Non sono tutti Charlie, in scena a Parigi la grande sfilata dell’ipocrisia

Non sono tutti Charlie quelli che sono scesi sulle strade di Parigi per sfilare contro il massacro compiuto nella redazione del giornale satirico francese e la successiva scia di sangue che ne è seguita. Non lo sono soprattutto quelli che hanno preso la testa del corteo, una cinquantina di capi di Stato provenienti da mezzo mondo accompagnati dall’intero establishement francese. Tra loro c’è gente che a casa propria mal tollera la satira o ne fa strame, come quel tal Benyamin Nétanyahou  o Avigdor Lieberman, rispettivamente premier e ministro degli esteri di un Israele che ha sempre eliminato fisicamente vignettisti e poeti palestinesi, timorosa delle loro matite e dei loro versi considerati armi da guerra (leggi sotto).
Non è Charlie nemmeno il ministro dell’economia israeliano, quel Naftali Bennett, capo del partito della destra religiosa, Foyer juif, che nel 2013 non ha avuto problemi nel dichiarare: «ho ucciso molti arabi nella mia vita. E tutto ciò non mi crea alcun problema».
Non sono Charlie il re di Jordanie Abdallah II, il capo della diplomazia russa Sergueï Lavrov, il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, il ministro degli esteri degli Emirati arabi uniti, cheikh Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, il capo del governo ungherese, Viktor Orban, il presidente della repubblica gabonese Alì Bongo, che Reporters sans frontières colloca nella sua classifica sulla libertà di stampa mondiale rispettivamente: la Turchia al 154° posto, la Russia al 148°, la Giordania al 141°, il Gabon al 98°, Israele al 96° e l’Ungheria al 64°.
In Giordania vengono arrestati giornalisti e chiusi canali televisivi, come recentemente è accaduto per una emittente della opposizione irachena. In Russia basta ricordare la sorte della Politkovskaja oppure il processo e la condanna delle Pussy riot. In Ungheria il governo in mano alla destra populista ha fatto votare una legge bavaglio contro la stampa. In Turchia sono all’ordine del giorno arresti di massa contro i media d’opposizione, per non parlare del sostegno militare e logistico fornito alle forze islamiste che combattono in Siria. Non sono Charlie il presidente ucraino Petro Porochenko e il rappresentante della diplomazia egiziana Sameh Choukryou, paesi dove la libertà di stampa ha vita difficile. Non lo è nemmeno lo spagnolo Mariano Rajoy che non ha problemi a colpire avvocati e stampa basca indipendentista.
Forse dopo il gran defilé che ha benedetto l’union sacrée mondiale per la difesa della libertà di stampa, il miglior regalo che si poteva inviare ai predicatori dell’odio religioso e ai loro dirimpettai fanatici dello scontro delle civiltà, non è più Charlie nemmeno Charlie Hebdo.
La satira è irriverenza assoluta contro il potere e i potenti, altrimenti è solo insulto e ghigno contro i deboli. L’endorsement delle cancellerie mondiali è un abbraccio mortale per un settimanale satirico che così rischia di divenire solo una delle tante gazzette delle grandi potenze. Charlie hebdo non è morto sotto i colpi dei fratelli Kouachi ma calpestato dai passi delle cancellerie mondiali.

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Dal blog Polvere da sparo

Quando Israele volò fino a Londra per sparare ad un vignettista…

E’ il quotidiano israeliano Haaretz a comunicarci che domani in piazza, a Parigi, alla mastodontica manifestazione “per la libertà di espressione e la democrazia” sarà presente anche Benyamin Netanyahu.
Sotto il drappo nero e la scritta “Je suis Charlie” abbiamo visto scorrere, in queste giornate, tra le più terrificanti immagini di questi tempi e sicuramente domani, sull’asfalto parigino, assisteremo alla sagra della mostruosità.
Charlie Hebdo era irriverenza e blasfemia, lotta con qualunque arma all’oscurantismo: i caduti di quel giorno son gente nostra, son compagni, sono anarchici, sono blasfemi cazzari che hanno sempre odiato quel che questa gente è. Una rivista nata sull’antimilitarismo, sull’abbattimento del bigottismo e dell’oscurantismo, sulla presa per il culo di qualunque tipo di religione (che ci piaccia o no): chi riempirà le strade domani sarà proprio il nemico di quelle matite spezzate.

