La scomparsa di Vincenzo Ruggiero, un ricordo di Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Un nuovo colpo, un altro addìo. Mi sento diminuito dalla perdita di Vincenzo Ruggiero, uomo di critica radicale, puntuale, attiva. Nonché grande amico, e simpaticissimo (che è una preziosa qualità).

Ripercorrere titoli e copertine dei suoi libri, rimette di fronte a un lavoro straordinario, di primissima qualità, a un prezioso tesoro per un’attività teorico-pratica non certo limitata ad un settore specialistico, ad un comparto disciplinare.

E certo, il rigore della ricerca, la costruzione di questa “anti-criminologia come sapere” con un sí ampio respiro, l’esser stato osservatore sistematico della composizione dei movimenti di lotta del “proletariato extra-legale”, non hanno impedito ad Enzo la levità della festa, l’allegria nelle relazioni umane, la fedeltà a tutte le amicizie tessute nella complicità di un percorso di rivoltoso, sovversivo, cominciata negli ‘anni verdi’, prima di maturare negli anni adolescenti, e mai dismessa. Siamo oggi nell’emozione di questo lutto, e inviamo un abbraccio tenero a Cynthia da Ste Lucia, Barbados, ed alla prole.

Oreste, con Lucia &C

Rossana Rossanda, «Perché non sono più garantista»

Rossana Rossanda se n’è andata dal secolo che non le apparteneva. Ragazza del Novecento, come lei stessa si era definita. Lo ha fatto in punta di piedi, senza disturbare ma anche senza voler esser disturbata dal brusio inutile che il nuovo millennio diffonde. E’ stata ricordata in una piazza di Roma da anziani esponenti del partito che l’aveva cacciata. Immagine orwelliana di nuovo millennio dove la reinvenzione del passato è divenuto il miglior modo per ipotecare il futuro. Ricordi anestetizzati hanno cercato di addolcire le parti più aspre e oggi indicibili del suo pensiero, di quel che scrisse e volle capire. Il percorso di conoscenza su quel che accadde in Italia negli anni 70, per esempio, e che fu per lei  lungo e accidentato. Mosso da un iniziale pregiudizio, anche arcigno, costellato da errori ma sempre animato da una sincera spinta a comprendere e non aver paura della realtà. Di lei conservo un ricordo personale. Nel settembre del 1991 mi ricevette nel suo ufficio al manifesto. Conoscevo da un po’ di tempo quella redazione che avevo cominciato a frequentare all’uscita dal carcere, nel dicembre del 1989. Rossana sapeva già di cosa dovevamo parlare: mi ricevette con fare circospetto, fece uscire tutti dall’ufficio, staccò il telefono e chiuse a chiave la porta, poi si avvicinò con la sedia. L’estate delle picconate cossighiane si era conclusa, la proposta di grazia per Renato Curcio con il corollario di una soluzione di tipo amnistiale per i reati politici degli anni 70 era sfumata. A settembre, il governo Andreotti col sostegno del Pci aveva messo definitivamente la pietra tombale su ogni apertura. Non c’erano più margini politici per restare in Italia, salvo accettare lunghi anni di galera. Ero lì per discuterne con Rossanda. Lei mi appoggiava, anzi sollecitava da «vecchia comunista» la mia partenza. «Mettiti in salvo, poi si vedrà!». Rimanemmo d’accordo che se qualcosa fosse andata male sarebbe intervenuta sulle pagine del suo giornale per difendere la mia scelta e mettere a tacere qualsiasi strumentalizzazione della magistratura. Tutto filò liscio. Arrivai a Parigi dove iniziai la mia nuova vita di rifugiato. Tre anni dopo, quando ero nella prigione parigina della Santé sotto procedura estradizionale e il mio futuro sembrava segnato, ricevetti una sua lettera: mi chiedeva scusa. Aveva provato a sollecitare ambienti della sinistra francese, senza esito. In Italia aveva vinto Berlusconi e vedeva tutto nero

Paolo Persichetti

«Perché non sono più garantista» fu il titolo di un clamoroso articolo scritto da Rossana Rossanda nell’estate del 1979. Un acceso dibattito sul garantismo si svolse sulle pagine del manifesto tra il luglio e l’agosto 1979 a seguito della retata del 7 aprile 1979 contro l’Autonomia e più in generale la differenziata area politica proveniente dall’ex Potere Operaio. Una operazione giudiziaria che rappresentava un salto di qualità nella risposta repressiva dello Stato, con l’impiego per la prima volta su larga scala delle nuove norme previste dalla legislazione speciale, il ricorso a prove logiche e teoremi accusatori, e l’irruzione sulla scena di un forte protagonismo giudiziario, apertamente combattente, investito di un dichiarato potere di supplenza politica contro la sovversione. In alcuni ambienti assai ristretti della sinistra non emergenzialista e in alcuni settori “democratici”, piuttosto circoscritti, sensibili al problema delle garanzie e delle tutele previste in uno Stato di diritto, e non ancora assuefatti o velocemente logorati dall’emergenza, vennero sollevate critiche e una prima timida riflessione si aprì sulle forme di risposta da fornire all’offensiva giudiziaria.
Una discussione che partì fin dai suoi inizi col piede sbagliato. Rossana Rossanda fu una delle protagoniste di quel confronto: dopo una tavola rotonda tra diversi magistrati e giuristi (Misiani, Saraceni, Rodotà e Ferrajoli, il manifesto del 15 luglio 1979), scrisse un corsivo intitolato «Perché non sono più garantista» il manifesto 17 luglio 1979, polemizzando contro i termini di un «neogarantismo» che esulava dai confini del garantismo classico. Riproponendo uno degli atteggiamenti tradizionali della cultura sostanzialista più qualificata del movimento operaio, quella che poggiava su un uso strumentale del formalismo giuridico borghese, lì dove preservava alcune garanzie di libertà personale e di tutela nel processo penale, la Rossanda criticava gli eccessi di un radicalismo garantista (da lei definito «garantismo politico») che rischiavano di ricondurre, a suo avviso, unicamente su un terreno – non certo neutro e che occulta le differenze reali – quale quello dell’egualitarismo astratto del formalismo borghese, per finire col confondere la democrazia con lo Stato di diritto.
La diffidenza rispetto a un utilizzo radicalmente estremo della tematica delle garanzie, sospettata di eccessive influenze e ambiguità con la cultura giuridica borghese, venne criticata da Oreste Scalzone con un intervento scritto dal carcere di Rebibbia, dove era rinchiuso, qualche tempo dopo e che potete leggere qui: Cara Rossanda sbagli, serve una radicale critica neogarantista

