazione impegnativa, che troverebbe senso solo se i poliziotti della storia avessero intercettato tutti i colloqui avuti dagli autori del libro in anni di incontri con i diversi testimoni e riscontrato difformità. Forse per questo sono venuti in casa, col pretesto della divulgazione di un inesistente documento riservato della commissione (le relazioni annuali e le bozze delle relazioni non rientrano in questa fattispecie) per cercare appunti, schizzi, piantine, vocali e altri materiali raccolti nel corso della preparazione del primo volume e in vista del secondo. Una ingerenza indebita nel lavoro mio e di Marco Clementi (abbiamo curato insieme la parte del libro su via Fani).
E’ un fatto gravissimo. Non può essere un’autorità di polizia o la magistratura a sindacare il rapporto con le fonti e giudicare come un ricercatore affronta le contraddizioni, le difficoltà, gli errori, le illusioni o i buchi di memoria delle fonti orali a quaranta anni dai fatti. Nella informativa si sostiene che avremmo «cassato completamente» dal libro «le funzioni inedite svolte da Loiacono rispetto a quelle riscontrate processualmente» (tornerò tra poco sulla questione), ma la cosa davvero gratuita è il movente scelto dalla Polizia di prevenzione per giustificare questa presunta omissione. Secondo il Primo dirigente Di Petrillo e il vice Ispettore Vallocchia avrei intenzionalmente svolto «generale opera di rivisitazione del ruolo [dei brigatisti latitanti – anche se Loiacono è cittadino svizzero ed ha scontato per intero la condanna] nell’azione di via Fani, assumendo anche i margini di una possibile forma di favoreggiamento».

Un lavoro rigoroso
Chiunque abbia letto il libro conosce perfettamente il lavoro minuzioso svolto, gli elementi di novità significativi introdotti nella ricostruzione del rapimento Moro grazie a una faticosa integrazione tra fonti documentali e nuove disponibilità delle fonti orali, che non si sono tirate indietro, intenzionate a dare un contributo definitivo di chiarezza nella ricostruzione dei fatti. Abbiamo insistito con loro affinché anche il minimo dettaglio venisse ricostruito, nei limiti delle possibilità che la memoria e i documenti potevano consentire. Abbiamo assistito al processo di rimemorizzazione in presa diretta di alcuni di loro, testimoni che hanno dovuto superare e correggere errori e illusioni stratificatesi a decenni di distanza dai fatti. Oggi sappiamo come sono arrivati sul posto i brigatisti quella mattina, tutte le armi che impugnavano, come hanno organizzato l’azione, collocato le macchine, la via di fuga ricostruita nel dettaglio, e molte altre cose ancora sulla vicenda politica del sequestro, aspetti che alla Polizia di prevenzione sembrano interessare ben poco. Nonostante ciò, al momento di chiudere le bozze, alla fine del 2016, non siamo riusciti a chiarire un aspetto della via di fuga, per altro fino ad allora da tutti ignorato: ovvero come venne spostato un furgone di riserva, collocato nel quartiere di Valle Aurelia, che in caso di necessità sarebbe dovuto servire per un secondo trasbordo del prigioniero. Il confronto con gli altri testimoni che abbiamo potuto raggiungere è stato acceso ma purtroppo non risolutivo sul punto. Dovendo andare in stampa abbiamo così deciso di risolvere l’impasse delimitando l’informazione su due dati da noi accertati: non abbiamo mai scritto che Loiacono fosse sceso dalle scalette in fondo a via Licinio Calvo insieme a Balzerani, Bonisoli, Casimirri e Fiore. Abbiamo riportato quanto sostenuto da Moretti e confermato da tutti, che furono alcuni dei membri già identificati della Colonna romana che presero parte all’azione a spostare il furgone (p. 184).

Il suggeritore
Quello del ricercatore è un lavoro paziente e ostinato che non si arresta mai e negli anni successivi siamo più volte tornati sulla questione. Cosa c’entri questo lavorio storiografico con il favoreggiamento e l’associazione sovversiva, potete valutarlo da soli. Forse bisognerebbe chiederlo all’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che nel verbale di sommarie informazioni reso il 1 dicembre 2020 davanti al Pm Eugenio Albamonte e ai vertici della Polizia di Prevenzione, ribadendo una sua personale e indimostrata ipotesi sulla presenza di un garage “amico” dei brigatisti in via dei Massimi 91, circostanza che smentirebbe – a suo dire – l’abbandono delle tre vetture del commando brigatista in contemporanea in via Licinio Calvo e la fuga attraverso le scalette che portano verso via Prisciano, ha sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». E fin qui nulla da obiettare. Ognuno può pensarla come vuole, anche se la disciplina dei riscontri richiede elementi concreti e verificabili, non illazioni senza fondamento. Il problema sorge quando Fioroni insinua che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della Commissione con riferimento a questo profilo». Lavori e stati di avanzamento destinati a diventare di dominio pubblico, quindi se quello fosse stato il fine di “queste terze persone” sarebbe bastato attendere. Di Fioroni, delle attività della sua Commissione, dei suoi carteggi con Loiacono e delle sue proposte indecenti, parleremo nella prossima puntata.