Poi, mi ripeto, veniamo a sapere che non ci sarà solo un inutile Renzi, no..
alla sfilata di domani ci sarà anche chi ha fatto scuola in materia di uccisioni di vignettisti: il primo ministro dello stato ebraico di Israele.
Sarebbe bello se domani in piazza Bibi Netanyahu ci raccontasse dove era il 22 luglio 1987, mentre su un marciapiede di Londra veniva colpito Naji al-Ali, disegnatore e vignettista palestinese,
papà premuroso di Handala, bimbo palestinese simbolo delle sue strisce di cui nessuno ha mai visto il mondo perché è sempre stato disegnato di spalle. Un bambino che rappresentava (e certo il piombo del Mossad non l’ha interrotto in questo suo compito) la resistenza palestinese e un intero popolo, un bimbo che si sarebbe girato per mostrare il suo volto solo una volta tornato a casa sua, solo una volta tornato libero, in terra di Palestina.
Il papà di Handala, colui che muoveva quella matita così fastidiosa, era un uomo straordinario: a 10 anni era stato un Handala anche lui, esule, cacciato dalla sua terra e abitante di arrangiate tende nel campo di Chatila in Libano.
Naji al-Ali con la sua matita, ogni giorno, anche dal più lontano esilio londinese, colpiva il nemico israeliano occupante con strisce sottili e pungenti, laceranti e dolci,
era un combattente instancabile, finchè Israele non decise di andarlo a cercare.Handala, di Naji al-Ali
Trovò la morte con un colpo in pieno volto, a molte miglia di distanza dalla sua terra profumata di Timo,
colpevole, con la sua ironia e le sue matite,
di combattere l’occupazione militare, l’esilio, l’impossibilità di ritorno, l’apartheid che ancora avanza.

Sarebbe bello chiedere a Netanyahu dove era in quel luglio del 1987 quando il volto di Naji veniva spappolato,
quando abbiamo perso per sempre la possibilità di vedere il volto del suo Handala.
Sarebbe bello che Netanyahu domani si guardasse allo specchio e lo vedesse lui il volto di Handala, intento a sputargli in un occhio, poco prima che raggiunge una manifestazione in nome della libertà di espressione e in ricordo di vignettisti “uccisi dal terrore”.
Vergognatevi.

Link utili
Cronache migrantiLa profezia armata dell’occidente
Destra, il terrorismo dei lupi solitari. Le passioni tristi della crisi. Il massacro dei senegalesi di Firenze

Taksim, il quartiere di Istanbul che ha acceso la rivolta in tutta la Turchia

Analisi – Che cosa sta succedendo in Turchia? «L’aspetto fondamentale di questa protesta è che per la prima volta nella storia recente della Turchia il primo ministro eletto per tre volte alla guida del governo, viene contestato e messo in difficoltà da un piazza composta da una pluralità di soggetti diversi: giovani della classe media, studenti, militanti dei più diversi partiti d’opposizione, venditori ambulanti, intellettuali, artisti, gruppi di tifosi, uniti dall’opposizione a quella che viene vissuta da una larga parte della popolazione turca come una sua deriva autoritaria»

