La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

I dietrologi e la smorfia napoletana, evocare il defunto per spiegare il rapimento Moro

Nella smorfia napoletana il 48 è il morto che parla. Un numero importante che indica il defunto venuto in sogno a suggerire i numeri da giocare. La smorfia non transige, quando il morto parla e si devono puntare i suoi numeri bisogna sempre aggiungere il 48. Lo si deve al morto stesso in segno di gratitudine per il prezioso suggerimento fornito. Non si può proprio mancargli di rispetto altrimenti la puntata è persa e la jattura è assicurata.

Il 48 è divenuto un numero importante anche in un’altra disciplina: la dietrologia. Il morto che parla è decisivo, senza le sue rivelazioni non riusciremmo a sapere nulla del nostro passato, la sua voce è la torcia accesa che ci illumina nel mondo oscuro dei misteri, ci permette di prevedere il tempo che fu. Il morto che parla è la fonte delle fonti, quella che ci risolve ogni problema. Gli storici non lo hanno ancora capito, sono dei ciechi che avanzano a tastoni cercando inutili documenti, prove, testimonianze, riscontri. La voce che viene dall’aldilà ci risparmia da tutte queste fatiche, soprattutto quando le nostre ipotesi non trovano maledettamente conferma. Evocare il morto che parla non costa davvero nulla e poi offre un grande vantaggio perché ci ritroviamo ad essere i soli depositari della sua verità. A quel punto siamo noi che parliamo per lui, lo testimoniano, diventiamo i suoi ventriloqui. Quanto sono belli i morti che parlano, soprattutto perché non possono ascoltarci e sentire quel che noi gli mettiamo in bocca. I morti che parlano hanno il pregio di non poter smentire né confermare. Da quando i defunti ciarlano così tanto i dietologi hanno fatto incredibili scoperte. L’ultima, in ordine di tempo, l’ha riportata Stefania Limiti sul Fatto quotidiano del 20 aprile scorso: Licio Gelli partecipava alle riunioni che si tenevano al Viminale durante il sequestro Moro. Lo avrebbe confidato Bettino Craxi a Sandra Bonsanti – nei decenni passati grande narratrice sulle pagine di Repubblica di misteri, complotti e depistaggi. Dell’intima convinzione che l’ex segretario socialista, scomparso ventuno anni fa nel suo esilio di Hammamet, avrebbe riferito alla giornalista in piazza Navona non esiste ovviamente altra prova se non la testimonianza della Bonsanti stessa.