Dal manifesto del 17 luglio 1979, Rossana Rossanda:
«Credevo di essere una garantista di ferro. La tavola rotonda apparsa domenica sul manifesto mi ha fatto cambiare idea. “Garantismo», mi ero detta, è semplicemente coscienza che allo stato attuale dei rapporti istituzionali e del diritto, siamo costretti – pena abusi maggiori in una democrazia già largamente imperfetta – a valerci di norme classiche del diritto borghese e della sua tendenziale riduzione alla sfera dell’inviolabilità di alcune prerogative dell’individuo. Sapendo, senza illusione alcuna, che di diritto borghese e di difesa del livello individuale si tratta.
Ero garantista lo stesso. Giacché non conosco altro diritto che borghese; il quale peraltro lascia non solo “aperto”, ma irrisolto, anzi tende e rendere irrisolvibile ogni forma di “società regolata” che pretenda ad esempio sconvolgere le basi della proprietà (dalla terra alle case sfitte). Non solo ma, per sua natura, esso frena una vera “critica del diritto”, attraverso la quale non solo magistrati e filosofi ma anche le masse pongano mano all’embrione di nuove fonti, non abusive e di pochi, di legittimità […]
Ero garantista sapendo tutto questo. E altresì che, oltre ad essere borghese, il garantismo è quell’aspetto specifico della norma che difende l’individuo non solo dallo “Stato” ma in qualche misura da “tutta la società”, in quanto il suo movimento leda alcune sue storicamente acquisite – ma non per questo eterne né pregevoli – libertà. Esso protegge infatti i diritti attuali largamente ineguali. E quindi meno l’individuo debole e isolato, che quello forte e organizzato: essi sono in grado assai diverso da coprirsi con quelle prove che il garantismo esige. Questo una volta lo imparavamo tutti con l’abbici del marxismo […] Il prezzo che paghiamo al garantismo è l’inafferrabilità del mafioso, l’impossibilità di inchiodare giuridicamente il mandante di Portella della Ginestra o quella di sciogliere il MSI. E quindi anche di colpire qualche appena strutturata organizzazione terroristica, quando questa sceglie la clandestinità (non tutto il terrorismo la sceglie, come in Italia) […]
Ma non nascondendomi a quale prezzo. Sapendo e dicendo che, più garantisti si è, più si deve avvertire e dichiarare il limite pauroso del diritto borghese come strumento reale d’una democrazia politica, per non parlare d’una società in via di rivoluzionamento. Sapendo, per dirla con Brecht, come la legge sia “ingiusta”, perché applicata a soggetti inuguali; e quindi usandola col senso acuto del suo possibile uso ambiguo […] C’è una responsabilità politica – e non solo ideologica ma fattuale, in quanto l’ideologia modelli dei comportamenti e li induca – che sfugge al diritto; il quale quindi becca, quando becca, il picchiatore fascista di liceo e assolve Pino Rauti, o cattura, se cattura, quella che si chiama la manovalanza delle BR ma non inchioderà mai, salvo delazioni o casi straordinari di “fortuna” inquisitoria, i capi. E naturalmente e giustamente libera di responsabilità qualsiasi idea e scritto, che non si trovi direttamente vincolato al fatto commesso. Chi non vede allora la distanza fra “garantismo” e un’idea della giustizia non derivata dal diritto formale, dunque inuguale? Così, “la democrazia si difende con la democrazia” non è la stessa cosa di “la democrazia si difende con le istituzioni del formalismo borghese”? […]
Io, dunque, garantista sul terreno processuale, non lo sono su quello politico […] del garantismo denuncio il limite formale dunque ingiusto, l’incapacità politica, la povertà. E vedo l’uso che il terrorismo ne fa, o coloro che terroristi non sono, ma considerano il terrorismo un’insorgenza di sinistra, da difendere o da attaccare come pure errore tattico, forma di rivoluzione imperfetta. In verità, la cultura garantista ci copre scarsamente sia dalle deviazioni autoritarie, sia dalle conseguenze del terrorismo. Giacché se questo prevalesse – quello centralizzato, cui, non si capisce in base a quali elementi crede Gallucci(1), o quello decentrato cui, non so in base a quali argomenti, crede Misiani – o anche solo esplodesse in quella forma di guerra civile che Calogero(2), lui solo, già vede in atto, mentre  alcuni leaders o testi dell’autonomia vagheggiano come forma “aurorale” della loro rivoluzione, sarebbe spazzata via ogni garanzia dallo scontro tra apparati prima, o dal gruppo che finirebbe col prevalere poi, il quale sicuramente chiuderebbe ogni forma di mediazione istituzionale. Ne risulterebbe infatti, fosse la destra a vincere o fossero le BR o il “partito armato”, una forma burocratica e coatta di Stato; il solo che possa produrre sia una reazione classica sia una forma militarizzata di “eversione” (questa è la contraddizione di fondo dell’idea di comunismo dell’autonomia) […]
La democrazia, come terreno conflittuale aperto, e il movimento operaio sono dunque messi in pericolo sia da una deviazione autoritaria e illiberale della magistratura, rispetto alla quale il garantismo offre argini modesti, sia dalla teoria e pratica dell’eversione, rispetto alla quale non ne offre alcuno. Quando si fa un discorso politico questo va detto. E non per aggiungere al giuramento per la libertà un giuramento rituale antiterrorista, ma per fare un passo avanti nella definizione delle cause sociali del terrorismo (tutto ha cause sociali, anche il fascismo), e nel giudizio sulla sua valenza politica per il movimento di classe e per la democrazia […]
Allora limitarsi a essere “garantisti puri” significa regredire a prima di Marx, lasciare il campo libero – perché quel diritto non può vederli – ai meccanismi di lotta politica che non garantiscono nessuno, perché prescindono duramente dal diritto, il quale a sua volta se ne lava le mani. Questo “garantismo come teoria” non come tecnica processuale, per formazione culturale e per posizione politica non mi va e non mi basta».

Fonte, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi, Odradek 1999, ristampa 2007, pp. 123-136 Appendice 1

Note
1
. Achille Gallucci, giudice istruttore del tribunale di Roma, firmò l’ordinanza di rinvio a giudizio nella quale si configurava, tra gli altri, il reato di«insurrezione armata contro i poteri dello Stato» per gli imputati arrestati nel corso dell’operazione 7 aprile 1979.
2. Pietro calogero, magistrato della procura di Padova protagonista dell’inchiesta 7 aprile diretta contro militanti e dirigenti dell’Autonomia.