Turchia: la protesta dilaga, di Michele Vollaro

3 giugno 2013 dal blog

Per il terzo giorno consecutivo sono proseguite ieri in numerose città della Turchia le manifestazioni che, cominciate a Istanbul per salvare un parco al centro della città dalla costruzione di un ipermercato e di una moschea, hanno rapidamente assunto il carattere di una protesta a livello nazionale contro le politiche portate avanti dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan nel suo decennio di governo.
Una protesta che è emersa all’inizio della settimana scorsa, quando una cinquantina di abitanti del quartiere di Taksim hanno cominciato a riunirsi sotto i 600 alberi del parco di Gezi per impedire alle ruspe di abbatterli e ha visto prima l’appoggio del deputato curdo del Partito della pace e la democrazia (BDP), Sırrı Süreyya Önder, eletto in quel distretto, e poi anche di altri parlamentari membri del kemalista Partito popolare repubblicano (CHP).
La partecipazione, soprattutto di giovani e abitanti del quartiere, ai presidi nel parco al centro di Istanbul è andata aumentando fino a venerdì, quando è iniziata una serie di tentativi di sgombero violento da parte delle forze dell’ordine. La violenza utilizzata per cacciare i manifestanti da Gezi e il silenzio in merito da parte della maggior parte dei principali media nazionali, assordante mentre su internet e sulle reti sociali le cariche della polizia diventavano il principale argomento di discussione e venivano condivise le prime immagini e i video dalla piazza, hanno spinto ancora più persone ad aggregarsi ad Istanbul ed altre hanno cominciato a scendere in strada anche nelle altre città, nella capitale , a Smirne, Antalya, Adana, Trebisonda, Diyarbakır.
Ieri nel primo pomeriggio il ministro dell’Interno, Muammer Güler, ha riferito che da venerdì fino a quel momento erano state più di 1700 le persone arrestate nel corso delle manifestazioni svoltesi in 90 diverse città del paese, mentre i feriti sarebbero 53 tra i protestanti e 26 tra le forze dell’ordine. Anche se la maggior parte degli arrestati dovrebbe essere stata liberata dopo un primo interrogatorio, il bilancio dei feriti comunicato ad alcune agenzie di stampa indipendenti turche da fonti mediche aveva raggiunto domenica mattina circa un migliaio di persone portate negli ospedali ad Istanbul e di almeno altre 500 ad Ankara. Decine sarebbero quelli in gravi condizioni.
Dopo gli scontri che hanno caratterizzato la giornata di sabato a Istanbul, soprattutto nei quartieri di Taksim e di occupygeziBeşiktaş, quando decine di migliaia di persone hanno affrontato i gas lacrimogeni ed i cannoni ad acqua della polizia opponendosi alle cariche fino ad ora tarda, i manifestanti sono scesi di nuovo per le strade domenica per pulirle dai rifiuti della notte precedente e partecipare festosamente alle iniziative previste nel parco di Gezi, riconquistato temporaneamente alle ruspe. Alcune cariche e tafferugli si sono registrati nei pressi dell’ufficio del primo ministro a Beşiktaş, ma gli scontri più gravi e violenti si sono registrati ieri soprattutto ad Ankara e Smirne, dove i manifestanti si sono scontrati per diverse ore con la polizia, che secondo alcune ricostruzioni avrebbe sparato oltre ai gas lacrimogeni ed ai proiettili di gomma anche pallottole vere.
Nonostante le dichiarazioni del presidente della Repubblica, Abdullah Gül, e del sindaco di Istanbul, Kadir Topbaş, entrambi colleghi di partito di Erdoğan, per alleggerire la tensione sostenendo che “abbiamo imparato la lezione”, il primo ministro ha reiterato ieri la propria volontà di voler andare avanti con il programma di ridisegno urbanistico della città respingendo le critiche di chi durante le proteste lo ha definito un “dittatore” per l’uso eccessivo della forza contro le manifestazioni.

