Il diritto al picchettaggio

Paolo Persichetti, l’Unità 29 giugno 2023

Il ciclo di lotte operaie iniziato nel 1969 non investì solo i distretti industriali del Nord, città fabbriche come Torino, Milano o Genova, ma ebbe un respiro nazionale investendo anche città come Roma cresciuta a dismisura nelle sue sterminate periferie sotto la spinta della migrazione interna. Le tradizionali lotte dei lavoratori edili, che avevano segnato la sua vita politica e sociale negli anni del dopoguerra, cominciavano ad essere accompagnate dai movimenti di lotta per la casa, da crescenti occupazioni di immobili di proprietà dei grandi imprenditori edili che avevano messo al sacco l’agro romano e dai ceti operai delle aziende della zona sud-est della città. Nei giorni del natale 1971 un violento assalto della polizia aveva tentato di impedire l’apertura di un enorme tendone in piazza di Spagna, nel centro ricco della città, per chiedere solidarietà e aiuto economico alle famiglie dei lavoratori in lotta di aziende come la Coca Cola, le Camicerie Cagli, le Cartiere Tiburtine, la Pantanella, l’Aereostatica, il Lanificio Luciani, oltre alla Fatme, Voxson e Autovox. Una realtà che l’urbanista Italo Insolera descriveva in questo modo nel suo Roma moderna: «Le tute degli operai sono comparse in città in lunghi e frequenti cortei che hanno portato nel paesaggio impiegatizio le parole “sciopero”, “occupazione”. Nomi di prodotti industriali – Fatme, Autovox – sono diventati nomi di problemi che la città ignorava. […] Nel 1968 nei vari baraccamenti e borghetti risultavano abitare 62.351 persone in 16.506 nuclei familiari. Dall’estate del ’69 i baraccati hanno occupato metodicamente palazzi in demolizione in vari quartieri della città e nuovi edifici ancora disabitati nella periferia, dando contemporaneamente fuoco alle baracche per sottolineare la volontà di rottura con il passato. Poi sono stati sloggiati dalla polizia – in genere all’alba, quando non solo dormono i baraccati, ma anche i cittadini “per bene”, i fotografi, i giornalisti, e i camion targati Ps, con sopra le povere masserizie, non rischiano di intralciare il traffico – e altre baracche sono sorte».I presìdi davanti ai posti di lavoro per svolgere assemblee, rafforzare gli scioperi o mantenere alto lo stato di agitazione sono parte del repertorio d’azione storico della working class. Strumenti antichi di lotta operaia, democrazia in azione o forme di «contropotere» che hanno incontrato sempre la dura repressione delle forze di polizia schierata in difesa degli interessi padronali. Sul finire degli anni Sessanta i settori più progressivi di una magistratura sociologicamente rinnovata dai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di ceti sociali un tempo esclusi e per questo più sensibili alle idee di rinnovamento, rivolsero un’attenzione diversa ai conflitti del lavoro. Una giurisprudenza innovativa interpretò questi fermenti ancorandoli ad alcuni dettami costituzionali rimasti inattivi. Il divario tra costituzione materiale e costituzione formale tendeva così a restringersi, anzi in molte parti del Paese la prima sopravanzava di gran lunga la seconda. Il clima mutò bruscamente alla fine degli anni 70 quando sotto la pressione dell’emergenza antiterrorismo gli strumenti della democrazia operaia persero legittimità e all’idea di sindacato conflittuale si sostituì il sindacato concertativo. La profonda ristrutturazione produttiva modificò i rapporti sociali e politici a cui seguì una giurisprudenza restaurativa ispirata al nuovo paradigma economico ultraliberale. La conseguenza fu una violenta criminalizzazione degli strumenti di lotta operaia. La vicenda dei 61 operai Fiat licenziati per ragioni politiche nell’ottobre 1979, 40 della Mirafiori, 13 di Rivalta e 8 della Lancia di Chivasso, accusati di «violenze fisiche e minacce», fece da battistrada.Una situazione analoga si ripresenta oggi nel comparto della logistica, uno dei settori strategici del capitalismo attuale dove vigono forme di lavoro neoschiavile: sfruttamento intensivo della forza lavoro, in prevalenza straniera, unitamente a condizioni contrattuali precarie, un uso sistematico degli straordinari con orari che toccano le 12-13 ore senza periodi di riposo, la presenza di intimidazioni, minacce, abusi verso i lavoratori, violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene. Una giungla dove l’organizzazione del lavoro è costituita da pseudocooperative sottoposte al dominio degli algoritmi dei grandi hub dell’ecommerce, appalti e subappalti, forme di caporalato, interinali, mancanza di diritti sindacali, bassi salari. Per tentare di porre freno a questa situazione di oppressione e sfruttamento alcune sigle del sindacalismo di base hanno organizzato i lavoratori innescando cicli di lotte molto conflittuali per migliorare le loro condizioni di vita e tutelare i loro diritti politici e sindacali. Una fortissima repressione antisindacale si è abbattuta su di loro. Nel 2013, Adil Belakhdim, un delegato sindacale del SiCobas, è stato travolto da un camion nel corso di un presidio davanti ai cancelli del centro di distribuzione della Lidl a Biandrate, in provincia di Novara. Nel luglio del 2021, la procura di Piacenza ha fatto arrestare sei sindacalisti dell’Usb e del SiCobas: tra i capi di imputazione c’erano «le attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti». Secondo la procura le forme di lotta sindacale impiegate nel corso delle vertenze altro non erano che strumenti di «coercizione e ricatto», le rivendicazioni una mera «attività estorsiva» e l’organizzazione sindacale una «associazione per delinquere». L’iniziativa anche se poi ridimensionata dal tribunale segnala la forte regressione della giurisprudenza sul lavoro sul tema degli scioperi, ormai nella stragrande maggioranza dei casi i picchetti vengono considerati forme di violenza privata. Addirittura in una recente sentenza un giudice ha ritenuto che anche nel settore privato lo sciopero debba essere preannunciato a questura e controparte.

Dall’Unità del 28 luglio 1971
Il diritto al picchettaggio
Fausto Tarsitano
Contro le lotte ingaggiate dai lavoratori romani per la difesa del posto di lavoro e la conquista di più umane condizioni di vita vi è stato in queste ultime settimane un massiccio e brutale intervento di ingenti forze di polizia e di carabinieri. L’ondata di violenze s’è dapprima abbattuta contro i picchetti costituiti dagli operai davanti agli ingressi della filiale della Fiat di Viale Manzoni, ha poi investito i picchetti delle commesse dei grandi magazzini davanti alle sedi di Standa e di Upim e non ha risparmiato quelli degli alberghieri. L’aggressione ed il pestaggio sono stati ripetuti contro una pacifica manifestazione degli operai della Pantanella che si stava svolgendo davanti al Parlamento ed in altre città italiane. Tutti questi episodi ed altri consimili stanno ad indicare che è in atto nel paese un grave attacco al diritto di riunione e di sciopero che si manifesta anche attraverso la aggressione poliziesca ai picchetti operai, come se essi non fossero consentiti e protetti dal nostro ordinamento giuridico.
La migliore giurisprudenza ha già da tempo riconosciuto che il diritto di sciopero non può essere ridotto alla semplice possibilità di astenersi dal lavoro. Quel diritto, perché non rimanga svuotato del tutto nella sua essenza di arma sindacale, deve accompagnarli alla facoltà di coordinare una somma di comportamenti omogenei per fare acquisire allo sciopero stesso quella efficacia e quella capacità di pressione che ne costituiscono l’ineliminabile presupposto. I lavoratori devono dunque poter organizzare l’astensione e constatare che essa verrà attuata da tutti i compagni o almeno da una parte apprezzabile di essi anche perché la singola defezione può essere interpretata come un indebito rifiuto dell’attività lavorativa suscettibile di gravi ritorsioni. L’insegnamento che viene dalla stessa magistratura, quando essa giudica in aderenza ai principi costituzionali, ha perciò spesso sottolineato che le decisioni operaie, i modi per attuarle non posso non essere stabiliti se non nel luogo di naturale convegno delle maestranze, cioè nelle sedi sindacali o davanti i cancelli delle fabbriche, dove è consentito dalla legge di scoraggiare l’ingresso di eventuali crumiri. Nessun funzionario di polizia può sostenere che siffatti indirizzi giurisprudenziali siano rimasti isolati: il pretore di Pinerolo infatti ha affermato «che è lecito in occasione di uno sciopero, formando una barriera umana, fermare un pullman sul quale si trovano impiegati ed operai che si recano al lavoro, al fine di consentire loro di rendersi conto della riuscita dello sciopero e di decidere insieme agli altri lavoratori rima di entrare nello stabilimento, se aderire o meno allo sciopero. Pertanto, non è legalmente dato l’ordine di desistere dal formare tale barriera». La Corte di assise di Foggia ha precisato che «il persuadere gli altri lavoratori ad astenersi dal lavoro costituisce il mezzo migliore per l’esercizio del diritto di sciopero e pertanto non solo non costituisce reato ma è un diritto garantito dalla Costituzione». E di recente il Tribunale di Catanzaro ha avvertito che e il picchettaggio non può non rientrare nello esercizio del diritto di sciopero. rappresentandosi come uno dei tanti mezzi con cui si realizza e sì articola l’astensione collettiva dal lavoro e risolvendosi in una azione di persuasione svolta da scioperanti e sindacalisti davanti agli ingressi della sede di lavoro ed intesa appunto ad ottenere che tutti i lavoratori partecipino alla fase più critica della dinamica della normativa sindacale». Un potere dello Stato, la magistratura, in attuazione dei principi costituzionali, considera quindi il picchettaggio un diritto dei lavoratori. La polizia invece impiega i suoi reparti per disperdere i picchetti, procede al fermo o all’arresto degli attivisti sindacali che li hanno promossi e li persegue penalmente. A nulla serve che lo stesso presidente della Corte Costituzionale proclami la legittimità di quelle forme di lotta e intervenga per affermarne la necessità. «Al fondo e nelle arterie della Costituzione — scrive Giuseppe Branca — vi è una grande sete di giustizia sociale. Ora, la giustizia sociale non si può attuare tutta in una volta». Una parte è attuata dalla stessa Costituzione, una parte è affidata al legislatore ordinario, parte infine devono realizzarla gli stessi lavoratori». E’ facile dimostrare che i dirigenti delle forze di polizia in tutti questi anni hanno assunto nei confronti delle lotte operaie e contadine un atteggiamento del tutto opposto. Le giuste rivendicazioni dei lavoratori e le agitazioni che ne sono derivate sono state infatti considerate momenti di gran turbamento dell’ordine pubblico, della pace sociale, dell’ondine economico. Avola rimane l’esempio più recente di una pratica repressiva sciagurata. Ma oggi, anche per merito dell’azione del nostro Partito sempre più larga, va facendosi tra le forze politiche e sindacali l’esigenza di un vasto dibattito nel Parlamento e nel Paese su questioni così scottanti. Una polizia non assoggettata agli indirizzi repressivi e antipopolari, rispettosa delle norme costituzionali, che persegua i grandi ideali e gli obiettivi di fondo che la legge fondamentale propone di raggiungere all’intera collettività è quanto chiediamo noi comunisti. Chi invece come l’on. Restivo si adopera solo per rafforzarne la capacità di aggressione ai diritti dei lavoratori e per tutelare direttamente o indirettamente il privilegio economico, non soltanto continua a separarla dal resto della nazione ma fallisce lo scopo della repressione del crimine cui la polizia si dice destinata.