Scalzone, «Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti»

Due date raccolte in un arco di 10 anni: 16 marzo 1968, 16 marzo 1978. In mezzo c’è tutto. Scalzone ritorna sui luoghi e racconta la mattinata di scontri sulla scalinata della facoltà di architettura a Roma, un topos del ’68. I fascisti che fallirono il tentativo di infiltrare il movimento, Almirante che rischiò il linciaggio, Pasolini che non aveva capito nulla di quella rivolta, Mussolini e la vera essenza del fascismo italiano, «la guerra alle organizzazioni operaie, dalle più riformiste alle più soversive, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni», il razzismo attuale. Dieci anni più tardi l’assemblea convocata sul piazzale della Minerva, alla Sapienza, subito dopo la notizia del sequestro di Aldo Moro: «Quel del giorno – spiega – vissi una lacerazione, mi sentivo estraneo alla “condanna” espressa dagli Autonomi e pensai di interferire con le Br prima che fossero sospinte all’epilogo atteso e come prescritto in una sentenza». Poi venne il complottismo, divenuto la grande tragedia culturale della sinistra. Resta la conoscenza, destino che ci distingue dalle altre specie e quel futuro che non esiste, divenuto «narrazione dei dominanti» al quale si deve contrapporre il presente, vissuto fino in fondo


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 23 marzo 2018

Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco ( lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria».
Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione
del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?
Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando po- tevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbiego una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno.

Cosa intendi?
Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?

Pasolini si sbagliava dunque?
Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare.

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita
Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte.

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?
Mi vengono in mente ( oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabii nel combattimento e misericordiosi nella vittoria».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto
Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social-confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal-liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno.

L’antisemitismo era connaturato al regime?
No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto.

Prego
I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime.

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?
Prendiamo il caso Traini, lo pisicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci piscopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne- mi- ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”.

Qual è il più grande nemico della sinistra?
È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula ( di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere.

Il destino degli esseri umani è la ribellione?
Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.

E il futuro?
Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti.

 

La fuga

Dedicato ad Oreste ed ai suoi settant’anni

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Oreste parlava mentre guardavo scorrere veloce una pianura senza fine. Il nero delle ardesie sui tetti spioventi aggiungeva qualcosa di malinconico al cielo già grigio. Era la fine di febbraio. Un tempo alluvionale aveva gonfiato i fiumi, la piena s’era riversata nelle campagne circostanti e le pianure s’erano fatte acquitrinose. Una sinfonia d’inverno accompagnava la fuga. Da molte ore oramai eravamo insieme, dopo esserci incontrati fuori Parigi. La sua presenza complice e allegra era decisiva per tenere a bada la tristezza. Mi sentivo rassicurato. Oreste era particolarmente contento, poteva finalmente evadere dalla costellazione parigina e dal suo ritmo incalzante. L’entusiasmava quella fuga, la sensazione d’immergersi nuovamente nella latitanza.
[…]
I pensieri correvano veloci, il treno anche. L’ascoltavo, mentre osservavo sempre più assorto il filo lontano dell’orizzonte. Eravamo stanchi dopo diverse giornate febbrili perse a collezionare buchi nell’acqua, dinieghi gentili e imbarazzati, e treni, navette e treni, fino a perderne il conto. Come in un film d’azione avevamo dovuto ripiegare saltando in modo rocambolesco da una vettura già in movimento per riparare in modo imprevisto, nel pieno d’una notte tragicomica, sotto un tetto amico. Al mattino fortunatamente le cose si erano messe per il meglio, ridemmo così di quanto era accaduto, miglior modo per non conservare risentimenti e andare avanti.
[…]
Fuori oramai calava la sera, un lungo fiume di parole era trascorso, e una luce dal giallo intenso s’era accesa nello scompartimento. Quell’atmosfera mi ricordava sensazioni familiari: i treni serali che dalla periferia nord di Parigi mi riportavano a casa dopo la lunga giornata passata tra aule di corsi e scaffali di biblioteca dell’università. Quei luoghi, animati da una popolazione studentesca colorata e vivace, erano divenuti per me una seconda casa. Il grigiore cupo del cielo parigino si stemperava nella confusione della grande Hall e dei caffè interni, ritrovi conviviali, luoghi d’incontro tra un corso e l’altro dove discussioni serie e meno serie, politica, deliri e corteggiamenti si mescolavano alla densa coltre di fumo. Il look delle studentesse del dipartimento di cinema e d’arte si confondeva col hijab che alcune ragazze franco-magrebine ostentavano sul capo. Una bellezza dai tratti e dai colori mediterranei disegnava quei visi e quei corpi. Al loro passaggio le discussioni s’interrompevano bruscamente, i tavolini restavano vuoti.
I treni avevano pochi passseggeri a quell’ora, solo qualche pendolare attardato, giovani delle cités mescolati agli studenti che rientravano, poche ragazze dall’aria rapida e diffidente, visi stanchi, sovrapensiero, sovente rinchiusi in quella forma attuale d’autismo sociale che è l’ascolto dei walkman, “baladeurs” come vengono definiti nei dizionari francesi.
Sconsolato vedevo il mio viso riflesso sul finestrino, la fronte inclinata sul vetro. Stavo partendo senza una destinazione chiara. L’importante era stato innanzitutto mettermi fuori portata. «Adesso, spariamo insieme — aveva detto Oreste, e poi con una pausa maliziosa aveva aggiunto — voce del verbo sparire». Ovunque, altrove, sarebbe stato migliore. Mi chiedevo, senza trovare risposte confortanti, se in questa fine di secolo, d’un secolo illusionista, potesse esistere ancora una terra di libertà disposta ad accogliere un uomo, un sovversivo condannato come “terrorista”, scacciato da alcuni e rincorso da altri. La domanda m’assillava. Un senso d’ignoto mi risucchiava. Sentivo la vertigine. La sola certezza veniva dalla caparbia volontà di non arrendermi, di fuggire comunque, dovunque. Quella stessa ragione che m’aveva mosso al momento dello sciopero della fame, intrapreso durante la detenzione, quando oramai tutto sembrava perduto, poco meno di due mesi prima. Una decisione ultima, estrema, e che avevo sentito senza ritorno. Diciotto giorni passati nel piccolo settore “d’haute securité” del reparto d’isolamento punitivo della Santé. Un’esperienza d’ascèsi, dolorosa e fortificante, viaggio solitario, confronto estenuante col corpo che se ne andava lentamente. Nel catabolismo, alla ricerca dei limiti, la misura del dolore fisico e della forza morale. Molta incomprensione ci fu per quel gesto. Alcuni me ne vollero, scorgendovi una sorta di volontà di ricatto verso il loro affetto. Ma il malinteso aveva accresciuto il mio arroccamento, rafforzato il patto con me stesso, l’accettazione della solitudine trasformata in volontà d’andare avanti comunque, anche da solo.
[…]
Tutto ciò era accaduto poco più d’un mese prima, dopo una liberazione strappata in extremis, ma già sembrava un tempo lontano. Non restava ormai che farne un saggio uso. Altre questioni occupavano i miei pensieri. Il rischio che comportava il dover varcare numerose frontiere e poi le domande piene d’inquietudine sul tragitto da fare per arrivare lontano, in un nuovo paese dove ricominciare ancora una volta da zero.
Ma c’era dell’altro: volevo fuggire, questo era certo, ma, oltre le conseguenze penali d’una parte della mia militanza politica, sfuggivo anche qualcosa ch’era dentro me stesso. C’è sempre una ragione esistenziale profonda che muove la vita d’un uomo. Pensavo che i chilometri potessero aiutarmi. Fuggivo un congedo disastroso, pieno d’incomprensione e risentimento. Le parole d’una lettera inavvertitamente crudele d’una donna oramai muta di sentimenti. Fuggivo pensando che la felicità, come la libertà, fosse altrove. Le attribuivo un luogo fisico, uno spazio geografico, dimenticavo ch’essa, come la tristezza, è uno stato psicologico, un moto dei sentimenti, una condizione dell’animo. Correvo su quel treno pensando che la soluzione fosse lontano. In realtà, non facevo che trascinare dietro di me, per intero e nell’affanno, le questioni irrisolte della mia esistenza.
Quella fuga era cominciata con una voce che mi aveva avvertito al telefono, quando la breve vacanza, in attesa del verdetto del Consiglio di Stato, volgeva a termine. Così, rigettato l’ultimo ricorso, dopo una solenne udienza pubblica, non mi restava che sparire. Quel raggio di sole era durato molto poco, neanche un mese, passato «a cento all’ora, senza fissa dimora». Dall’uscita di prigione, in una tarda serata, ancora smagrito e pallido per i postumi dello sciopero della fame, ai festeggiamenti e poi al turbinio d’appuntamenti ed incontri per continuare la battaglia contro l’estradizione e riorganizzare la vita fuori. Il ritorno all’università per ringraziare i compagni e le compagne, gli studenti, i professori e il rettore del sostegno fornitomi, per le centinaia di firme raccolte nelle petizioni e per l’elezione negli organi di rappresentanza studentesca. Una confusione ed un affollamento cosi lontani dalla quiete del carcere. Non avevo più casa e dormivo dove capitava. Camminavo sui marciapiedi di Parigi col sacco dei vestiti in spalla. Non avevo avuto modo di fermarmi, né di pensare. Ero senza fiato che già dovevo ripartire.
Fuori oramai brillavano le luci e la stazione più prossima era vicina. Dovevo separarmi da Oreste che mancava da Parigi oramai da molti giorni. La cosa poteva cominciare a divenire sospetta. Baci e abbracci raccolti in una stretta fortissima con gli occhi umidi d’emozione. La borsa in spalla, un maschera di De Filippo come viso, me lo ricordo sul marciapiede della stazione che mi lanciava l’ultimo saluto. Per un po’ non l’ho più visto, ma avevo portato con me la sua voce calda e roca. Lo sentivo e lo vedevo che mi parlava ancora. Alla prossima volta, compagno e amico.
Estratto da Senza tetto ne legge,1996, inedito