Intervento della polizia turca contro un manifestante ad IzmirIl suo controllo assoluto sul partito, che grazie ad una serie di riforme costituzionali si è lentamente esteso all’intero apparato statuale, la decapitazione attraverso il carcere con l’accusa di cospirazione o il prepensionamento dello stato maggiore dell’esercito che nel primo momento della sua avventura governativa si era opposto all’AKP, le forti pressione sui media che progressivamente si sono sempre più allineati alle posizioni del primo ministro, le recenti decisioni in politica estera in particolare rispetto agli eventi in corso in Siria ed infine tutta una lunga serie di misure volte a imporre un maggiore controllo dello Stato sulla vita dei cittadini, culminate con l’approvazione della legge per il divieto di vendita d’alcol durante la notte o il tentativo di vietare l’aborto e la pillola del giorno dopo, sono i motivi principali che hanno portato quella che sembrava essere destinata a rimanere una marginale protesta ambientalista ed anti-capitalista a forse la più importante sfida cui l’AKP si sia mai trovato a dover essere confrontato.
“La lotta per il parco di Gezi ha fatto scattare la rivolta giovanile di almeno due generazioni cresciute sotto i governi autoritari di Recep Tayyip Erdoğan e le imposizioni dell’AKP – si legge in un comunicato preparato dal Network per i beni comuni ‘Müştereklerimiz’, facente parte della piattaforma per la resistenza di Taksim – Sono i figli delle famiglie sfrattate da Tarlabaşı in nome della speculazione edilizia, sono gli operai licenziati in nome della privatizzazione, i precari schiacciati ogni giorno sotto la ruota del profitto”.
“Dal parco la resistenza ha travolto piazza Taksim, e da piazza Taksim via verso il resto del paese, finché Gezi è diventato per tutti noi lo spazio in cui tirar fuori tutta la rabbia contro chiunque voglia imporci come vivere nella nostra città – prosegue il comunicato – Le lotte a venire faranno tesoro di questa rabbia. Ma c’è molto di più. La resistenza per il parco di Gezi ha cambiato la stessa definizione di quel che chiamiamo spazio pubblico, perché la battaglia per il diritto a restare in piazza Taksim ha stracciato l’egemonia del vantaggio economico come regola morale”.

occupygezi2L’aspetto fondamentale di questa protesta è che per la prima volta nella storia recente della Turchia il primo ministro eletto per tre volte alla guida del governo, viene contestato e messo in difficoltà da un piazza composta da una pluralità di soggetti diversi: giovani della classe media, studenti, militanti dei più diversi partiti d’opposizione, venditori ambulanti, intellettuali, artisti, gruppi di tifosi, uniti dall’opposizione a quella che viene vissuta da una larga parte della popolazione turca come una sua deriva autoritaria. Alle manifestazioni partecipano persone che hanno votato l’AKP alle precedenti elezioni, affidandosi alle promesse di sviluppo economico e all’immagine islamica moderata di Erdoğan, ma anche militanti delle numerose organizzazioni della sinistra radicale così come simpatizzanti del nazionalismo kemalista laico e sostenitori del CHP. Ed è proprio la presenza in strada, discreta e senza bandiere di partito, di questi ultimi, che insieme all’esercito hanno dominato la politica turca dalla fondazione della repubblica, a suscitare gli interrogativi più interessanti su come potranno proseguire le mobilitazioni. Come ha scritto infatti lo storico turco Zihni Özdil, che insegna all’Università Erasmus di Rotterdam, nei Paesi Bassi, “se in precedenza i regimi laici al governo in Turchia prendevano di mira soprattutto il dissenso religioso, il governo dell’AKP ha utilizzato le stesse forme di repressione contro le critiche laiche”, ricordando poco più avanti che un suo amico impiegato presso l’Associazione per i diritti umani IHD, focalizzata sulla questione curda, ripetesse sempre “l’AKP è il CHP con il turbante”.