Giorgio Amendola, il dirigente del Pci che detestava la classe operaia


Paolo Persichetti, l’Unità 21 giugno 2023

Nel 1968 Giorgio Amendola pubblicò un audace volumetto dal titolo, La classe operaia italiana, nel quale il leader storico dell’ala destra del Pci azzardava una singolare analisi del ceto operaio criticando la linea del suo partito e del sindacato, accusata di privilegiare quella minoranza di classe operaia che lavorava nelle grandi fabbriche, dimenticando il grosso dei lavoratori impiegati nella piccola e media impresa. Secondo Amendola occorreva ribaltare tutta la linea allora prevalente nei tre grandi sindacati italiani e anche nei partiti della sinistra. Singolare posizione che sembrava non riuscire a cogliere le dinamiche politiche del conflitto sociale. Furono proprio le lotte condotte nei grandi aggregati industriali a strappare alcune decisive conquiste, all’interno del contratto nazionale, di cui beneficiò soprattutto chi lavorava nelle piccole e medie imprese prive della forza contrattuale e politica delle grandi fabbriche. Conquiste, non solo salariali ma soprattutto contrattuali, capaci di intervenire sui ritmi, gli organici, gli straordinari, i lavori nocivi, la mensa, le 150 ore, gli aumenti uguali per tutti.

L’egualitarismo
C’è un aspetto che mandava Amendola su tutte le furie, ma non solo, perché si trattava di una cultura consolidata nel sindacato degli anni 50 e 60 e nei dirigenti del Pci, ovvero l’egualitarismo. Una rivendicazione che spiazzava le gerarchie sindacali ma soprattutto scardinava il sistema disciplinare della fabbrica, strumento di potere di “capi” e “capetti” con il loro sistema di premi, ricatti, compensi e punizioni. Rivendicazione politica innanzitutto, strumento di libertà dentro le officine. Dove nasceva l’ostilità storica di Amendola verso il protagonismo dei ceti operai? Probabilmente dalla sua originaria formazione culturale, dalle origini alto borghesi, da una visione elitaria della politica che attribuiva al partito comunista una funzione pedagogica delle masse, che andavano guidate, dotate di una rigida morale da perseguire, gerarchizzate. Per Amendola il partito comunista doveva portare a termine quella rivoluzione borghese che il partito liberale del padre non era stato in grado di compiere.
La sua classe operaia ideale era fatta di uomini pronti ad accettare l’egemonia e la tutela del partito, disposti a riconoscere la funzione maieutica a quei capi capaci di trasformarli da plebe in operai consapevoli. Ubbidienti e pronti e stringere la cintola per fare i sacrifici necessari al paese al posto di quella borghesia inesistente (sic!) e dimostrarsi così classe nazionale, ceto di governo.

La rude razza pagana
Quando sul finire degli anni sessanta una «rude razza pagana» rifiutò questi vecchi schemi e ruppe con la cultura delle commissioni interne imponendo i delegati “senza tessera”, esprimendo un altissimo grado di autonomia politica, Amendola intravide in questo protagonismo operaio, espressione per altro di una mutata sociologia di classe e di una nuova forma di capitalismo, un nemico insidioso da contrastare, da domare in tutte le forme e maniere.
L’ex segretario della Fiom e poi della Cgil Bruno Trentin, in una conversazione con Vittorio Foa e Andrea Ranieri (La libertà e il lavoro, volume curato da Michele Magno), spiegò il lungo dissenso che lo oppose ad Amendola. Quando vennero gli anni in cui si cominciava a discutere delle trasformazioni del capitalismo – racconta Trentin – Amendola «era su una linea pauperistica, di un Gramsci assolutamente mal letto». Per Amendola era la classe operaia che doveva fare la rivoluzione borghese, «perché c’è una società senza borghesia o con una borghesia stracciona che non è in grado di fare niente». Una linea – continua Trentin – a cui sfuggivano le trasformazioni reali del nostro capitalismo». Lui arrivò a ridicolizzare su Rinascita – prosegue sempre Trentin – «la mia proposta di organizzare i disoccupati nelle lotte per il lavoro, e quasi a criminalizzare certe posizioni del sindacato nei confronti dei quadri. Noi ponevamo il problema della loro conquista politica, e lui sosteneva che erano un ceto a sé. Beh, la mia convinzione è che lui era un liberale ma non un democratico. All’interno del partito, e nella sua concezione generale del rapporto tra democrazia e sviluppo economico. Il dissenso con lui si sviluppò su molti terreni. Lui era convinto che l’unità sindacale riguardasse solo la Uil e non la Cisl, che considerava un nemico. La possibilità di dialogo con i cattolici era un problema di rapporto con le gerarchie religiose, non con un sindacato. Rimase su questo coerente fino in fondo; non capiva quella realtà complessa che era la Cisl. In una riunione di partito a Frattocchie, si schierò insieme a Novella contro i consigli dei delegati irridendo a questa esperienza. Diceva che avremmo fatto un centinaio di consigli contro migliaia di commissioni interne: successe esattamente l’opposto. Ma l’attacco fu molto aspro perché fare eleggere dei delegati su scheda bianca, voleva dire, a suo parere, delegittimare il partito e la sua possibilità di presenza nei luoghi di lavoro».

Manifesto antioperaio
Dopo la sconfitta dell’esperienza del compromesso storico e la prima flessione elettorale del Pci del giugno 1979, invece di ragionare sulla posizione suicidaria tenuta dal gruppo dirigente durante il sequestro Moro, temendo un ritorno all’opposizione del partito Amendola puntò il dito contro una linea – a suo dire – troppo morbida tenuta nelle fabbriche verso l’irruenza operaia, le «rivendicazioni di democrazia diretta», le pratiche di lotta non ortodosse, il contrasto troppo debole verso la violenza operaia, il proliferare di un rivendicazionismo corporativo e contraddittorio. Rimproverava al Pci «di non avere criticato apertamente, fin dal primo momento» l’estremismo in fabbrica, «per una accettazione supina dell’autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti, abdicando alla funzione che è propria del Pci di diventare forza egemone della classe operaia italiana e del popolo».
Dopo il licenziamento dei sessantuno delegati di Fiat Mirafiori, accusati di violenza in fabbrica, esperimento pilota che aprì la strada l’anno successivo al licenziamento di massa di 23 mila operai, in un articolo apparso su Rinascita del 7 novembre 1979, considerato a giusto titolo il suo testamento politico e ritenuto, non ha torto, dai suoi critici un manifesto del termidoro antioperaio, Amendola mise all’indice la cultura neomarxista sorta all’inizio degli anni sessanta. Una requisitoria contro i Quaderni rossi («che restringevano all’interno della fabbrica lo scontro di classe e considerava come democraticismo ogni tentativo di allargamento del fronte con le riforme di struttura»), i Quaderni piacentini e Potere operaio, responsabili dei «tentativi di elaborazione teorica che formarono il terreno di coltura dell’estremismo, nell’incontro con l’estremismo di origine cattolica, allevato nel laboratorio della facoltà di sociologia dell’università di Trento», esperienze che avrebbero portato «alla cosiddetta “autonomia” ed infine al terrorismo». Fenomeni che il Pci non avrebbe contrasto a sufficienza, nonostante il rastrellamento del 7 aprile precedente, le carceri speciali, l’uso degli infiltrati del Pci concordato con il generale Dalla Chiesa. Un’accusa infondata alla luce di quanto poi i lavori storici hanno dimostrato ma soprattutto la prova di una cultura politica timorosa della partecipazione dal basso.
Una cosa è sicura, non sarà certo inseguendo l’insegnamento di Amendola che si potranno fondare le basi di una nuova sinistra.

Mille anime morte

Editoriale

Dall’urna dove mille anime morte depositavano le loro schede per l’elezione del presidente della repubblica sono usciti tanti nomi: cariatidi imparentate con i palazzinari, capi dei servizi segreti, pornostar, allenatori, presidenti di squadre di calcio, costituzionalisti, banchieri, magistrati, signore in visone, imprenditori scesi in politica. Una sola volta è apparso il nome di Emilio Scalzo, notav estradato in Francia per il suo sostegno ai migranti contro ogni frontiera. Nessuno ha scritto il nome di Lorenzo Parelli, lo studente diciottenne vittima di quel sistema di creazione di manodopera senza costo e precarizzazione assoluta che è l’alternanza scuola-lavoro, morto appena tre giorni prima che le camere si riunissero in seduta congiunta. Alla fine è passato l’unico nome che potesse garantire lo status quo, la garanzia dello stipendio ancora per i pochi mesi che mancano alla fine della legislatura.
Una volta si sarebbe detto che questo ceto parlamentare dava l’immagine di un mondo completamente scollato dal Paese. Oggi invece sembrano esserne la quasi perfetta rappresentazione. Scrivo «quasi» perché da qualche parte c’è un pezzo di società che da questo mondo non è rappresentato e mi auguro che non voglia esserlo, ma fare in proprio. Certo è solo, isolato, in un angolo, come quegli studenti che hanno manifestato e sono stati caricati dalla polizia per ricordare Lorenzo e pretendere che il diritto allo studio sia liberato dalla schiavitù salariale e dal comando dell’impresa.