Terni, contro Thyssen, inceneritori e job act

Dopo gli annunci degli esuberi in tanti davanti ai cancelli della Thyssen contro una razza padrona sempre in bilico tra nostalgia dello schiavismo e il sogno di un mondo macchinico che “non ha bisogno di energia umana” e che in forza di algidi algoritmi spreme&butta, inquina&incenerisce

 

 


Oreste Scalzone irrompe durante la seduta del consiglio comunale

 
Cronache operaie

“In memoria di Prospero Gallinari”, di Oreste Scalzone

Vorremmo essere qui contadini della terra dove giaci,
e che concimi anzitempo,
companero de l’alma, compagno

(Miguel Hernandez)

E così, il “contadino nella metropoli”, se n’è andato anche lui.
Sempre, di  “un uomo che muore”, si potrebbe venire a dire tutto un
concatenamento,
 una matassa anche aggrovigliata di cose, più o meno
‘rapsodicamente’ e senza l’assurda pretesa di poter racchiudere
chicchessìa in un giudizio, una biografia, un ritratto.
 Qui, tanti
approcci possibili : “Prospero come Prospero”, la persona;
 Prospero
nei contesti, sincronicamente e diacronicamente; Prospero e 
le
mutazioni d’epoca, di “spirito del tempo”, Zeit Geist; Prospero 
nella
lunga onda lunga, onda alta della sovversione, nei movimenti che 
nelle
cronologie possiamo periodizzare come seguìti al Sessantotto, 
e
chiamare “Sessantotto lungo”, lungo un anno, un lustro, e poi due, e
più; 
Prospero uno di noi in senso largo quanto si può, dando per
buone in generale le auto-certificazioni; Prospero e i più
strettamente “suoi”; Prospero e
nojaltri in senso stretto; e in
tanti potremmo scrivere di “Prospero e io”.
Si potrebbe per esempio
cominciare da un Brecht in cui aveva trovato 
qualcuno che gli dava
voce: tra l’Elogio dell’agitatore nella 
cassa di zinco e l’Ode del
lavoro clandestino –
«Bello è / levare la
voce nella lotta di
classe»…
Si potrebbe cominciare dal riaffiorare di ricordi, remoti, recenti…
Ma la rapsodìa
 diverrebbe troppo lunga.
La vita che tira per la giacca, strattona, la vita ‘che tossisce
tutta la notte e non vuol lasciarti dormire’, le voci che
sopravvengono incessanti spintonandosi accavallandosi, fatti e cose,
sussurri e grida, chiamate, perentorie domande, interrogazioni,
replicate da echi, mutazioni mutanti e mutagene, variazioni su tema,
che insorgono come voci-di-dentro : così il <tempo di nostra vita (…)
–  e qui per evitare equivoci, malintesi e illazioni  di dualismi e
differimenti impliciti, introdurrei d’arbitrio una virgola – (…),
mortale>, così, anche così si autodivora, tempus fugit, si restringe,
fugge, sfugge, si consuma – il tempo, manca.
Nel dispotismo, insomma, crudele della misura del tempo, crono-metrìa,
<invenzione degli uomini incapaci d’amare>, non c’è spazio più di
tanto per piangere su noi stessi, che ad ogni addìo ci sentiamo un po’
più soli, e dobbiamo apprendere a elaborare il lutto della nostra
mortalità di esseri di <razza umana>, specie di esseri parlanti, la
cui singolarità – che è innanzitutto il “sapersi” e il “sapersi
sapere”, a cominciare dall’inferenza della mortalità e dell’alterità,
sé/altro: conoscenza/dannazione, ché conoscere implica separazione,
distinzione, divisione, strappamento –, la cui peculiarità  è il
guardarsi vivere sapendosi morir[n]e, strappati alla pienezza di un
presente attanagliato dai tempi che lo riducono a una linea sottile
inconsistente, come a zero.
Corrono così giorni prima che chi vi scrive, sempre più
intempestivamente anche qui, riesca a “metter nero su bianco” almeno
un po’ di quanto aveva cominciato a ‘traghettare’ dalla girandola di
emozioni e riflessioni, al foglio scritto: per tentare di mettere in
comune, per quanto è possibile, la tristezza, il sentirsi ancora un
po’ più soli per la disparizione dalla scena – dal ‘Gran Teatro del
Mondo’, e dalle proprie psico-cartografie più o meno immaginarie di
territori esistenziali, di tutto un arcipelago, <gruppo di isole unite
da ciò che le separa> – di un amico.
E cominciare il lavorìo, il travaglio, travail,
dell’elaborazione del lutto per quest’altro,
ultimo addìo, per la morte – che per noi è la perdita, per lui  la
“fine-del-mondo” – di un compagno, amico, che evoca il pane spezzato
e condiviso, ‘il pane e anche le rose’; la lotta, le spine e le
ferite, il <mi rivolto, dunque siamo>, la ‘vita materiale’  e il
‘sogno di una cosa’ – espressione che non è di Pasolini, è di Marx…
(strana sempre, sorprendente la <chimica mentale>, le reazioni
concatenate, associazioni, sinergismi… mi affiora alle labbra,
finalmente, uno e poi un altro brandello dell’Urlo di Ginsberg
<…sono con te a Rockland, dove venticinquemila compagni matti
cantano tutti insieme le ultime strofe dell’Internazionale. Sono con te a Rockland…>,
e il verso di Miguel Hernandez <alle anime alate delle rose […] ti chiamo,
ché dobbiamo parlare di molte cose, companero de l’alma, companero>).