Dello stesso autore
Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda. La rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

Gli scherzi della geopolitica – Abdullah Öcalan, il leader del Pkk imprigionato da 14 anni nell’isola carcere di Imrali, spiazza tutti. In occasione della festa kurda del Newroz (Norouz in persiano: نوروز ;  Nevruz in turco), l’equinozio di primavera festeggiato secondo l’antica tradizione zoorastiana, il dirigente del Partito dei lavoratori del Kurdistan ha lanciato un importante appello che chiede di mettere fine alla lotta armata in favore di una nuova strategia che per la lotta verso l’autodeterminiazione del popolo kurdo rappresenta una rivoluzione nella rivoluzione: abbandonare la vecchia prospettiva nazionalista che puntava alla rivendicazione monoetnica del “uno Stato un popolo” per passare ad una visione multiculturale, multinazionale e multietnica ispirata al confederalismo democratico.
Una svolta che in futuro potrebbe fare da battistarda anche per la soluzione del conflitto in terra Palestinese depotenziando l’attuale mina confessionale.
La sortita di Öcalan ha avuto una lunga gestazione con mesi di incontri e trattative riservate con i suoi carcerieri, gli emissari del governo turco, e scambio di messaggi con i vari dirigenti della diaspora kurda, incidenti di percorso ed episodi ancora non chiariti come l’uccisione, lo scorso gennaio, di tre esponenti della comunità kurda in esilio a Parigi, tra cui Sakine Cansiz, 55 ans, fondatrice del Pkk.

Soprattutto la mossa di “Apo”, spiegano gli analisti di geopolitica, trae alimento dal potenziale rischio di destabilizazzione che le “primavere arabe” e la crisi siriana hanno provocato sulla Turchia, socchiudendo come mai era accaduto prima d’ora una formidabile finestra d’opportunità per le sorti del popolo kurdo che ha visto così approssimarsi l’occasione irripetibile di dare vita ad una propria “estate di libertà”.
Dopo aver strumentalizzato per anni la questione kurda in funzione antiturca, il regime di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente siriano), che per anni aveva dato ospitalità e sostegno logistico e finanziario al Pkk, sia per una logica di campo (la Siria era un alleato improprio dell’Urss mentre la Turchia appartiene alla Nato) che per questioni strategiche regionali, legate alla gestione delle riserve idriche dell’Eufrate e del Tigri, i cui corsi nascono in Turchia e confluiscono in Siria, i due Paesi giunsero ad un compromesso sancito nel 1998 con gli accordi di Adana. Quel patto segnò la fine dell’appoggio di Damasco al Pkk e l’espulsione di Öcalan dal Paese. Dopo una breve permanenza nella Federazione russa, l’arrivo improvvissato in Italia dove gli venne negato l’asilo politico, il presidente del Pkk fu rapito in Kenya e condotto nelle carceri turche.
Dopo l’esplosione della guerra civile siriana, nel corso dell’estate 2012 le truppe di  Bachar Al-Assad hanno evacuato il nord del Paese lasciando territorio libero alle milizie armate del Pkk. Situazione che ha fortemente allarmato la Turchia per il timore che ciò potesse dare luogo alla nascita, di fatto, di una zona autonoma d’influenza kurda nel nord della Siria, sponsorizzata sia dall’Iran che dalla fazione lealista di Damasco. Da qui le trattative accelerate con il prigioniero Öcalan che non si è lasciato sfuggire l’occasione, tuttavia inquadrandola non in un semplice soluzione tattica del momento ma all’interno di una innovativa proposta di ampio respiro strategico, come spiega il testo di Michele Vollaro, che proponiamo qui sotto (dal blog baruda.net)


Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

di Michele Vollaro

«La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini».