La rivolta in fabbrica, rapporti di lavoro e lotte operaie alla Fiat Mirafiori dal 1962 al 1973

Esce in Germania il libro più completo sulle lotte operaie a Mirafiori tra ’62 e ’73, scritto dallo storico Dietmar Lange. La recensione di Sergio Bologna

Sergio Bologna, il manifesto 21 aprile 2021

È uscito in Germania presso il grande e prestigioso gruppo editoriale Vandenhoeck & Ruprecht il libro di Dietmar Lange, Aufstand in der Fabrik. Arbeitsverhältnisse und Arbeitskämpfe bei Fiat Mirafiori 1962 bis 1973 (Rivolta in fabbrica. Condizione operaia e lotte operaie alla Fiat Mirafiori 1962-1973), pp. 421, euro 63. Messo a paragone con le numerose rievocazioni di quella stagione che la ricorrenza dell’autunno caldo ha stimolato prima e dopo la pandemia, il lavoro di Lange mostra un respiro storico che nulla ha a che vedere con l’«aria di famiglia» che traspira dalla produzione pubblicistica italiana. Lange colloca la vicenda Fiat in un quadro che la iscrive nelle «onde lunghe» dei cicli di lotta che partono dalla Comune di Parigi e, attraverso i moti rivoluzionari del 1917-23, giungono agli anni Sessanta del secolo scorso.
Sembra di avvertire qui la lezione di Marcel van den Linden e della sua Global Labour History, che se da un lato ha cercato di rovesciare l’eurocentrismo della storia del lavoro come l’abbiamo praticata durante tutto il Novecento, dall’altro lato ci ha messo in guardia da un eccessivo uso della microstoria nell’analisi delle lotte dei lavoratori, spingendoci a innalzare lo sguardo sui grandi snodi della storia mondiale. Per altro verso Lange si richiama esplicitamente al Labour Process Debate lanciato da Harry Bravermann agli inizi degli anni Settanta, che sollecitò gli storici ad occuparsi del controllo sociale sulla forza lavoro esercitato attraverso dinamiche e strumenti ben diversi da quelli dell’ingegneria taylorista in fabbrica. Un controllo che provoca nella classe operaia una reazione alla stessa altezza e che i sociologi tedeschi chiamarono di proletarische Öffentlichkeit o di Gegen-Öffentlichkeit.

Da questo intinerario metodologico Lange arriva all’operaismo italiano, del tutto correttamente, a nostro avviso, perché il punto di contatto è rappresentato proprio da quella netta distinzione tra la sfera della «composizione tecnica di classe» e la sfera della «composizione politica di classe». L’operaismo non aveva mai concepito un «dentro» e un «fuori» la fabbrica, come due spazi fisici dove all’interno del primo si lottava per il salario e l’orario e all’interno del secondo per la casa, i trasporti, la scuola, l’informazione ecc. (le cosiddette «lotte per le riforme» post-69). Le due sfere erano concepite come due gradi di maturità antagonista, quindi come un percorso lungo il quale la forma della cooperazione nella e per la produzione si rovescia in forma di conflitto collettivo.
Le prime diciotto pagine in cui l’autore si sofferma su questi aspetti metodologici meritano una particolare attenzione perché identificano chiaramente un punto di vista molto diverso da quello di molta letteratura e memorialistica italiana sulla vicenda Fiat, prigioniera certe volte di una visione «localistica», pur con la forte passione politica della scrittura. Lange colloca la vicenda Fiat al centro di quella «frattura strutturale» (Strukturbruch) verificatasi nella società capitalistica, che noi abbiamo chiamato «passaggio dal fordismo al postfordismo».
L’anno in cui questa frattura ha cominciato ad apparire in tutta la sua dimensione planetaria è il 1973, più precisamente ottobre 1973 con lo scoppio della «crisi petrolifera». Ma è anche l’anno in cui il ciclo che si era aperto agli inizi degli anni Sessanta ed era culminato nell’autunno caldo comincia una discesa non lineare, anzi, costellata di sussulti e di riposizionamenti strategici (si pensi al movimento del ’77), prima della sconfitta bruciante dell’ottobre 1980 proprio alla Fiat.
E qui si pone un altro problema di carattere metodologico. Un problema di periodizzazione. Quando e dove inizia il ciclo? Alla Fiat sicuramente nel 1962 e quindi Lange ha fatto benissimo a iniziare la sua narrazione da lì, riprendendo la periodizzazione classica dei Quaderni Rossi. Se fosse partito dal 1967 avrebbe probabilmente commesso lo stesso errore in cui sono incorsi molti di noi attribuendo funzione di «detonatore» alle lotte studentesche.

Ma oggi sappiamo cheche non è corretto isolare Torino dal resto d’Italia e Lange, se proprio avesse voluto mantenere estrema coerenza alla sua posizione, non avrebbe dovuto ignorarlo. Lo scontro alla Fiat che si sarebbe concluso nell’ottobre 1980 non s’identifica con il grande ciclo, perché la data d’inizio di quel ciclo è il 1960, Milano, sciopero dei 70 mila elettromeccanici, una lotta «che resiste un minuto più del padrone» per quasi un anno e vince. Questo vizio «torinocentrico» che ci siamo portati dietro per decenni evidentemente è contagioso.
Lange trova nella produzione storiografica che lo ha preceduto un’insufficiente capacità di cogliere tutta la complessità delle interrelazioni tra sfera dello sviluppo economico, sfera dei mutamenti tecnologici, comportamenti soggettivi di classe, rappresentanza sindacale e configurazione del sociale e dichiara che il suo intento è stato proprio quello di affrontare di petto questa complessità nello sforzo di realizzarne una sintesi. Se ci sia riuscito o meno dovremmo poterlo giudicare analizzando in dettaglio i vari capitoli del libro, compito che richiederebbe uno spazio ben maggiore di questa che non è una recensione ma una semplice segnalazione.
Ci limitiamo pertanto a elencare gli argomenti dei diversi capitoli: l’Italia del miracolo economico, la formazione di un pensiero della «nuova sinistra», l’epoca della catena di montaggio, piazza Statuto e le sue conseguenze, l’ombra della congiuntura (1963-66), il «maggio strisciante» alla Fiat, crisi e mutamento nell’Italia inizi anni Settanta, un nuovo modello di gestione alla Fiat, la stagione contrattuale del 1972/73. I capitoli dedicati al nuovo modello di gestione costituiscono la sezione più corposa del volume e riguardano il confronto classe-direzione di fabbrica sull’organizzazione del lavoro, sui cottimi, l’inquadramento unico, i ritmi, il potere dei capi, la fase cioè in cui l’egualitarismo dell’autunno caldo si deve tradurre in articolazione di reparto, contestando l’ingegneria taylorista. È qui che Lange dà maggiore spazio al ruolo della sinistra radicale, in particolare a Lotta Continua e al potere d’interdizione che un solo reparto chiave (ad esempio, la verniciatura) può esercitare sull’intero flusso produttivo.

Nella ventina di pagine di Zusammenfassung Lange cambia completamente tono e punto di vista rispetto alle pagine introduttive sulla metodologia. La lunga narrazione precedente lo ha costretto a rimettersi sul terreno della microstoria, dell’indagine sociologica, dell’ascolto della soggettività operaia. È un riconoscimento che i limiti da lui individuati all’inizio nella storiografia che lo ha preceduto non sono limiti della visione d’insieme ma il portato di una «parzialità» che la storiografia militante ha sempre rivendicato.
Gli va riconosciuto comunque non solo di aver lavorato su gran parte delle fonti primarie disponibili ma di aver mantenuto un grande equilibrio nel giudizio sul ruolo di determinati attori, per esempio sul ruolo della sinistra radicale, che non ha certo esercitato una leadership ma sicuramente ha avuto un ruolo importante nel mettere in comunicazione i diversi segmenti della classe operaia Fiat oltre ad aver saputo certe volte interpretare la soggettività degli operai comuni (scritto sempre in italiano e in corsivo nel testo) meglio del sindacato. A questo proposito va notato che avrebbe potuto andare più in profondità sulla differenziazione di atteggiamenti e di pratica tra militanti Fiom e Fim di fabbrica e apparati di partito e di sindacato. Ma questo non inficia un valutazione molto positiva del lavoro svolto da Lange, in effetti un libro così completo mancava, la vicenda Fiat con questa ricerca entra nella «grande storia».
Un solo dubbio va sollevato. Acquisterebbe una valenza del tutto diversa la vicenda Fiat, se non la esaminassimo isolatamente ma nel contesto generale della conflittualità operaia in Italia, se accanto a Torino mettessimo Genova, Milano e la Lombardia, il Veneto, Napoli e via via i tanti territori dove l’antagonismo operaio si è manifestato nella sua interezza. Forse verrebbe esaltata la sua esemplarità ma forse verrebbe anche relativizzato il suo ruolo.

L’accusa di terrorismo, uno strumento repressivo in perenne estensione [Prima parte]

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento del Prison Break Project sulla storia del concetto di terrorismo, accusa (la finalità terroristica) rivolta contro quattro compagni e compagne NoTav, incarcerati in regime di alta sorveglianza dallo scorso 8 dicembre 2013.
La volontà – spiegano gli autori del testo – è quella di contribuire al dibattito pubblico e di movimento sul tema della repressione, a partire dalle sollecitazioni che l’attualità giudiziaria impone su chi partecipa alle lotte in Italia”.
Il testo sarà diviso in tre spezzoni per agevolarne la lettura e per accompagnare simbolicamente le scadenze di questo mese di mobilitazione per la liberazione di compagni e compagne e contro la criminalizzazione della lotta notav.
La prima parte è stata pubblicata su diversi blog e siti il 5 maggio scorso (noi lo facciamo in ritardo e ce ne scusiamo), le altre date previste sono quelle del 12 e 19 maggio prossimi. L’obiettivo è quello di mostrare un piccolo, e speriamo utile, segno tangibile di solidarietà alle lotte contro le dinamiche repressive.