{A questo punto, per intanto, trascrivo qui di seguito delle prime
riflessioni, che avevamo messo in circolo ‘a caldo’, poche ore dopo la
notizia della morte di Prospero.
   Il tempo manca, ora – ma proseguiremo nei prossimi giorni il
‘filo-del-discorso’ }

Innanzitutto, di Prospero Gallinari, un paio di cose.
Primo, quando nello <spazio pubblico> si discuteva della
sospensione per gravissimi motivi di salute della pena che stava
scontando, ciò che faceva ostacolo, come un macigno, all’applicazione
di questa misura di scarcerazione che la stessa legge prevedeva per
qualsivoglia persona detenuta fosse in  condizioni fisiche gravi ed a
rischio, era una considerazione extra-giudiziaria, d’ordine
ideologico-politico, di natura <sostanzialista>, a carattere
“tipologico”, ad personam: la – diciamo pure –  convinzione, asserita
come certezza, dai Palazzi alle strade, da “scrittori e popolo”,
che Prospero fosse stato attore diretto, anche materiale,
dell’esecuzione dell’onorevole Aldo Moro.
[ In generale, sempre, questa tracimazione dal piano della <verità
giudiziaria> –  che nello stesso Diritto penale una volta mondanizzato
e non più sorretto dalla presa in conto di un’ipotesi-Dio, non può
che essere un <come se>, una congettura, più o meno decentemente
fondata, ma mai, “pe’ la contraddition che nol consente”, certezza
assoluta, talchè una sentenza è pur sempre un <dispositivo di
produzione di effetti di verità> – , questo spostamento ed irruzione
su quello detto nel léssico giuridico <verità storica>, è arbitraria, abusiva.
La più plebiscitaria, unanime <vox populi> non può mai, in
punto logico, aveva la valenza che in altri codici e paradigmi è
attribuita alla <vox Dei>, una volta che questa sia stata dichiarata
caduca, o comunque per convenzione tenuta fuori del campo normativo.
Nel campo penale più che in ogn’altro, la più convincente delle
deduzioni, la più forte delle verosimiglianze, non può essere asserita
come Verità assoluta, come la <Verità>: questo vorrebbe dire
istituire, appunto, un <Ministero della Verità>…
Questa pretesa di veridizione assoluta, “obietiva”,
rende perciostesso falsità ogni illazione, nel momento stesso
in cui la spaccia per certezza avventurandosi sul terreno di ciò che,
in buona filosofia, è inattingibile, salvo ad una eventuale onniscienza –  nello stretto
senso teologico – che “non è di questo mondo”.]

Come si è visto poi, con una successiva e ultima approssimazione alla
verità fattuale che è stata omologata dalla stessa parola finale sul
piano della ricostruzione e decretazione giudiziaria della “verità” in punto di fatto,
nel caso specifico l’illazione aveva un contenuto falso.
Ebbene, nell’altalena di un’ipoteca radicale sul suo destino –
questione “di vita o di morte” in senso stretto e immediato, a dire di
tutte le perizie mediche –, Prospero Gallinari non si lasciò mai
estorcere alcuna confessione d’innocenza. Senza alcuna iattanza,
vociferazione altisonante, enfasi grandiloquente sui bordi delle
economie narcisistiche del “Guerriero” e del “Martire”, dell’eroismo
stile <capace di morire di mille ferite pur di disarcionare
l’Imperatore>, del sacrificio, e poi  dell’auto-identificazione come
vittima.  Semplicemente, un po’ come il<Bartheleby di Melville,
Prospero taceva o rispondeva di non aver nulla da dire,
<I’ld prefer not to>. Esprimeva un rifiuto di entrare nella dialettica
dell’Innocenza e della Colpa. E anche dopo, non ritenne, pur incalzato da
domande che trasudavano innanzitutto stupore come di fronte a un
qualcosa d’impensato e impensabile, non aggiunse una mezza parola che
potesse anche semplicemente validare l’ipotesi affermatasi e non fatta
oggetto di confutazione alcuna.
La cosa parla da sé, non richiede commenti.

Secondo. Prospero che, secondo testimonianze molteplici, convergenti
e al di fuori della minima ombra di sospetto di logica utilitaristica,
perché fuori di ogni possibile “mercato penale”, mercato “delle
Giustizie e delle Grazie”, delle punizioni e delle indulgenze, aveva
pianto, non solo salutando un’ultima volta Aldo Moro, su questa morte.
Viene in mente la tragedia, etica, logica, del rompicapo, del vero e
proprio <dilemma morale>, della <Canzone di Piero> di De André. In
quel caso, dentro il carattere cogente come forza di gravità di un’inimicizia
in quel caso prescritta, comandata e subita, ma comunque
materialmente vigente, stato-di-fatto, il soldato Piero esita e non
spara per primo. Non già per distrazione, per grandezza o grandezzata
d’animo, o altre Elette virtù (in paradigmi diversi da quello
dell’egocentrismo parossistico del patriottismo, dei patriottismi
“eguali e contrari” il cui manifestarsi perfettamente all’unisomo non
può che, perciostesso, divenire massacro): semplicemente, per un
personalissimo egoismo, che gli renderebbe insopportabile <vedere gli
occhi di un uomo che muore>, sopportare lo sguardo di uno che muore per tua mano – è tutto.