Una dichiarazione storica che potrebbe chiudere il trentennale conflitto che oppone il Partito dei lavoratori kurdi (PKK) e lo Stato turco. Un annuncio clamoroso destinato a mettere fine alla lotta armata che ha causato oltre 40.000 vittime. Così è stato definito da più parti il messaggio di Abdullah Ocalan, letto a Diyarbakir il 21 marzo durante la celebrazione del Newroz. Un messaggio che gli abitanti del Kurdistan, forzati da decenni alle politiche assimilazioniste delle autorità turche, hanno accolto con gioia e trepidazione, convinti ormai anch’essi da tempo della necessità di trovare una strada alternativa alla lotta armata per vedere riconosciuti i propri diritti e, ancor di più, condizioni di vita dignitose, in una società come quella kurda caratterizzata da marginalità, oppressione, povertà e disoccupazione. In poche parole dall’assenza assoluta di una qualsiasi prospettiva per riuscire anche solo ad immaginare di realizzare le proprie aspirazioni personali, siano esse la possibilità di scegliere un lavoro, di viaggiare liberamente o anche semplicemente di parlare la propria lingua madre. Chi ben conosce questa situazione e la storia recente del Kurdistan ha giustamente salutato il messaggio di Ocalan come un fondamentale punto fermo per un dialogo che può cambiare definitivamente le condizioni di vita nella regione.

L’inganno geopolitico
Qualcun altro, invece, ha visto in questo messaggio la definitiva abdicazione del popolo kurdo ai propri diritti e alla propria autodeterminazione, interpretando la scelta del fondatore del PKK come una capitolazione a più forti interessi internazionali. Un presunto accordo dettato da ipotetici interessi geopolitici per non danneggiare la ‘crociata’ imperialista a sud del confine turco, dove le potenze occidentali starebbero complottando il rovesciamento di un regime nemico, quello siriano, amato e sostenuto dalla propria popolazione. Il popolo kurdo avrebbe quindi venduto la propria anima al diavolo per ottenere chissà quale vantaggio ai danni di quello siriano. Non credo valga nemmeno la pena soffermarsi ad evidenziare l’assurdità di quest’interpretazione, che sembra uscita più da un tabellone da gioco di Risiko dove ognuno guarda alle proprie immaginifiche bandierine anziché essere fondata su condizioni di fatto.

Una rivoluzione di paradigma: dallo Stato-nazione al confederalismo democratico
Ben più interessante e produttivo sarebbe in realtà concentrare l’attenzione su un paio di osservazioni. Alcune, che potrebbero essere utili a comprendere meglio cosa accade o potrebbe accadere in Kurdistan e in generale all’interno della Turchia, da tempo immemore considerata la porta o il ponte tra Oriente ed Occidente e quindi già solo per questo degne di un necessario approfondimento, ma ancora più fondamentali per la “rivoluzione” (qualcuno probabilmente storcerà il naso a leggere questo termine) non solo sociale e politica, ma anche e soprattutto di categorie interpretative che il Medio Oriente vive ed ha vissuto negli ultimi anni. Altre, più vicine invece a precedenti diversi, anche della storia italiana, accomunabili alla vicenda di Ocalan per certe somiglianze che potrebbero consentire di guardare ad eventi, usi e giudizi già espressi nel passato recente.
Cominciamo dal locale e particolare, che interessa come accennato lo stravolgimento di categorie tradizionali. Il discorso di Ocalan può essere riassunto nella frase “Siamo ora giunti al punto in cui le armi devono tacere e lasciare che parlino le idee e la politica”. Al di là delle notizie di cronaca sull’inizio o meno di un cessate-il-fuoco da parte delle fazioni armate e dell’avvio di un processo di pace tra PKK e Stato turco, è stato notato in modo più che corretto che questo indica un mutamento di strategia. Anche se non è proprio una novità: sono anni che l’agenda politica kurda è incentrata sul principio della “autodeterminazione democratica”, un concetto promosso allo stesso tempo da Adbullah Ocalan e dal Partito della pace e della democrazia (BDP) dove l’affermazione dell’identità del popolo kurdo e la democratizzazione dell’intera Turchia diventano le due facce della stessa medaglia. Ma questo è giusto un dettaglio o anche solo una puntualizzazione da addetti ai lavori. Si potrebbe osservare infatti che nonostante le numerose tregue dichiarate in passato dal PKK, per un motivo o per un altro, le armi non sono state ancora abbandonate dai guerriglieri e questa è stata infatti la risposta del ministro turco dell’Interno, Muammer Güler, che pur concedendo ad Ocalan di aver usato un linguaggio di pace ha aggiunto che “ci vorrà tempo per vedere se le parole saranno seguite dai fatti”.
Lo stesso Ocalan ha detto che “Oggi comincia una nuova era. Il periodo della lotta armata sta finendo, e si apre la porta alla politica democratica. Stiamo iniziando un processo incentrato sugli aspetti politici, sociali ed economici; cresce la comprensione basata sui diritti democratici, la libertà e l’uguaglianza”. In questo, si evidenzia come il discorso era sì rivolto ai guerriglieri kurdi affinché depongano le armi, ma al tempo stesso è anche una sfida al governo turco.
“Negli ultimi duecento anni le conquiste militari, gli interventi imperialisti occidentali, così come la repressione e le politiche di rifiuto hanno provato a sottomettere le comunità arabe, turche, persiane e curde al potere degli stati nazionali, ai loro confini immaginari e ai loro problemi artificiali – prosegue ancora Ocalan – L’era dei regimi di sfruttamento, repressione e negazione è finita. I popoli del Medio Oriente e quelli dell’Asia centrale si stanno risvegliando”. Più avanti aggiunge “Il paradigma modernista che ci ha ignorato, escluso e negato è stato raso al suolo” e “Questa non è la fine, ma un nuovo inizio. Non si tratta di abbandonare la lotta, ma di cominciarne una nuova e diversa. La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini”.