Ben venga questa discussione. Che si apra il dibattito dunque anche se riteniamo non debba limitarsi soltanto alla conoscenza degli strumenti e delle tecniche repressive messe in campo dagli apparati statali ma debba andare oltre, cercando le strade per contrastare i processi repressivi, il loro continuo aggiornamento.
La sfera del giuridico non esprime solo tecnica ma uno degli aspetti più profondi del politico: la continua ridefinizione dei confini del lecito e dell’illecito, della legittimità e dell’illegittimità, quella sorta di pendolo che è la legalità.
La sfera del giuridico è un terreno di conflitto dove però ad essere attrezzata è solo una delle parti. L’altra, i movimenti, chi lotta, il più delle volte recita il ruolo passivo di chi prende colpi senza sapere bene cosa fare, oppure attestandosi su una linea di condotta che non va oltre la resistenza, la capacità di incassare. Tenere botta è importante ma l’avversario si mette in difficoltà schivando i suoi colpi e si stende portando i propri. Dinamismo, movimento, velocità, riflessi, contro staticità. Non ci si può esimere dal costruire un intervento politico sulla giuridicità.
Questa estate si era aperta una discussione attorno ad una proposta definita “amnistia sociale”, era un tentativo di definire un orizzonte prim’ancora che una soluzione concreta: elaborare una strategia che individuasse il nodo centrale dello scontro che veniva costituendosi, ovvero l’attacco alla legittimità stessa di un dissenso fattivo, alla possibilità che dei movimenti potessero esistere e mettersi di traverso, inceppando un sistema sempre più oligarchigo. Diventare il volano di un fronte da allargare per scardinare le ultradecennali stratificazioni dell’emergenza.
Nel fratempo quel dibattito si è arenato mentre le dinamiche repressive oltre ad essersi inasprite hanno allargato il loro fronte in Val Susa come a Roma e i movimenti si sono trovati in grosse difficoltà, senza strumenti, senza aver mai intaccato di un millimetro le strategie repressive che mirano ad isolarli e sconfiggerli.
Forse è il caso di ripensarci!

5 maggio 2014. Terrorizzare e reprimere. Parte 1 di 3

Terrorizzare e reprimere.
Il terrorismo come strumento repressivo in perenne estensione

“When government fears the people, there is liberty. When the people fear the government, there is tyranny”
Thomas Jefferson

Non siamo in grado di trattare con esaustività un tema vasto e controverso come quello del terrorismo.
Ci interessa piuttosto seguire a volo d’uccello la parabola storica della nozione di terrorismo, per mostrare come essa, nata per indicare i più gravi atti di violenza politica indiscriminata, stia finendo per abbracciare virtualmente ogni atto di insubordinazione all’ordine costituito.
Diventa preminente l’esigenza, che impregna tutto il lavoro di Prison Break Project, di non appiattire il discorso critico solo sul piano ostile e ostico del diritto. Perciò, pur nell’inevitabile incompletezza della nostra disamina, anteponiamo all’analisi delle definizioni giuridiche internazionali ed italiane del terrorismo un’approssimativa indagine “filologica” del concetto nel suo manifestarsi storico.
Tra i due piani c’è ovviamente una relazione, dato che persino le parole più falsificate e asservite dal potere devono la loro efficacia persuasiva e di governo alla loro capacità di rinviare a-, a risuonare con-, esperienze collettive che al potere pre-esistono o che comunque hanno una loro, relativamente autonoma, dimensione di realtà.
L’esperienza cui il concetto di terrorismo non può non rimandare è il terrore, esperienza per sua natura soggettiva (ciò che terrorizza te non è detto che terrorizzi me), ma che assume la valenza politico-giuridica che qui rileva solo in quanto si imprime su un soggetto collettivo (il terrore deve comunque colpire un “noi”).
La natura intrinsecamente politica del concetto di terrorismo sta dunque, in ultima analisi, nella decisione su quale sia il soggetto collettivo che si assume colpito dal terrore.

terrorismOrigine, evoluzioni e deformazioni di un concetto ambiguo

La maggiore difficoltà che si frappone all’analisi del fenomeno terroristico risiede nella sua ambiguità, nel senso che la qualificazione di un’azione o di una pluralità di azioni come terroristiche non è frutto di un giudizio di valore assoluto ma relativo. In altri termini, un comportamento che è valutato come terroristico dai suoi destinatari, riceve invece una diversa qualificazione dai suoi autori”.

Queste parole non sono state pronunciate da un legale di soggetti accusati di terrorismo o da qualche scomodo intellettuale radicale. Sono invece tratte da uno scritto1 di Emilio Alessandrini, Pietro Calogero e Pier Luigi Vigna, magistrati titolari di diverse inchieste per terrorismo negli anni ‘70.
Se persino chi ha elargito anni e anni di carcere sulla base della nozione di terrorismo ne ha denunciato l’ambiguità, è chiaro che diventa tanto difficile quanto necessario il tentativo di restituire un minimo di contenuto semantico al concetto.
Nel senso comune del termine, il terrorismo denota una delle modalità più efferate e indiscriminate in cui si può esprimere la violenza politica. Le diverse definizioni accademiche 2 si imperniano intorno ad un minimo comune denominatore che valorizza l’etimologia del termine: terrorismo significa terrorizzare la popolazione attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico o ideologico.
Da questo nucleo semantico tanto vago quanto intrinsecamente carico di disvalore discende la relativa ambiguità e soggettività del concetto, il quale si presta dunque facilmente ad essere strumento di condanna e demonizzazione dell’avversario politico 3.

Nonostante i suoi limiti, tuttavia, questa definizione è un imprescindibile riferimento sia per poter operare una ricostruzione storica del fenomeno che per conquistarsi un minimo di autonomia di giudizio in relazione agli avvenimenti attuali. Un’autonomia di giudizio che serva, se non a valutare quali prassi contemporanee possano essere definite terroristiche, quantomeno a riconoscere con sicurezza ciò che terrorismo non è.
Già da un punto di vista filologico, lo slogan di movimento “terrorista è lo stato” coglie nel segno. Il termine viene coniato a partire dall’esperienza del “Regime del Terrore”, instauratosi nella Francia rivoluzionaria del 1793, a forza di teste ghigliottinate secondo le decisioni sommarie del Comitato di Salute Pubblica 4, organo del governo rivoluzionario giacobino.
I neologismi francesi terrorisme e terroriser, creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col significato – tuttora attestato nei vocabolari – di “azione del potere politico di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza” 5.

Un primo capovolgimento semantico avviene con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono dello stigma legato all’impiego del termine “terrorismo” contro quelle popolazioni asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di sterminio e depredazione delle risorse.
In alcuni casi l’accusa di terrorismo aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne per la popolazione “Herero” trucidata dall’esercito tedesco 6. Contro gli Herero, accusati di terrorismo, furono usati metodi terroristici da manuale: sterminio per fame, avvelenamento dei pozzi, campi di concentramento e terribili esperimenti medici. Secondo il rapporto ONU “Whitaker” del 1995 il genocidio ridusse la popolazione da 80.000 a 15.000 “rifugiati affamati”.
Sorte analoga spettò ai Mau Mau massacrati dagli inglesi. Col pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso sistematico dell’elettro-choc 7.
D’altronde anche il colonialismo italiano non fu da meno nel dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come nei Balcani 8.

Nel corso del Novecento c’è un’altra esperienza in cui il terrorismo assume un ruolo importante. All’indomani della rivoluzione d’ottobre e nel vivo della fase del “comunismo di guerra”, Lev Trockij scrive Terrorismo e Comunismo 9 in cui spiega l’importanza strategica del terrore rivoluzionario, il quale nella sua visione si riallaccia al terrore giacobino e si contrappone al terrorismo controrivoluzionario del regime zarista.
Non ci interessa qui verificare se le valutazioni di Trockij fossero corrette o meno. Non si può cionondimeno ignorare come queste teorizzazioni e pratiche di certo non servirono a porre un argine all’avvento, una quindicina di anni dopo, del Terrore staliniano, chiara forma di terrorismo di stato.
Con quest’ultimo termine si intende il periodo delle purghe staliniane – iniziate nel 1934 dopo l’assassinio del dirigente bolscevico Kirov – che permise l’ampliamento dei poteri della polizia politica (Nkvd) e di varare una legislazione d’emergenza che fu il supporto dei grandi processi pubblici contro i vecchi capi bolscevichi. L’ironia della Storia vuole che proprio Trockij e i suoi seguaci furono tra le vittime di questi processi con l’accusa di terrorismo 10. Ecco dunque un’altra volta il rovesciamento di senso: il terrore stalinista che accusa di terrorismo i suoi oppositori.

E che dire invece dei regimi “democratici” contemporanei? A proposito delle pratiche terroristiche da loro utilizzate ci limitiamo a ricordarne la più compiuta espressione: la guerra. Infatti, se torniamo a considerare la definizione di terrorismo vista all’inizio (terrorizzare la popolazione con una violenza indiscriminata per raggiungere un fine politico) ci rendiamo conto che la guerra, in particolare quella moderna basata sui bombardamenti aerei, vi rientra in pieno.
Il massimo e apocalittico esempio di questo tipo di terrorismo è il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki 11. Tuttavia anche un semplice cacciabombardiere novecentesco che getta “a spaglio” le sue bombe sopra una città non fa altro che seminare terrore e morte in maniera indiscriminata.
Ci ricorda Vladimiro Giacchè come questa inconfutabile valutazione si attagli anche alle contemporanee “guerre chirurgiche”. Questo tipo di bombardamento provoca i cosiddetti “effetti collaterali”, ossia i previsti e voluti massacri di civili. In realtà, l’idea della guerra chirurgica non è certo nuova. Essa era teorizzata già negli anni `20 come “un’operazione chirurgica di aggiustamento internazionale senza quasi spargimento di sangue” mediante l’uso dell’aeronautica militare che “punterà ad abbattere il morale della popolazione”, ossia, ancora una volta, a seminare il terrore 12. In questo quadro, la nuova politica tecnocratica della cosiddetta “guerra dei droni” è l’ennesima innovazione nel campo delle possibilità terroristiche del potere costituito e degli stati 13.