Ora, la Storia – soprattutto quella per narrazioni di Grandi eventi,
è piena di chi per “interesse privato” e propensione istintuale,
radicata nella disperata lotta per la sopravvivenza, nella dedizione
alla predazione, alla sopraffazione, all’uso strumentale, al comando,
al possesso, fino all’annichilazione d’altrui.
Chiunque abbia praticato la decisione, l’impresa, il governo, il
comando, ha preso su di sé la responsabilità terribile di causare,
direttamente o indirettamente, la morte d’altrui.
Condottieri, profeti, fondatori di città e d’imperi, sovrani… Nelle
forme moderne in cui tutto questo appare più “automatico”, invisibile,
“oggettivo”, “tecnico”, necessitante, “naturale”.
<Non si governa senza crimine>, come nota Machiavelli nel Principe. […].
Che <un morto sia tragedia e crimine, un milione di morti,
statistica>, è frase terribile, può essere stolta se scagliata come
ritorsione animata da manicheismo,
auto-negazionismo e surrettizia “universalizzazione come Bene”
della propria partigianità, ma è pur sempre attualmente incontrovertibile.

Certo, questo vale anche per chi è ricorso alla violenza per moventi
opposti, d’insorgenza contro tutto questo; ma, dal nostro
irriducibile punto di vita all’opposto di quello istituito e imposto
come ‘corrente’, con una natura radicalmente diversa  (sia pure con
tutti i benefici secondari, d’ordine narcisistica, che può motivare questa condotta del ribelle).
Certo, non si sono mai viste rivoluzioni (e non solo quelle segnate
da una fondamentale omologia e mimetiche, marcate dalla contraddizione
in termini di una rivoluzione statale, ciò che ad avviso di chi scrive
condanna senza appello ad una eterogenesi dei fini e in una
trasformazione nel proprio più atroce contrario […]; ma in generale
anche insurrezioni, guerriglie di resistenza) al netto del sangue.

Ciò detto, una distinzione di tipo etico si può fare, tra chi è
dotato di riflessività, consapevole delle sue responsabilità, e non
pretende – a mezzo della falsificazione delle propagande – di operare
una trasmutazione alchemica che faccia diventare ciò che
intrinsecamente è “male”, intrinsecamente “Bene”, “buono”
(addirittura pretendendo di convincerne chi lo subisce) – e chi no.
Tra chi si trincera, si nasconde dietro l’invisibilizzazione per
astrattizzazione “statistica” – tanto maggiore quanto più alto è il
numero degli schiacciati e sterminati, più indiretta, invisibilizzata,
la responsabilità, occultata da un concatenamento ferreo ma non
immediatamente evidente di cause ed effetti, di decisioni e conseguenze –,
e chi non sfugge il senso tragico della propria responsabilità. Tra chi “manda”, e chi “va”.

Nell’emergere sempre più incontestabile di una corsa delle logiche
istituite ad un crescente assurdo, con tutti i corrispondenti scenari,
la ‘cifra’ etica di un Prospero Gallinari rende tanti irriducibili
Soloni d’ogni taglia e bordo, dei sinistri e grotteschi nanerottoli.
Per intanto una frase:
<Sarà difficile ridurre all’obbedienza chi
non ama comandare>…  […]

il 19 gennaio 2013, prima di partire per Reggio Emilia

Oreste Scalzone, & qualche complice

Oreste Scalzone, «La catastrofe dell’ideologia lavorista»

Una riflessione di Oreste Scalzone sul feticcio del lavoro che non sfrutta soltanto ma uccide, a partire dalle vicende Dell’Ilva di Taranto, della Fiat di Pomigliano e dell’Alcoa di Portovesme. «L’ideologia lavorista è una catastrofe che blocca la pensabilità di un possibile diverso