Lo storico Marco Clementi, «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»

Quando il terremoto distrusse Amatrice e gli altri comuni vicini ero lì con la mia famiglia. Paolo Persichetti e la sua erano partiti da qualche giorno e quella mattina avremmo dovuto incontrarci in Umbria. Stavamo lavorando a un libro sul caso Moro e più in generale sugli anni della lotta armata in Italia assieme alla prof.ssa Elisa Santalena, che vive in Francia, e anche durante il periodo estivo ci si incontrava per consultarci. Paolo aveva fatto un lavoro egregio in Archivio di Stato, a Roma, quartiere Eur, dove era stata depositata una mole enorme di documentazione proveniente dalla PS, dai carabinieri, dai servizi (direttive Prodi e Renzi), passando intere settimane a leggere, ordinare e creare un suo inventario di carte che era il primo studioso in Italia a vedere.
Il mio archivio, che contiene documenti provenienti un po’ da tutto il mondo e in molte lingue straniere, si trovava a Capricchia, la frazione di Amatrice da dove è originario mio padre, mentre mia nonna era di Accumoli, tanto per non farci mancare nulla quella notte. Saputo della tragedia, Paolo corse con un amico. La casa, che avevamo ristrutturato da pochi anni, aveva tenuto. Entrammo e con calma, nei giorni successivi, nei momenti in cui non dovevamo provvedere all’ennesima emergenza, mettemmo in salvo l’archivio e circa mille libri, che avevo portato per aprire una biblioteca in paese. Pensavo, all’epoca, che la comunità dove ero nato meritasse un luogo di cultura, sebbene fossero rimasti in pochi a vivere stabilmente tra i Monti della Laga. E lo pensava anche Paolo, per quella che è ormai diventata la sua comunità di adozione.
Di adozione sua e della sua famiglia, con il piccolo Sirio, un bambino che adesso tutti conoscono come il “capo” dei Tetrabondi, un bambino con una forza e di una intelligenza rare, che sta superando ogni difficoltà che la vita gli ha posto di fronte fin dal ventesimo giorno dalla nascita grazie alle sue qualità e al lavoro instancabile dei suoi genitori.
Il dott. Persichetti è un grande papà. Poco mi importa che sia un docente mancato in Francia a causa della sua estradizione e che abbia passato anni in carcere. Resta tra i migliori ricercatori che abbia mai incontrato in quella che, purtroppo, può oramai definirsi una lunga carriera. Chi mi conosce lo sa: ne stimo pochi, con ancora meno parlo. Paolo Persichetti è un uomo colto, acuto, meticoloso (molto più di me), capace di ragionare da storico, politologo e sociologo (molto meglio di me), instancabile lettore di lavori altrui, con una straordinaria capacità di giudizio critico e in grado di tornare sui propri errori. Il suo italiano, poi, è tra i migliori sulla piazza storica. È un cercatore di risposte a domande storicamente fondate e sarebbe in grado di tenere un ottimo corso sugli anni Sessanta e Settanta in qualunque università del mondo.
Qualcuno ha parlato, per la perquisizione della sua casa avvenuta l’8 giugno 2021, di attacco alla ricerca storica. Mica gli storici ufficiali, quelli delle organizzazioni scientifiche e dell’accademia. Quelle e quelli credo non diranno una parola in merito. Li conosco e non mi faccio illusioni. Paolo non è considerato un pari. Tra l’altro la ricerca storica non è una persona. Anzi, non so bene proprio di cosa si tratti. Non so cosa sia la storia, non so cosa sia il passato, il presente, un fatto, un avvenimento. Provate a chiederlo a decine di storiche e di storici. Ognuno darà una risposta differente, spesso vaga, a volte incomprensibile. La questione, allora, riguarda le ricerche proprio del dott. Persichetti. Le sue ricerche, non quelle di chiunque altro. Quelle di uno dei migliori, se non il migliore, studioso del caso Moro. In grado di aprire le contraddizioni e stanare le dietrologie basate sul nulla, di mettere in fila le deduzioni che diventano per miracolo “realtà” e di porre infine il quesito dei quesiti in maniera chiara: se si chiede verità ancora oggi, dopo 40 anni, i processi che hanno condannato decine di persone all’ergastolo o a centinaia di anni di carcere, che cosa hanno detto?
Come se la verità fosse un punto fermo in qualche parte del cosmo e servissero solo le chiavi giuste per aprire la porta che la custodisce. Come se la presenza, ingombrante, di storico o storica non fosse determinante nel maneggio personale e soggettivo delle carte. Come se il soffio che regolarmente passiamo sulla polvere del passato, non scoprisse il nulla che oggi resta e non ci chiedesse, a noi che ci assumiamo la responsabilità di raccontare, di dire esclusivamente la nostra. La verità storica non esiste. Esistono gli uomini e le donne e le loro opere. Paolo è uno di loro. Nelle sue carte e nei computer gli inquirenti troveranno risposte storiografiche solide, ben strutturate, chiare. Troveranno il riflesso di quello che ho potuto osservare in tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme e anche se da tempo ho scelto di non occuparmi più di di lotta armata in maniera professionale, ci consultiamo, leggo ancora parte delle cose che scrive, continuo a essere una presenza nella sua vita di studioso, oltre che in quella privata. Credo di aver imparato da lui, come lui ha imparato da me. Ma è arrivato il momento che il dott. Persichetti sia riconosciuto non come un ex, ma per quello che è: un ottimo storico, il migliore sul caso Moro e la storia delle Br. Per distacco.