Possiamo, a conclusione di questa panoramica storica, sottolineare un dato di fatto: il terrorismo è un’efferata strategia politico-militare che viene portata avanti anche da singoli e gruppi, ma che in realtà è sistematicamente usata delle organizzazioni statali.
Non vogliamo quindi sostenere che il terrorismo è stato storicamente solo quello di Stato, poiché certamente pratiche terroristiche sono state adottate anche da gruppi e/o individui privi di potere. Attentati esplosivi indiscriminati contro la popolazione civile sono ad esempio stati realizzati da combattenti irlandesi, palestinesi, del risorgimento italiano 14, rivoluzionari e fascisti.
Un discorso a parte meriterebbe invece l’uso che gli Stati hanno fatto dell’accusa di terrorismo su gruppi che usavano la violenza (anche armata) per un fine rivoluzionario che terrorizzava solo i dominanti ma poteva entusiasmare i dominati. Se si condivide infatti l’assunto che la società non è un tutto organico e monolitico, occorre chiedersi quali gruppi sociali siano terrorizzati da una specifica modalità terroristica.
Un bombardamento aereo è certamente un atto idoneo a terrorizzare tutta la popolazione (per quanto quest’ultimo concetto sia un’astrazione). Ma può dirsi lo stesso della gambizzazione di un uomo politico o di un manager?
Secondo noi è tutta questione del punto di vista di classe da cui si guarda la realtà: un regicidio terrorizza regnanti e classi dominanti; una bomba alla stazione terrorizza direttamente chi prende i treni per spostarsi. In questa prospettiva è evidente come la doppiezza del concetto di terrorismo rifletta la contrapposizione ideologica e di classe che può darsi dentro una società.
Il punto che ci preme qui sottolineare è però un altro: quella statale è la forma prototipica di terrorismo, il terrorismo per eccellenza. Il terrorismo è insomma prevalentemente una pratica di governo.
Il terrorismo individuale o di gruppo, al netto di ogni valutazione etica, è un fenomeno incomparabile per micidialità e dimensioni al terrorismo di Stato. Per giungere a questa conclusione non c’è bisogno di “pesare” spietatamente le quantità di vittime dell’uno e dell’altro fenomeno.
È la storia del Novecento a dimostrarlo. I regimi coloniali, i totalitarismi nazifascisti e stalinisti, le guerre mondiali (con la trasformazione della guerra tra eserciti in guerra ai civili), la minaccia atomica, le dittature sudamericane, africane e asiatiche: tutte queste situazioni in cui il terrore e una violenza efferata giocano un ruolo determinante sono “affare di Stato” e non hanno eguali nel terrorismo individuale o di gruppo.
Dietro queste evidenze storiche del carattere principalmente statale del terrorismo vi sono ragioni strutturali: le situazioni in cui avviene una tendenza generale a terrorizzare una popolazione sono appannaggio degli Stati, i quali (servendosi anche dei loro micidiali armamentari bellici e comunicativi) possono ampliarne e declinarne gli effetti, veicolando la propria interpretazione e l’attribuzione dello “scempio” e del “nemico”.
In questa prospettiva suona grottesca la proclamazione di Guerra al Terrorismo lanciata dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Innanzitutto non è possibile dichiarare guerra ad una forma di guerra, poiché, va ribadito, il terrorismo non è un nemico, non è un soggetto, è una strategia.
Inoltre è paradossale che siano gli Stati Occidentali a lanciare una crociata contro una pratica da essi sempre adottata, difesa e foraggiata 15. Ancora più paradossale è che, per l’ennesima volta nella storia, chi dice di combattere il terrorismo utilizzi metodi terroristici, ad esempio bombardando i civili iracheni nella guerra del 2003. Non lascia adito a dubbi il nome del primo attacco aereo su Baghdad: “Shock and Awe”. Tradotto letteralmente: “colpisci e terrorizza”.

Note

1 Questo scritto è stato testualmente citato dall’avv. Pelazza nell’intervista “colpevoli di resistere”, reperibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=03vVyrbmJVU.

2 Per una rassegna di alcune autorevoli definizioni dottrinarie del terrorismo si veda G. Pisapia, “Terrorismo: delitto politico o delitto comune?”, in Giustizia Penale, p. 258 ss., 1975. L’articolo evidenzia anche alcune tipizzazioni che danno conto della complessità del fenomeno: terrorismo di stato (governativo, esterno o “complice”); terrorismo rivoluzionario, subrivoluzionario o repressivo; terrorismo sociale, politico o di diritto comune; terrorismo interno o internazionale; terrorismo diretto e indiretto, eccetera. Cerella fornisce invece una definizione generale del fenomeno in linea con quella da noi riportata, pur dando conto delle difficoltà di un approccio avalutativo quando si intende purificare il concetto di terrorismo dalle sue incrostazioni storiche, A. Cerella, “Terrorismo: storia e analisi di un concetto”, in Trasgressioni, num. 49, pp. 41 e ss., 2010, reperibile su: http://clok.uclan.ac.uk/7969/ /TERRORISMO.%20STORIA%20E%20ANALISI%20DI%20UN%20CONCETTO.pdf.

3 Interessante che il Dictonnary of Politics di Elliott e Summerskill nel 1952 affermi “Terrorista è colui che ricorre alla violenza e al terrore per raggiungere finalità politiche, che frequentemente implicano il sovvertimento dell’ordine stabilito. Il vocabolo è usato anche dai sostenitori di un particolare regime per descrivere e screditare qualsiasi oppositore che ricorra ad atti di violenza. Gli oppositori di un regime, tuttavia, sarebbe meglio definirli partigiani o combattenti della resistenza piuttosto che terroristi” (in Pisapia, 1975, op. cit). Giglioli constata lapidariamente: “Il terrorismo è la violenza degli altri”, D. Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano, 2007, p. 7.

4 Per ciò che concerne il biennio rivoluzionario che la storiografia ufficiale ha etichettato con l’appellativo di “Terrore”, segnaliamo però che la stessa caratterizzazione del periodo come determinato unicamente dalla barbarie giacobina volta ad eliminare fisicamente tutti gli oppositori politici di quello che, in fin dei conti, è un nuovo Stato autoritario, risulta viziata da un certo revisionismo e da un approccio “fintamente” avalutativo della Storia. Questo perché si intende così trasformare quello che è stato, almeno in alcuni suoi aspetti, un tentativo di rivoluzione sociale, pur con tutte le sue contraddittorietà ed i suoi eccessi, in un processo di semplice rivoluzione “borghese”, nella transizione cioè da uno stato autoritario premoderno ad uno democratico borghese. In una concezione di tal genere il “Terrore” non sarebbe altro che un intermezzo dispotico, ad immagine e somiglianza del folle ed incorruttibile Robespierre, nel mezzo di un lineare processo di mutamento di classe dirigente, iniziato con la presa della Bastiglia e terminato con l’avvento e la sconfitta di Napoleone. Non si analizzano cioè le laceranti divisioni in seno al fronte rivoluzionario, che rispecchiavano le differenze politiche dello schieramento, le lotte intestine ed il ruolo da protagonista che gioca la plebe parigina e francese nel tentativo di innalzarsi e liberarsi da schiavitù e sfruttamento. Il filone interpretativo che valorizza questi aspetti concepisce al contrario il 1793 come “punto più alto” della Rivoluzione, poiché vi fu un tentativo di attacco ai privilegi tanto della vecchia classe nobiliare quanto della nuova “borghesia”. Il Terrore, come periodo storico, si sostanzia di tutte queste contraddizioni; l’innamoramento generale per “Madama ghigliottina”, invece, sarà l’aspetto che si ritorcerà contro i rivoluzionari stessi, provocando l’uccisione di Marat, Danton e Robespierre e l’avvento del Termidoro.

5 Mauro Ronco, voce “Terrorismo” in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1986, p. 754.

6 Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il 1904 e il 1907, scrisse: “Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento specifico… L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere qualcosa di nuovo, che resterà”. Maggiori dettagli e riferimenti su: http://claudiocanal.blogspot.it/2010/06/herero.html.

7 Ancora a proposito delle strategie militari del colonialismo inglese Noam Chomsky ricorda che “Winston Churchill autorizzò l’uso delle armi chimiche “a scopo sperimentale contro gli arabi ribelli”, denunciando la “schifiltosità” di coloro che facevano obiezioni “sull’uso dei gas contro tribù incivili”, per la maggior parte curde, da lui invece sostenuto perché “avrebbe seminato un grande terrore”, http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/501_8_2.html.

8 La questione della rimozione delle crudeltà del colonialismo in salsa italica è un tema storico quantomai attuale: essa si scontra con il mito degli italiani brava gente che costituisce il prodromo dell’accusa implicita di terrorismo e barbarie addossata a chi resisteva e attaccava l’esercito coloniale italiano. Su questo tema si possono citare: i lavori di Del Boca (Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2005; A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi, Milano, 2007) e Kersevan (Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Kappa Vu, Udine, 2003; Lager Italiani, Nutrimenti, Roma, 2008) che fanno un bilancio di lunghe ricerche; l’epopea giudiziaria del film Leone del deserto di Moustapha Akkad la cui visione fu proibita per decenni in Italia (analogamente alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo in Francia); le narrazioni romanzate in recenti testi dei Wu Ming (Timira, Point Lenana). Segnaliamo anche quest’articolo sui campi di concentramento per gli sloveni: http://contromaelstrom.com/2014/01/29/memoria-ricordiamo-i-crimini-del-colonialismo-italiano/. Lo riteniamo interessante non solo perché contribuisce a restituire verità e contesto storico alla vicenda delle foibe, ma anche perché segnala il processo del Tribunale Speciale per la difesa dello stato tenutosi nel 1940 contro 60 sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo in quanto partecipanti “ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato” (Marta Verginella, Il confine degli altri, Donzelli editore, 2008, p. 8).