di Oreste Scalzone 19 ottobre 2012

Domani, Cgil e Fiom sfileranno a Roma, con una “grande manifestazione” da piazza San Giovanni a cui – scrive il manifesto – parteciperanno «ben 15 pullman di lavoratori che da Taranto partiranno alla volta della capitale, raggiungendo i colleghi metalmeccanici delle grandi aziende in crisi come l’Alcoa di Portovesme, Fiat, Finmeccanica, sino alla Vinyls di Porto Marghera».
Lo slogan-cappello generale è sintomaticamente orrido, raccapricciante: «Il lavoro prima di tutto !»  fa pensare ai più svariati lavorismi: da quello utilitarista-liberale dei classici dell’Economia politica (il capitalismo è la società “fondata sul lavoro”…), alle variazioni su tema fasciste, naziste, collaborazioniste (dal “Palazzo della Civiltà del Lavoro”, all’infinitamente sinistro infame “Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi” inscritto sul frontone dell’entrata ad Auschwitz-Birkenau; al “Patrie Famille Travail”, “Patria Famiglia Lavoro”, divisa dello «Stato francese» della collaborazione pétainista); alle versioni social-democratiche, sindacalistiche, staliniste e più ingenerale dei regimi di «socialismo reale», contraffazione del comunismo «spettro aggirantesi per l’Europa», tra il ’48 e la primavera ’71 della Comune di Parigi, contraffazione statalista, tecno-economicista, fabbrichista, vera e propria controrivoluzione in abiti rivoluzionari di conio lassalliano-kautskiano…
Il feticcio del lavoro come blocco della pensabilità del possibile, anchilosi intellettuale che non riesce a pensare oltre la ‘naturalizzazione’ e ‘teizzazione’ delle forme storiche, tecno-economico-societali-politiche, della “Modernità”, viene riproposto nel modo più subalterno, con una sorta di “cupidigia di servilismo”, spasmodico desiderio mimetico.
A Taranto, questa posizione è smascherata e nuda. Girano filmati con sindacalisti Fim e Uilm che tessono in modo nauseabondo, senza neanche l’astuzia di un bemolle ipocrita, le laudi del padrone; che raccontano che l’Ilva era inquinante, ma poi…la proprietà ha fatto tanto, investito tanto…., ora è diverso, rimarrà pure qualche problema, ma sono dettagli, bazzecole, pinzillacchere…
Questi “lavoratori” che finiscono per essere (come sempre i gialli, i crumiri) degli squallidi burattini del padrone – e tanto peggio se essendosi convinti di quello che van dicendo…, rischiano di portare gli altri (e di andar loro) allo sfacelo peggiore : perdenti, obiettivamente “collaborazionisti”, e ben partiti per fare da parafulmine, schermo e ‘testa di turco’, oggetto di odio e disprezzo, maledetti da tutti…
All’ILVA, non c’è spazio per sfumature, non c’è scampo: o si impugna l’asta di una bandiera che nell’immediato coagula e sprigiona forza sulla parola d’ordine, «Chiusi gli altoforni, in libertà dal lavoro a salario pieno a tempo indeterminato!», o si destina, ci si lascia destinare, ci si fa destinare, con connivenza attiva “servo/padronale”, ad un destino che permetterà di dire di quanti avranno seguito questa deriva, l’oltretutto ridicolo, ineffettuale e velleitario, illusionistico e miserabile assieme, “pragmatismo” del’ “il lavoro prima di tutto”, quello che recita la penultima frase del Processo di Kafka: «E pensò, che soltanto la vergogna gli sarebbe sopravvissuta».
In altri termini e altri codici, “perder l’anima, per niente”, per un pugno di mosche, e neanche. Parafrasando la celebre frase di uno statista, dunque in quanto tale, Nemico, ai politicanti britannici, si potrebbe dire, «Potevate scegliere fra la capitolazione e la lotta, fra la servitù e l’indipendenza. Avete scelto la capitolazione e la dipendenza, e avrete anche la sconfitta».
Non abbiamo paura di doverci scontrare fra proletari, e con altri proletari: a Taranto è oggi chiarissimo, non c’è chi non possa vederlo, che la coppia lavorismo-statalismo, l’identificarsi come forza-lavoro, “capitale variabile” (con tutte le ideologie di sostituzione, di diversione, che ne derivano), costituisce la forma specifica, autodistruttiva, di una “controinsurrezione preventiva” nel seno stesso delle moltitudini sfruttate, oggetto di sopraffazione, di tentativo incessante di vampirizzarne la potenza, e lasciare il frutto spremuto, schiacciarlo fino all’annichilazione.
Non pensiamo sia risposta adeguata quella di una parzialissima, pallida presa d’atto della catastrofe dell’arroccamento lavorista e della velleitaria illusione di difendere status quo ante, o ritornarvi, in termini di formulazione di “pani di riorganizzazione della società”, in bilico fra mera dimostrazione alla lavagna, tacciabile al contempo di velleità di riforma della regolazione sociale, o di utopistica “pasticceria del futuro” – insomma, sempre attaccabile come “troppo o…, troppo e  troppo poco”, anzi, proprio un’autocontraddizione al ribasso.  Come “pieno impiego” o “Stato sociale”, o “il lavoro non si tocca”, la formula «Diritto al reddito» ci sembra far torto alla sostanza.
Il cinismo della misantropa Fornero (come spesso la sfrontatezza di certi “poterosi”) diceva il vero: non esiste, men che mai nella Costituzione, un «Diritto al lavoro», così come appare difficile pensare ad una modificazione della «costituzione materiale», e di seguito «formale», che inscriva come «diritto esigibile» il posto di lavoro, o il reddito universale incondizionato, d’esistenza. Nell’aria di guerra sociale dall’alto che, come osserva Foucault, spira dietro le concettualizzazioni vuotamente giornalistiche sulla crisi, non è per vie “cittadinistiche” o “demo-parlamentari” che il servilismo “lavorista”  può essere morbo debellato, e per lo più in fretta, prima che il cavallo stramazzi e, stramazzato proprio, diventi carcassa e carogna.
Nojaltri (che non ci rassegnamo a dire che l’unica cosa che resta è un camusiano “mi rivolto, dunque sono !”, che comunque – nelle più diverse motivazioni, filiazioni, forme – è estremo ridotto che chiama rispetto), vorremmo provare a pensare e ripensare e tentar di praticare, con altri, una “filosofia pratica” che non rinunci, a dispetto di tutto, ad aver l’occhio al ‘comune’.
Momenti, percorsi, insorgenze, forme, confluenze, coalescenze, ‘aggrumazioni’, di forme di vita, di pratiche, di relazioni, di lotte, di ribellioni e rivolte, persistenti, che zampillano e vengono e rivengono…, producendosi in situazione, in modo variato, con singolarità che costituiscono contrappunto ed hanno un ‘fondo’ comune, ci sembrano la strada di una scommessa da tentare.
Se – per stare all’esempio – è una rete operaia che introduce, entrando a gamba tesa e disvelando un’evidenza occultata, ponendo in un tessuto vivo la rivendicazione elementare di “messa in libertà da lavoro a salario pieno a tempo indeterminato”, questa ‘cosa’ non è “corporativa”, non è forma di legittimismo identitario che pretende riesumare una “centralità oggettiva e soggettiva” in sé, di per sé, che abbia valenza universale.
Se, con una sorta di emulazione, di dinamica che fa leva su un precedente, un ventaglio, un caleidoscopio di lotte si sprigiona da altri strati e ‘territori esistenziali’ (uomini, donne, giovani e meno e ancor meno, precari, disoccupati, inoccupati, cassintegrati, “call-centeristi”, cassiere, “cognitari” o supersfruttati a chiamata, “fannulloni dai mille mestieri”, strati di “classes dangereuses”, & ancor’oltre, “soggettività rivoltose qualunque”…), sarà così, tra secessioni e sollevazioni, sabotaggi e sforzo di strappare e acquisire mezzi materiali di vita immediata, e anche da possibile “infrastruttura” di pratiche d’alterità…, ecco : pur senza sicumère, oltre lo stesso disincanto, i dubbi che assalgono, ma anche il sentirsi – per parafrasare Semper eadem di Samuel Beckett – «sgomenti, atterriti di amare, e non questa cosa ; di essere appassionati da ‘altro’, portati, e non da questa ‘cosa’ “, forse si può riprovare e riprovare ancora…..».