Basta con i nazionalismi
L’oggetto della polemica è l’ideologia politica che è all’origine di molta parte dei problemi dell’ultimo secolo, quel nazionalismo che insieme alla sua creatura principe, lo Stato-nazione, sono ormai da oltre un decennio indicati come profondamente in crisi, ma sembrano restare pur sempre la risposta più immediata e semplice come misure di reazione agli stravolgimenti in corso. Restando in Medio Oriente basti pensare alle spinte centrifughe in Libia o in Iraq dopo la fine dei precedenti regimi, dove ognuno degli interessi dominanti localmente punta alla creazione di una propria entità statuale sostenendo la necessità di un territorio pacificato sulla base della propria univocità sia essa “etnica” o di qualsivoglia altro titolo; un altro esempio emblematico è anche la sciagurata scelta dell’opzione di “due popoli, due Stati” per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Il dibattito sul tema del nazionalismo non è di certo un argomento nuovo intorno alla questione kurda. Senza andare troppo indietro, già a partire almeno dal 2005 Ocalan si era interrogato sui legami tra etnicità e nazionalismo indicando proprio nella creazione degli Stati-nazione in Medio Oriente l’origine della crisi attuale della regione (Abdullah Ocalan, Democratic Confederalism, 2011). Servirebbe lo spazio di almeno un libro per ripercorrere l’archeologia del dispositivo statuale moderno, ma ciò porterebbe il discorso troppo lontano. Nondimeno sarebbe senz’altro sano ed essenziale ragionare sulla necessità di individuare nuovi percorsi che leggano la realtà del mondo contemporaneo per mezzo di una lente o un’idea cosmopolita.
Riguardo alla situazione kurda, va dato atto ad Ocalan di essere stato abile in questi ultimi anni ad argomentare e proporre le proprie idee per un nuovo modello di società, che includesse nuove istituzioni per funzionare e un nuovo vocabolario per definire concetti ed idee necessari a descrivere ed immaginare quello che si propone di essere appunto non soltanto un classico processo di pace, ma piuttosto un cantiere per una nuova costruzione sociale.