9 Per un’interessante riedizione si veda il testo Zizek presenta Trockij. Terrorismo e comunismo, a cura di Antonio Caronia, editore Mimesis, 2011. Riportiamo un passo dal testo di Trockij: “Chi di principio ripudia il terrorismo – e cioè ripudia le misure di soppressione e di intimidazione nei confronti della controrivoluzione armata – deve rifiutare ogni idea di dittatura politica della classe operaia e rinnegare la sua dittatura rivoluzionaria”. La concezione trotzkista difende tuttavia solo il terrore espresso dalle masse rivoluzionarie organizzate mentre rifiuta il terrorismo individuale o di gruppo in quanto politicamente inefficace. Ciò peraltro a prescindere dall’approvazione morale o dall’umana simpatia che spesso non viene negata da Trockij al gesto individuale, si veda Massari, Marxismo e critica del terrorismo, Newton Compton Editori, 1979, p. 146 e ss.

10 Il primo e probabilmente più famoso è il “processo contro il centro terrorista trotskista-zinovievista”. Fornisce un approfondimento del periodo in questione il trotzkista Vadim Rogovin, 1937: Stalin’s Year of Terror, Mehring Books, 1998. Del testo si trova una traduzione in italiano all’indirizzo:
http://www.marxists.org/italiano/archive/storico/rogovin/1937terrore/1.htm.

11 Sul tema del terrore atomico non si può non rinviare alle bellissime pagine delle “tesi sull’era atomica” e dei “comandamenti sull’era atomica” di Gunther Anders. L’“angoscia atomica” da egli descritta e auspicata è tuttavia un sentimento positivo che nasce dalla consapevolezza della costante possibilità dell’apocalisse atomica e che spinge ad intraprendere le azioni necessarie per far cessare la “situazione atomica”. Si veda Anders, G. Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino, 1961.

12 L’affermazione riportata in virgolettato è dell’inglese J.M. Spaight, teorico della guerra aerea, citata in V. Giacchè, La fabbrica del falso, Derive Approdi, 2008, p. 120.

13 Come ricorda Chamayou in Teoria del drone, Derive Approdi, 2014, il drone diviene un dispositivo flessibile in grado di coniugare in sé l’indicazione dei soggetti terroristi e la loro eliminazione ed è quindi capace di terrorizzare la popolazione potenzialmente solidale ai “sospetti”. In questo caso avviene l’ennesimo aggiornamento tecnologico che massimizza la criminalizzazione dei “barbari terroristi” oltre a permetterne l’eventuale eliminazione fisica senza minimamente coinvolgere i corpi di militari e forze di polizia.

14 Su questo punto torneremo nel prossimo paragrafo.

15 Solo limitandosi all’esempio Usa, la Scuola delle Americhe ha addestrato dal 1946 oltre 60.000 soldati da adoperare, secondo metodi terroristici, contro i movimenti popolari dell’America Latina. Da quella “scuola” uscirono anche le élites dei vari regimi dittatoriali sudamericani, compreso il Cile di Pinochet. Non dimentichiamo poi che lo stesso Bin Laden così come i Talebani, prima di diventare i Nemici Assoluti degli Stati Uniti, fossero da questi finanziati in quanto alleati nello scacchiere internazionale. Altri esempi di “metamorfosi del terrorista” in V. Giacchè, op. cit., pp. 117-119.

Dante e il canto inedito sulla Valle di Susa

Dante in Val susaLasciata alle spalle ogni cosa diletta per scoprire «come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale», l’esule politico Dante Alighieri, in cammino verso la Francia lungo sentieri calpestati secoli più tardi da altri suoi connazionali, s’imbatté in una singolare avventura mentre transitava per la Valle di Susa.
L’episodio rimasto sino ad oggi sconosciuto diede vita ad un canto inedito della Divina commedia che la Casa Editrice Tabor, animata da Daniele Pepino, ha avuto il merito di pubblicare lo scorso dicembre 2013.
Il canto, collocabile secondo l’editore alla fine dell’Inferno, è il risultato di una «sorprendente visione premonitrice» ispirata da una pozione di «spetialissime erbe» che il sommo poeta non esita a descrivere nel dettaglio, assunta nella Sacra di San Michele presso i monaci che gli offrirono riparo e ristoro curandolo dopo l’arresto e le probabili percosse degli armigeri che, al pari di oggi, presidiavano la valle.
Ironia e brio accompagnano il testo. Una menzione speciale per le note a fondo testo.
Il gioco vale davvero la candela.
Consiglio vivamente il libretto (6 euro). Gli studenti lo portino a scuola.
Buona lettura!

La spetialissima pozione
«Eravi nella nomata pozione di certo aliquanta santoreggia, e della artemisia absinta, e poca digitale e laudano in buona mensura; eranvi di poi li fiori di una particulare spezie di canapa, che dicesi venga dalle lontane Indie, ma che bene forte s’accresce anco nello giardino de’ divoti frati, che spesso l’usano per fare dolciumi, manducati li quali spesse volte li fa visita Nostra Signora la Madonna; eravi di poi una radice genziana, et multi pezzi essiccati del fungo, che trovasi nelli boschi attigui, che chiamasi ammannita, et altri funghi di più piccola fatta, che truovano nelle vicinanze delli armenti su le più alte vette, e serbansi nel miele; et essi anco sono di molto aiuto alle lor preci, imperocché ingollata la giusta dose mai fu vana l’attesa di una divina apparizione. E molto altro ancora eravi, che non riconobbi o non sapria nomare»

Il girone infernale dell’economia capitalistica
«Qual è ‘l distinto atroce
che sulle umane genti farà impero
ti si parrà dinnanzi, e quale croce.

Se tu vorrai, potrai per quel sentiero
giungere al loco che darà recetto
al peggior spergio de lo mondo intero.

Si va parando il sito maledetto
in cui si puniranno un dì coloro
che perdean passione ed intelletto.

Tu dei saper che lo disir dell’oro
presto conquisterà l’umani affanni
tanto da ruinar senno e decoro:

una bieca masnada di tiranni
non curerà se per la sua mercede
a la terra imporrà nefasti danni.

Tanta sarà la brama che li fiede
ch’a curar de’ li conti e del successo
si smarriran da che ragion procede,

e verrà dato il nome di progresso
a ciò che forza fornirà, e stromenti
per mantener l’imperio a quel consesso.

Questi s’affermeranno tra le genti
sviluppando la forza produttiva
che le libererà da fame e stenti;

ma, poi che avranno ‘l mondo che languiva
dotato de li mezzi per avere
quell’essenziale a cui la vita ambiva,

non avendo null’altro da offerere,
per conservare lor social postura
stabiliran ciò che si dee volere.

Fabricheranno merci oltre misura;
per mantenere vivo lo mercato
la terra covriran d’ogni lordura.

Tanto il ciclo sarà automatizzato
che l’accumulazion del capitale
doventerà dottrina dello Stato».

Sotto la chioma niente
«Molto, o mio duca, bramerei sapere
perché di tra gli attrezzi da macello»
dimandai «ve n’è uno da barbiere».

E ‘l duca a me «In questo tristo ostello
tra i magistrati ch’avranno confino
un, più che al resto, baderà al capello.

Sarà procuratore di Torino,
sarà a Palermo, sarà in ogni dove
l’imago sua gli segnerà il cammino.

Se un gesto di Colui che tutto move
lo rimenasse alle stagioni sue,
questi andrebbe a ricercare prove

per indagare Giotto e Cimabue
e patteggiare che lo suo sembiante
dovunque ritraessero amendue;

e quando cadrà al diavolo davante
per saldar su la libra li suoi conti
la frangià sarà il pezzo più pesante».

La polemica sul sabotaggio, quando la memoria aiuta

Guido Crainz, già esponente di Lotta continua negli anni 70 ed oggi docente di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Teramo, saggista e articolista di Repubblica, corre in soccorso del procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli dopo l’appello lanciato agli intellettuali perché si schierassero in difesa delle inchieste dalla procura torinese e dell’accusa di terrorismo lanciata contro i No tav. Lo fa mistificando la storia del sabotaggio, contapponendola ad altre pratiche di lotta, come se fosse separata e non parallela ad altri repertori d’azione. Nulla dice delle accuse esorbitanti mosse dalla procura che individuano condotte terroristiche nella semplice difesa di un territorio. Gli risponde Erri De Luca chiamato in causa nella parte finale dell’articolo. Un non detto soggiace all’intera polemica: la ruggine tra due pezzi della storia di Lotta continua, tra due modi di averla elaborata che si sono contrapposti duramente durante gli anni dell’inchiesta e del processo Calabresi

 

Sabotaggio, quando la memoria aiuta

di Erri de Luca
il manifesto, 15 settembre 2013

Una pratica diffusa che negli anni ’70 produsse bonifiche di ambienti malsani e contratti favorevoli. Uno storico ufficiale, stipendiato per trasmettere storia, che trascura i fatti a beneficio di una sua tesi, commette omissione in atti di suo ufficio. Stabilito questo, non sono uno fabbricastorico ma ho il vantaggio di avere buona memoria. Negli anni ’70 ho fatto parte di una organizzazione rivoluzionaria di nome Lotta Continua che interveniva attivamente nelle lotte di fabbrica, sotto la guida di intellettuali e di operai. Nacque e si ramificò negli impianti industriali del nord. Un paio di strofe di canzoni politiche di allora: «Sabotar la produzione, non c’è altra soluzione» (Canzoniere del Potere Operaio di Pisa). «Pensa un po’, pensa un po’: avvitare due bulloni e il terzo no». Nelle officine di quegli anni si cominciarono a praticare forme di sabotaggio della produzione che rafforzarono enormemente il potere contrattuale degli operai: il salto della scocca, gli scioperi a gatto selvaggio. Il salto della scocca era un’operazione di montaggio non effettuata del singolo pezzo in transito sulla postazione di lavoro. Faceva impazzire i reparti di lavorazione a valle. Sciopero a gatto selvaggio: senza preavviso interrompeva brevemente e a casaccio le lavorazioni di piccole unità, imballando tutta la linea di produzione a monte e a valle. Erano forme di lotta che costavano poco agli operai e molto al padronato. Sono stato operaio in quei capannoni, ho visto, ho praticato. Da quelle interruzioni partivano i cortei interni dentro la fabbrica che andavano a bloccare anche i reparti che continuavano a lavorare. Il chiasso delle officine veniva sovrastato dal frastuono di un corteo di operai che s’ingrossava a torrente finendo in un’assemblea spontanea. Gli operai prendevano così la parola e non la restituivano. I grandi impianti a catena di montaggio erano efficienti ma fragili di fronte a queste nuove forme di lotta. Questa pratica diffusa era un dichiarato sabotaggio della produzione e procurò la grande ondata di lotte operaie degli anni ’70 , vincenti e di massa. Successe così in Italia il più forte decennio di riscatto della manodopera industriale di tutto l’occidente. Quelle lotte massicce per quantità e compattezza produssero contratti di lavoro favorevoli, imponendo aumenti in paga base uguali per tutti, bonifiche di ambienti lavorativi malsani come i reparti di verniciatura. Di recente scioperi a gatto selvaggio sono stati indetti e praticati dai sindacati metalmeccanici degli stabilimenti Indesit di Melano e Albacina. Basta un po’ di memoria di testimone per mettere la parola sabotaggio dentro la più certa tradizione di lotta operaia. Uno storico che si permette di ignorarla è un rinnegato della sua professione.