Link
Fiat di Pomigliano e Ilva di Taranto, da qui può ripartire il ribellismo operaio
Ilva è veleno! Via dalle officine a salario pieno!
Pomigliano, presidio permanente dei cassintegrati in tenda davanti ai cancelli Fiat con il megafono di Oreste Scalzone e il sax di Daniele Sepe
Ilva, a Taranto finisce la classe operaia del sud
Cronache operaie

Oreste Scalzone, «Delle Chiaie mente su i fatti di Valle Giulia del 1968. E’ un manipolatore, sono pronto a sfidarlo pubblicamente»

Il fondatore di avanguardia nazionale, autore di un’autobiografia edulcorata che sorvola sui servigi prestati alla Spagna franchista e alle dittature militari latinoamericane per reprimere gli oppositori politici – in passato – ricorda Oreste Scalzone, insieme a Mario Merlino ha più volte sostenuto che la battaglia di Valle Giulia, nata dalla resistenza opposta dagli studenti al tentativo di sgombero della facoltà di architettura da parte della polizia, sarebbe stata preceduta da un incontro tra neofascisti e il comitato d’Ateneo della Sapienza del quale facevano parte, oltre a Scalzone e Roberto Gabriele, anche Franco Russo, Paolo Mieli, Paolo Flores D’Arcais, i fratelli Petruccioli, Alberto Olivetti, Luca Meldolesi e altri ancora. L’episodio è un falso storico clamoroso, ribatte Scalzone: «Delle Chiaie è un pessimo personaggio, un manipolatore che non merita nemmeno di esssere gratificato come nemico»

Camillo Giuliani
Calabria ora 28 settembre 2012

A prescindere dalla temperatura esterna, si prospetta un pomeriggio da autunno caldo a Cosenza. Il giorno dopo Renato Curcio arriva in città l’uomo nero, Stefano Delle Chiaie, e non sono pochi quelli che, da giorni, annunciano su internet manifestazioni per impedirgli di presentare “L’aquila e il condor”, il libro in cui il 76enne esponente della destra radicale racconta la sua versione su una stagione politica di cui fu (in)discusso protagonista. Ne abbiamo parlato con un altro primattore di quegli anni, Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio. «È difficile trovare due uomini più agli antipodi tra loro», il suo commento iniziale. Nonostante abbiano in comune l’attivismo politico – su sponde e con metodi differenti – e una lunga latitanza all’estero per sottrarsi alla giustizia italiana, Scalzone e Delle Chiaie, il rosso e il nero, sono come due rette parallele che non trovano mai un punto d’incontro.

Cosa pensa di Delle Chiaie?
«Sono solito parlare in modo critico di sistemi e non di singoli, ma quando si tratta di uomini pubblici con responsabilità come le sue un giudizio è doveroso: credo – anche sulla base di un riscontro pratico, dettaglio sintomatico – sia un pessimo personaggio».

Quali riscontri?
«Lui e Mario Merlino hanno fatto circolare falsità quale quella che prima di Valle Giulia loro avessero preso contatto col Comitato d’agitazione d’ateneo alla Sapienza, e che quindi quella fosse stata un’impresa comune. Un episodio che mostra inequivocabilmente l’indole manipolatrice di questo personaggio che ama rimestare nel torbido».

I fascisti con Valle Giulia non c’entrano?
«Basta aver letto, che so… Malaparte, per sapere che in una piazza in tumulto può esserci di tutto. Certo è che se c’erano i fascisti, il movimento non se ne accorse».

Che differenza c’era tra ribelli di sinistra e di destra?
«Molti giovani, anche per opporsi a un antifascismo trasformatosi in regime, diventarono fascisti pensando di ribellarsi all’ordine costituito. La ritengo una forma, certo malintesa – un tragico equivoco –  di ribellione vera. Delle Chiaie con loro non c’entra, la cosa peggiore è che abbia lavorato per i servizi segreti del Paraguay di Stroessner».

Franco Piperno ha definito i terroristi “delle ottime persone, anche se hanno ucciso”. Che ne pensa?
«Condivido il suo giudizio per quanto riguarda coloro che, a torto o ragione, si ribellano all’ordine costituito, dal basso verso l’alto. Camus diceva che “non ci sono angeli di luce e idoli di fango; gli umani vivono così, a mezz’altezza”. Ma quando qualcuno si comporta in tutta la carriera come un gerarca dalla parte di coloro che schiacciano altri, non vedo come gli si possano concedere riconoscimenti di una qualche nobiltà, quantomeno d’intenti».

Ha letto “L’aquila e il condor”?
«Ci sono tante cose che non si riescono a leggere nella vita, mancanze che lasciano un rimorso, ma ammetto che difficilmente troverò il tempo di dedicarmi al libro di Delle Chiaie. Potrebbe anche avere un qualche interesse, tutto può essere. Ma la vicenda del Paraguay, ciò che si dice tra gli stessi fascisti di quest’individuo, il piccolo riscontro personale di cui sopra, mi fanno dubitare che in quelle pagine ci sia qualcosa di pregevole».

Scenderebbe in piazza per impedirne la presentazione?
«I movimenti sovversivi avrebbero ben altro da fare che impigliarsi in sceneggiate per vietare la parola a personaggi che converrebbe invece gratificare con un disinteresse e un silenzio eloquenti. Meglio sarebbe occuparsi di dare il fatto suo a gente più significativa, a partire dal dottor Marchionne».

Ha vissuto situazioni come quella che si attende per Delle Chiaie?
«Dopo il rientro ho ricevuto diverse contestazioni. All’università di Palermo lanciarono pietre contro le vetrate dell’aula dove si svolgeva l’assemblea, sembrava un cattivo remake del 16 marzo del ’68 alla Sapienza. L’onorevole signorina Meloni andava straparlando  di “bombaroli”, imitata da un tale Volontè deputato Udc…la sinistra di Stato annuiva. Quelle contestazioni, però, avevano origine nelle stanze del potere, non c’erano folle che si riunivano spontaneamente. Spero che i compagni cosentini non finiscano a chiedere alla questura di vietare l’evento, sarebbe una vera contraddizione in termini!».

Perché nemmeno una polemica per l’arrivo di Curcio?
«Il generale Dalla Chiesa, strenuo avversario delle BR, disse di Renato che era “uno che andava, non mandava”, manifestandogli quel rispetto che si concede a un nemico, nel senso più alto del termine. Lo stesso rispetto che Cossiga mostrò per Prospero Gallinari o Maurizio Ferrari che oggi, dopo 32 anni di prigione, è di nuovo rimesso e tenuto in galera per manifestazioni di lotta da un piccolo Vichinskij  (l’inquisitore per eccellenza della Russia di Stalin, ndr) come il procuratore Caselli. Ecco, l’intero percorso di Delle Chiaie non mi sembra suscettibile di raccogliere un rispetto della stessa natura».

Delle Chiaie è un suo nemico?
«Qualcuno ha detto che si è, o si diventa sempre un po’ alla misura del nemico che ci si sceglie. L’inimicizia, anche assoluta, è una relazione alta e non richiede di considerare l’altro un “sotto-uomo” – “Untermensch”, termine squisitamente nazista – o un demone. Escludendo dunque la passione triste ed autolesiva del risentimento o della diabolizzazione, non è necessario, tuttavia, gratificare qualcuno che non la meriti di una relazione simile. Comunque, se oggi qualcuno vuole telefonarmi per avere un confronto pubblico tra Delle Chiaie e me sulla questione di Valle Giulia, accetto la sfida di buon grado».