La “pazzia” di Öcalan
Un’ultima osservazione che mi preme sottolineare è quella sul contesto in cui sono maturate le ultime dichiarazioni del leader kurdo. Ocalan si trova dal 1999 nel complesso carcerario di Imrali, in una struttura di massima sicurezza svuotata di tutti gli altri detenuti per poter “ospitare” unicamente il fondatore del PKK, che quindi può vedere soltanto i suoi avvocati e i suoi carcerieri. Questa situazione ha portato più volte qualcuno a sostenere che Ocalan avrebbe perso il contatto con il movimento da lui guidato e sarebbe anzi manipolato per sostenere gli interessi dello Stato turco e i presunti suoi alleati nella partita geopolitica.
Riprendo qui l’introduzione di un libro dello storico Massimo Mastrogregori. “Ci sono autorità, più o meno visibili, che sollecitano e ascoltano la voce del prigioniero. Il quale cerca, ancora una volta, di vincere la partita politica in corso e di agire più liberamente che può, anche nel fondo della prigione, in nome di ciò in cui ha sempre creduto. E sa che cercando di vincere, ancora una volta, avrà fatto qualcosa di utile anche se perde”. Queste parole, che sembrano calzare alla perfezione per il caso di Ocalan, sono invece scritte per raccontare la storia parallela di altri due prigionieri, apparentemente diverse ed opposte per le loro esperienze personali e separate da cinquant’anni di distanza, quella di Antonio Gramsci e di Aldo Moro (Massimo Mastrogregori, I due prigionieri, 2008). Lo storico italiano osserva come analogie e comparazioni tra due storie così diverse possano aiutare a vedere cose nuove, rivelando connessioni nascoste e parallelismi a partire dall’esperienza carceraria e dall’uso fatto o meno e dai giudizi espressi sulla voce che esce dalla prigione. Mi soffermerò solo brevemente su questo aspetto. In occasione del sequestro Moro, in una maniera che effettivamente lascia un po’pensare, l’intera comunità mediatica italiana, quasi tutti coloro che parlando pubblicamente trovano uno spazio, la cui parola è riprodotta sui giornali, i politici e i grandi giornalisti, si accordano sul fatto che la voce che sta parlando non appartiene a Moro. Sempre Mastrogregori sottolinea la rapidità con cui si sia “compattato” questo schieramento che sostiene l’inautenticità degli scritti di Moro durante la sua prigionia. “Moro perde il dominio sulla sua firma, ciò che Moro firma non vale; sono scritti originali, autentici, non che ci sia il dubbio che la grafia non sia la sua (all’inizio c’è anche quello); ma anche quando si scopre che la grafia è effettivamente la sua, le condizioni in cui quel testo viene elaborato portano alla conclusione univoca che non è Moro che sta parlando. Si presuppone che le BR dettino e che Moro scriva, con una serie di gradi diversi, con distinguo, eccetera. Le eccezioni a questa posizione sono veramente pochissime. Ciò aveva una conseguenza che, nel tempo, verrà tratta, che Moro aveva perso la capacità di intendere e di volere, era regredito alla condizione di bambino e cose del genere, che era drogato”.
Il tema del discorso che proviene dal fondo della prigione, della voce di chi è incarcerato è interessante perché si oppone nel modo più assoluto ai discorsi che solitamente ottengono la più grande circolazione e visibilità, cioè quelli che provengono da una posizione autorevole e sopraelevata, come potrebbe essere un professore dalla sua cattedra o un giornalista da un quotidiano. Il prigioniero è il caso limite opposto, quello che dice non ha l’autorità che viene da qualche piedistallo. Ma se decide di scrivere, lo fa per riguadagnare, in qualche modo, con vari sistemi, quel margine di libertà che chi lo domina gli ha sottratto. Perché un prigioniero scrive? Anche per riguadagnare uno spazio di libertà.

Per saperne di più
Il discorso di Öcalan per il Newroz
Dalla Mesopotamia social forum finito ieri a Giyarbakir