Sabotaggio, le forme illegali di opposizione. Quando le proteste diventano violenza

Guido Crainz
la Repubblica, 12 Settembre 2013

Forse, davanti alle polemiche di questi giorni sulle proteste contro la Tav, occorre superare il fastidio per il riemergere di retoriche e stilemi che credevamo sepolti con gli anni Settanta. Forse occorre ritornare ancora su discrimini fondanti: su ciò che divide la battaglia quotidiana per consolidare i diritti e la democrazia dalle derive che possono indebolirla o insidiarla. A un primo sguardo è certo facile tracciare il confine fra le forme illegali e violente di lotta e quelle pacifiche e lecite: anche quelle più “estreme”, come gli scioperi della fame portati quasi oltre il limite o quelle forme di dissenso in climi ostili che espongono a ritorsioni – esse sì – violente (come avvenne nelle lotte per i diritti civili nel sud degli Stati Uniti e in molti altri casi). Sarebbe salutare, anche, che fossero molto più diffuse le ricerche sulle potenzialità di forme non violente di lotta anche di fronte a dittature feroci: ha iniziato a farlo molti anni fa Jacques Sémelin per l’Europa occupata dalla Germania nazista (Senz’armi di fronte a Hitler), da noi lo ha fatto anche di recente Anna Bravo muovendosi fra Italia e Tibet, India e Kossovo (La conta dei salvati): e sottolineando la forza dissacratrice dell’ironia, la sua capacità di accendere la potenzialità realmente eversive della fantasia, non dei roghi.
Con altrettanta evidenza, inoltre, la parola sabotaggio evoca sconfitta, debolezza o addirittura impossibilità di esistere del movimento collettivo. Così fu nelle campagne italiane di fine Ottocento ai primi albori del nostro movimento sindacale (che spesso ha nelle campagne appunto la sua origine): erano segnale di debolezza o di impotenza gli incendi dei fienili o il danneggiamento notturno dei raccolti. E lo fu anche il loro isolato riemergere, sconfessato dalle organizzazioni sindacali, all’indomani delle sconfitte del secondo dopoguerra, nel clima della guerra fredda. Per molti versi inoltre il passaggio a forme violente è la negazione, non la prosecuzione della mobilitazione e della presa di coscienza. Agli inizi degli anni settanta, ad esempio, la autoriduzione collettiva del pagamento delle bollette di luce, gas o telefoni fu ampiamente organizzata da comitati di quartieri, organizzazioni sindacali, gruppi di base: alla fine del decennio la possibilità stessa di riprendere quelle forme di lotta fu stroncata dalla pratica leninista di autoriduzione violenta, spinta sino all’esproprio, praticata dai gruppi dell’ “autonomia operaia” (gli stessi che stritolarono le potenzialità dell’ala creativa del movimento del ’77).
Altre osservazioni possono riguardare poi il rozzo pedagogismo giacobino dell'”atto esemplare”: vi è al fondo la sottovalutazione se non il dispregio della capacità di azione autonoma dei cittadini e – sotto altre spoglie – il vecchio mito della avanguardia. A ciò si aggiunse negli anni settanta un altra tragica distorsione. Com’è del tutto ovvio il problema delle forme di lotta si pone in forme radicalmente diverse nelle democrazie o nei regimi totalitari (per non parlare, di nuovo, dell’Europa occupata della seconda guerra mondiale, quando la lotta armata fu integrata dalle forme più diverse di sabotaggio: un modo per estendere, non per restringere la partecipazione alla Resistenza). Il dramma degli anni di piombo iniziò proprio dalla negazione, tendenziale o drastica che fosse, di questa distinzione: in Germania come in Italia nell’ideologia e nella propaganda delle nascenti organizzazioni terroristiche fu centrale l’idea di vivere ormai in uno stato autoritario, se non totalitario, o avviato ad esserlo (intrecciata, naturalmente, al mito della rivoluzione). Da questa convinzione inizia il percorso che porta Giangiacomo Feltrinelli sino al traliccio di Segrate, e anche di questo parla un documento delle future Brigate rosse redatto all’indomani della strage di piazza Fontana.
A ciò si intrecciarono vie in qualche modo “intermedie”: all’inizio del decennio, nel clima della strategia della tensione e in presenza di una gestione rigida (e talora irresponsabile) dell’ordine pubblico, divieti ingiustificati alle manifestazioni favorirono chi tendeva ad “innalzare il livello dello scontro” trasformando i cortei in atti di guerra. Di qui una crescente “militarizzazione” dei servizi d’ordine di taluni gruppi extraparlamentari: e da qui verranno alla fine del decennio, nel declinare delle speranze di trasformazione, non pochi disperati e giovani flussi verso le organizzazioni terroristiche.
È sufficiente evocare quel clima per capire quanto ne siamo abissalmente lontani ma in questa nostra tragedia è iscritto anche l’antidoto più forte, solidamente basato su due cardini. In primo luogo la capacità di alimentare speranza, di contrapporre alle possibili derive la forza e la fiducia nel futuro delle pacifiche mobilitazioni collettive. E al tempo stesso il rispetto intransigente della democrazia, la fermezza nel denunciare ogni abuso anche minimo che possa incrinare la fiducia nello Stato democratico: quel che è successo nel 2001 al G8 di Genova nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto è stato molto più devastante di mille proclami eversivi. Per il resto, a leggere alcune dichiarazioni incendiarie dei giorni scorsi – talora non prive dei toni dannunziani de Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri (1978) – vengono solo in mente alcuni versi ironici di Jacques Prévert: «Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi…».

Per approfondire
Gli angeli e la storia, scritture e riscritture: auando Sofri celebrava l’incompatibilità di Lotta continua con la violenza politica
Emile Pouget e la storia del sabotaggio

L’«amnistia sociale» per tutti quelli (tanti) che criticano il potere

Ci battiamo da anni contro un sistema carcerario fuorilegge, per l’amnistia, l’indulto, insieme a decine di associazioni

Giovanni Russo Spena, il manifesto 12 Settembre 2013

Oggi ci è inibito da larga parte delle sinistre.È inutile precisare,con argomenti e scienza giuridica che Berlusconi non potrebbe fruire delle nostre proposte di amnistia. Ha ragione Bascetta: nel nome del cosiddetto «antiberlusconismo» il merito di ogni questione, ogni principio può essere sacrificato,lasciando campo libero al giustizialismo populista e all’ipertrofia punitiva in un carcere diventato sempre più una struttura classista.
Sento, allora, il dovere di aggiungere la mia modesta testimonianza alle argomentazioni di Pepino, Gianni, Corleone, Gonnella, Romeo. Forse possiamo cogliere l’occasione per squarciare ipocrisie,per aprire, dopo anni di rimozione istituzionale, finalmente, un «dibattito sul diritto penale che vogliamo e sulle modalità di gestione del conflitto sociale». Terreni su cui le sinistre hanno fatto bancarotta e che ritengo, invece, fondativi per la costruzione di una sinistra alternativa. Non sono temi collaterali, da specialisti marginali, così come, ad esempio, non lo è l’organizzazione dei migranti. Ritengo, anzi, che il contesto, con la connessione tra crisi del liberismo, recessione, postdemocrazia (il capitale pretende, e ottiene dalle maggiori forze politiche, una ex democrazia costituzionale) ci induca ad assumere la centralità della campagna per l’«amnistia sociale» (bene illustrata da Romeo sul manifesto qualche giorno fa. Parlo della guerra che il potere ha aperto contro migranti, movimenti, settori sindacali, militanti politici, grumi di resistenza sociale. Vengono applicati spesso, contro ragazze e ragazzi, figure di reato (devastazione,saccheggio) inusuali, che Mussolini pretese per gli oppositori del regime. Correttamente Pepino scrive di un’amnistia che guarda al futuro «perché sia l’anticipazione di un sistema penale diverso che includa i reati che stigmatizzano le persone ma escludendo quelli che destano allarme sociale. Come i reati fiscali». Va combattuto il paradigma impostosi negli anni del «diritto del nemico» (il «nemico migrante clandestino» ne è metafora, per le legislazioni emergenzialiste, ma anche per le ordinanze di tanti sindaci, anche del Pd). Ho vissuto di persona l’amnistia (che Pepino descrive) del’70. Essa da un lato proiettò la sua forza politica sul miglioramento della generale condizione carceraria (è sempre cosi: i provvedimenti di clemenza preparano ed agevolano riforme strutturali), dall’altro lato ricostruì un equilibrio sociale che era stato rotto dalla repressione di stato contro conflitto operaio, agrario, studentesco. Proprio qui siamo ora. Denunce di attivisti sociali, condanne, penalizzazione e carcerizzazione di circa ventimila persone (in quotidiana crescita), colpevoli di lotta di classe, a cui viene impedito il già aspro percorso lavorativo, con applicazione di misure dettate da una logica strisciante, anche negli apparati statali, di «stato di eccezione», di «stato penale» (fogli di via, sorveglianze speciali, ecc.). La Val Susa e tutte le zone di insediamento di discariche, inceneritori, grandi abnormi impianti sono diventate «zone rosse» (a controllo e disciplina militare); e il diritto di resistenza,anche il più aspro, contro la militarizzazione è dentro i principi della legalità internazionale. Le fabbriche in lotta (da Pomigliano alla Irisbus) sono militarmente presidiate. Le lotte per il diritto all’abitare diventano associazioni sovversive. E così via. La guerra giudiziaria contro la critica del potere agita concretamente i mille rivoli carsici nei territori. Con la proposta di «amnistia sociale» ci richiamiamo a diritti costituzionali vissuti, non solo proclamati. Posso permettermi di proporre che anche questo tema sia assunto all’interno dell’importante «via maestra» del 12 ottobre?