Il morto che parla, per giunta figura autorevole quando era in vita, è convocato ancora una volta per dare prova della teoria che vorrebbe Gelli stratega occulto della gestione statale del sequestro, emanazione di quel potere invisibile che avrebbe manovrato per liquidare insieme a Moro la possibilità di far entrare il Pci al governo. Che poi la strategia di Moro fosse l’esatto opposto, ovvero contenere la crescita elettorale del Pci, usurarne l’immagine presso i suoi elettori coinvolgendolo nella maggioranza di governo senza offrirgli mai responsabilità nell’esecutivo, utilizzano invece la sua capacità di calmierare l’insubordinazione sociale che ribolliva nel fabbriche e nelle piazze, questa teoria complottista non può che ometterlo. Allo stesso modo non sa spiegare perché il Pci e la P2 coabitarono tranquillamente nel Corriere della sera e i vertici piduisti dei Servizi segreti furono tutti nominati con l’assenso del maggiore partito di opposizione. Circostanze che messe insieme sollevano un unico decisivo interrogativo: i dirigenti di Botteghe oscure erano corrivi o solo degli incapaci?
Le rivelazioni dalla Limiti proseguono sul filo dei ricordi della Bonsanti tratteggiando i contorni di grande e confuso complotto. Una macchinazione che deresponsabilizza le scelte fatte dai gruppi dirigenti delle maggiori forze politiche dell’epoca, allontanando lo sguardo dei lettori dalle acquisizioni storiografiche che ci descrivono le dinamiche reali che agirono in quelle settimane convulse. Il protagonismo assoluto del partito della fermezza, il blocco Pci-Dc (Moro boys in testa) ostinatamente intenzionato a fare muro contro ogni cedimento, margine di manovra, possibilità di negoziato, ricerca di un compromesso, fino a decretare l’inautenticità delle lettere che Moro inviava dalla prigione.
Ancora una volta la figura di Gelli e della P2 vengono convocate attraverso le parole di un defunto per coprire l’operato di questo pezzo importante di ceto politico, la scelta voluta da Pci-Andreotti e Zaccagnini di non convocare il parlamento per lunghi mesi, tanto che nemmeno alla notizia della morte di Moro si aprì una discussione per il timore fondato che un dibattito alla Camere, dando voce ai dissenzienti che chiedevano di trattare, avrebbe scatenato una inevitabile crisi di governo sfaldando il fragile patto consociativo. Solo la pubblicazione del memoriale difensivo di Moro, il testo dattiloscritto trovato dopo l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa nella base Br di via Montenevoso, costrinse il parlamento, ben cinque mesi dopo la morte del leader Dc, a discutere del rapimento e della sua morte.
Si evoca Gelli per coprire Berlinguer che marcava a uomo Zaccagnini, ricondotto immediatamente all’ovile dopo il suo improvviso incontro con Craxi che aveva rotto il fronte della fermezza. Forse perché si vuole far dimenticare l’intimidazione del cugino Cossiga, quando iniziò a circolare l’idea di una possibile mediazione della Croce rossa o l’interrogatorio simil-poliziesco che Berlinguer fece a Craxi per conoscere le fonti che lo avevano portato a ritenere possibile una trattativa. Per i maggiori dirigenti del Pci Moro era morto il giorno dell’arrivo della sua prima lettera a Cossiga e venne seppellito quando arrivò la missiva contro Taviani.
Si convoca la P2 per nascondere le parole ciniche pronunciate contro Moro durante le Direzioni del Pci o il biglietto di Tatò a Berlinguer, «Se […] aderissimo al principio della trattativa per salvare la vita fisica di Moro, in realtà (e senza alcuna garanzia di riaverlo vivo) faremmo credere che anche noi siamo interessati a che Moro mantenga i suoi segreti: avvaloreremmo […] la difesa dello Stato e di una Dc che vogliono tenere nascosti i loro misfatti». La morte di Moro serviva a mantenere intatta la purezza del Pci. 

Agitare le trame aiuta a dimenticare il viaggio di Napolitano negli Stati Uniti nei giorni del sequestro e l’ignavia dei dirigenti democristiani di fronte alle richieste del loro presidente, senza dimenticare la mancate dichiarazioni di Fanfani promesse all’esecutivo brigatista e che fecero precipitare la sorte di Moro. Invece di parlare con i morti, Sandra Bonsanti avrebbe fatto bene a ricordare le pagine del suo giornale uscite durante il sequestro, gli attacchi contro le colombe con gli artigli o l’invenzione delle torture inflitte il prigioniero, argomento sollevato per non dare credito alle parole di Moro che oggi sappiamo esser vere. Dovrebbe spiegare gli editoriali di Scalfari, compreso quello in cui si affermava che la salvaguardia dello Stato valeva la morte di un uomo. La vendetta è un piatto freddo e il direttore di Repubblica fece pagare a Moro gli omissis sulle carte del piano Solo che lo avevano portato in tribunale. 

Se dietro tutto ciò c’era un burattinaio, come Bonsanti e la Limiti si ostinano a dirci, e non le scelte dichiarate e le condotte palesi di un sistema politico arroccato su se stesso, allora bisogna riconoscere che gli esponenti del partito della fermezza furono delle marionette tirate per i fili, Bonsanti compresa.