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Luciano Muhlbauer, G8 Genova, Marina, Alberto e Gymmi siamo noi

Che cosa è la democrazia? La resistenza in Val di Susa scatena il dibattito

Zitto e taci. E’ la procedura

Marco Bascetta, il manifesto 11 Settembre 2013

VAL DI SUSA. Non accade con frequenza che un conflitto radicato in un territorio circoscritto e incentrato su un oggetto ben determinato (un’opera infrastrutturale come la linea ad alta velocità Torino-Lione) si trasformi in una arena politica in cui emergono , mostrando tutte le tensioni e gli attriti che le attraversano, non poche «grandi questioni».

Prima Gianni Vattimo, poi Erri De Luca e Ascanio Celestini, infine Massimo Cacciari e Giovanni De Luna, una bella schiera di intellettuali si sentono chiamati a prendere posizione non solo su una delle lotte più lunghe, tenaci e partecipate degli ultimi vent’anni in Italia, ma sul suo significato generale quanto alle forme della politica, le prerogative di governanti e governati, le priorità economiche o ambientali e il rapporto tra la legalità vigente e queste priorità. Tutti sembrano comunque concordare sull’inutilità, o quantomeno la scarsa razionalità economica di questa grande opera, considerati i costi, gli effetti ambientali e l’ostilità popolare che la circonda. È già qualcosa. La questione, per Vattimo, De Luca e ora Celestini è il diritto ad opporsi, anche trasgredendo leggi e ordinanze, allo sfruttamento di un territorio da parte di un intreccio di forti interessi politici ed economici che pretendono di agire nel nome di un discutibile «interesse generale». Nella sostanziale asimmetria di poteri che caratterizza la nostra società e la capacità di disporre della qualità delle nostre vite, è difficile dar loro torto.
De Luna, intervistato da «La Repubblica», si limita a ribadire il confine invalicabile tra violenza e non violenza, dimenticando, cosa che uno storico non dovrebbe fare, che la violenza praticata dai o nei movimenti è qualcosa che si produce e alimenta in un contesto relazionale in cui il potere costituito fa la sua parte e non la scelta arbitraria e onanistica di un singolo o di un gruppo. Come vorrebbero lasciar credere quelli che dipingono la Val di Susa come una sorta di palestra per casseurs. Né dovrebbe dimenticare, lo storico, che diverse forme di sabotaggio fanno parte da sempre del repertorio dei movimenti pacifisti e non-violenti. Certo, c’è un problema di gradazione e di consenso, ma è un problema interno alla natura e allo sviluppo dei movimenti con tutti i suoi paradossi e le sue asprezze.
Ma la questione delle questioni la prende di petto il professor Cacciari che, a partire dall’esperienza della Val di Susa, ci rende edotti su cosa sia o non sia la democrazia. La Torino-Lione fa piuttosto schifo, dichiara alla «Repubblica», ma poiché è stata decisa secondo le procedure formali previste, bisogna farla. La democrazia, perbacco, non è una assemblea permanente! Che, nel fare questa affermazione, il professore avesse in mente la tragica fine della Comune di Parigi? La democrazia, invece, quella seria e duratura, sarebbe una sequenza di procedure che ti permette di opporti fino a quando la decisione è presa. Poi ci devi stare. Sparisce in questo discorso il fattore tempo, il mutare dei cicli economici, delle sensibilità e dei rapporti sociali, il progredire del sapere scientifico. E a nessun italiano si può andare a raccontare che le riforme istituzionali, il rinnovo delle procedure e un qualche ripristino della rappresentanza possano, non dico anticipare, ma neanche seguire da presso questi mutamenti. Restano, però, scolpiti nel marmo dei protocolli i poteri dominanti al tempo della decisione e l’obbligo di tutti a rispettarne la volontà. Ahimé, bisogna rassegnarsi, la democrazia è proprio un’assemblea permanente che si esercita però nelle strade poiché non vi sono «sedi opportune» in cui esercitarla. O, meglio ancora, una sequenza di conflitti che mira a render possibile ciò che nella sequenza delle «procedure» non troverà mai spazio.

Per approfondire il dibattito sulla oligarchizzazione delle società cosiddette democratiche

La rivendicazione di Erri De Luca “Sì, ho partecipato anch’io ai sabotaggi dei No Tav”

Quando le parole non bastano. Dopo le dichiarazioni all’Huffington Post e l’intervista di ieri al manifesto, Erri De Luca non demorde e difende la resistenza popolare contro i cantieri della tav in val Susa. «Anch’io ho fatto blocchi stradali», dichiara

Paolo Griseri
la Repubblica 8 Settembre 2013

TORINO — «Un intellettuale deve essere coerente e mettere in pratica ciò che sostiene». Per questo «anch’io ho partecipato a forme di sabotaggio in val di Susa». Così lo scrittore Erri De Luca, in questi giorni al centro delle polemiche, spiega le sue affermazioni sugli attacchi ai cantieri della Tav.

De Luca, può un intellettuale disinteressarsi delle conseguenze delle parole che pronuncia?
«La mia risposta è no. Se poi l’intellettuale è uno scrittore, è bene che conosca il significato delle parole: è il suo mestiere.
Direi di più: l’intellettuale non dovrebbe mai smentire quel che ha detto e scritto ».

Potrebbe cambiare idea per convinzione..
«Certo. Ma io conosco un criterio abbastanza semplice per capire se qualcuno cambia idea per convinzione o per opportunismo. Se uno trae vantaggio da quel cambio di opinione, lo fa quasi sempre per opportunismo. Io cerco sempre di fare le cose che dico, di farle concretamente, intendo. Perché credo che la scrittura non sia sufficiente a esaurire il mio impegno civile».

Esiste dunque una responsabilità dell’intellettuale per quel che dice?
«Certamente, soprattutto in alcune circostanze. Nei regimi dittatoriali dove la parola è impedita, lì una piccola voce pubblica può essere decisiva. Penso alla metafora del ciabattino. Che cosa può fare un ciabattino che sa fare bene le scarpe? Può impegnarsi, al di là del suo lavoro, per far sì che tutti possano avere scarpe. Ecco, l’impegno e la responsabilità dell’intellettuale è simile: occuparsi della libertà di parola per tutti».

In Italia siamo in un regime?
«Certamente no. Da noi la libertà di parola esiste, parlano tutti, parlano tanti. Da noi non è un problema di quantità di parole, semmai di qualità».

Può fare un esempio?
«Penso ad alcuni leader politici. Persone che hanno un grande carisma perché hanno fondato un partito e sono particolarmente ascoltati. Un leader che ha questo ruolo e che istiga all’uso di armi, parla di fucili da imbracciare… Ecco quel leader, a mio avviso, ha una responsabilità innanzitutto nei confronti dei suoi seguaci che possono essere indotti da quelle parole a metterle in pratica. Ma a quelle parole nessuno reagisce, come se fossero normali, facessero parte della fisiologica dialettica politica».

Ci stiamo abituando, mitridatizzando?
«No. Perché se quelle stesse parole non le dice un leader ma un comune cittadino, ecco che scattano le sanzioni. E questo è paradossale perché dalle labbra di un politico pendono milioni di persone. Da quelle di uno come me non pende nessuno».

Parlando degli attacchi ai cantieri Tav, lei ha detto di comprendere alcuni atti di sabotaggio. Ritiene di avere una responsabilità per quel termine?
«Il termine sabotaggio fa parte di una lunghissima tradizione di lotte del movimento operaio e sindacale. Ho fatto una constatazione: in una valle che vive in stato d’assedio e militarizzata per difendere un’opera inutile e dannosa, e dove non ci sono altri modi per farsi ascoltare, si ricorre al sabotaggio. Io non uso le parole a caso. Le parole hanno un peso. Per esempio: il più importante premio letterario di questo Paese è stato vinto da un libro che si intitola: Resistere non serve a niente (di Walter Siti, vincitore dello Strega, ndr). Ecco, io non avrei mai pensato di intitolare un libro così».

Quali altre parole la convincono di più?
«Quelle del mio amico bosniaco, Izet Sarajlic, un poeta che ho conosciuto durante gli anni della guerra quando facevo l’autista dei convogli di aiuti. Lui diceva di essere responsabile della felicità perché con le sue poesie di amore si erano celebrate nozze e dunque era responsabile anche della infelicità. Perciò rimase a Sarajevo a condividere la malora del suo popolo. Da lui ho imparato che un intellettuale deve stare dove la vita è offesa».

Un senatore del Pdl, Giuseppe Esposito, ha scelto il termine boicottaggio. Ha invitato a boicottare l’acquisto dei suoi libri. Che cosa gli risponde?
«Penso che inviti a boicottare un prodotto che non conosce».

Crede che non ci siano lettori del Pdl che acquistano i suoi libri?
«Certo che ce ne sono. Ma non credo che tra questi ci sia quel parlamentare».

Esposito sostiene di non comprendere come una persona della sua sensibilità possa ignorare la sofferenza dei lavoratori del cantiere che subiscono gli attacchi. Come fa a ignorare?
«Io non ignoro, ma inviterei a contestualizzare. E il contesto è quello di una valle che lotta da vent’anni con tutte le sue forze per impedire uno stupro alla sua integrità, subendo uno stato di assedio, esercito compreso».

Lei ha detto che ritiene importante per un intellettuale mettere in pratica quel che dice. Ha fatto questo in val di Susa?
«Certo che l’ho fatto. Ho partecipato ai blocchi dell’autostrada insieme a maestri elementari, vigili urbani, madri di famiglia. Il blocco stradale è certamente un atto di ostruzionismo. Diciamo che è una forma di sabotaggio alla libera circolazione».

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