 

The most up-to-date historiographical research about the Red Brigades

Marco Clementi, Paolo Persichetti, and Elisa Santalena. Brigate rosse: Dalle fabbriche alla «campagna di primavera». Volume I. Roma: DeriveApprodi, 2017. 512 pp; 23.80 €. ISBN: 978-88-6548-177-6

Acknowledgement: the Version of Record of this Manuscript has been published and is available in Terrorism and Political Violence, 7 January 2021, https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/09546553.2021.1864972

Reviewed by Marco Gabbas, University of Milan, Milan, Italy
gabbas_marco@alumni.ceu.edu

With this volume – which is only the first of a multi-volume work – Marco Clementi, Paolo Persichetti and Elisa Santalena gave a crucial contribution to the understanding of a topic as difficult and complex as the history of the Italian Red Brigades (or BR). The three authors consulted a quantitively and qualitatively impressive amount of sources, which go from court records to the records of public investigating commissions; from police and carabinieri sources to those of the secret services; from memoires to interviews to those directly involved. This fundamental volume is certainly bound to remain the definite text on the topic for the forthcoming years.
The merits of this work are evident since the setting the authors clarify in the introduction. One first, important merit is giving Italian “armed struggle the dignity of a study subject.” This dignity, as the authors highlight, has been often denied especially in the cultural area of the Italian Communist Party (PCI). This cultural area has in fact produced over the years many “pamphlets written by essayists with a more than dubious methodology” (6). A second important merit is certainly giving a strong blow to the many conspiracy theories which are sadly still frequent in the discussion of the history of the Italian Red Brigades. In this case also, the authors underline the responsibility of the PCI in giving legitimacy to these theories, which go from labelling the BR “fascist provocateurs” to alleging the involvement of foreign secret services (KGB, CIA or Mossad, depending on taste). In fact, even though such theories existed since the beginning of leftist armed struggle in Italy, there was a “watershed in 1984, when the PCI [, which was] in a strategical crisis after the failure of the historical compromise [with the Christian Democratic Party] […] distanced itself from the majority motion” of the Parliamentary Investigating Commission on the abduction of Aldo Moro. The authors highlight that fighting against conspiracy theories is a lost battle since the beginning. However, they concretely help those who wish to tackle the matter seriously, from a historical point of view.
One third important merit is the authors’ courageous interpretation of the BR phenomenon. In fact, the three authors avoid comfortable explanations, and clarify that the Italian Red Brigades were not “the illegitimate child but an integral part – though a minority – of a decade-long clash whose existence few have admitted in Italy” (12). The authors painstakingly scanned the history of the birth of the Red Brigades, highlighting that they were born in large Northern Italian factories, and reconsidered the importance of the intellectual contributions coming from Trento and Reggio Emilia. The BR were an organization, then, which was born in factories and which could grow thanks to “workers’ opacity,” a concept developed by the British scholar Edward P. Thompson which the three authors relevantly apply to the case of the Red Brigades. Remarkably, this concept was used even by Giuliano Ferrara – who at the time was a leader of the Turin section of the PCI – to describe this phenomenon (56). The authors paint a realistic and merciless portrait of the Italian extra-parliamentary Left, which was fluid and magmatic. The BR were only one of many organizations – though it certainly was the most dangerous and long-lasting – which could be an arrival or a starting point for many militants, who were strongly convinced violence was necessary.
Fourthly, the authors give us new insights on the abduction of Aldo Moro by painstakingly analysing the stance of the PCI. According to the authors, Moro was not insane while being held by the BR, but sought a rational and strategic way to reach a compromise between the BR and the state, so that his life could be spared. The solution was not found, because Moro clashed against a rubber wall in which the PCI had a fundamental importance. The authors talk about “rigor mortis” (436-440) referring to the opposition of the PCI to any negotiation. They sketch a party which was prey of a rigid realpolitik, and which was more interested in saving its presence in the government than in saving Moro’s life. Certainly, the PCI acted in a certain way also because it was anxious to be recognised as a credible interlocutor by the Italian business world and by the United States. PCI representative Giorgio Napolitano played a crucial role in building links with “American friends” (417-435).
Fifthly, the authors make an incredibly detailed description of anti-BR strategies, highlighting a crucial factor which has been largely neglected so far, that is the fundamental use of torture which helped the Italian state to defeat the BR. In fact, the use of torture – which was at first episodic, but which became more and more systematic after the Moro case – was fundamental to extort information on locations and individuals which fundamentally contributed to the state’s victory. In particular, the book tells the case of Enrico Triaca, one printmaker of the BR who was subject to waterboarding (500-511).
By way of conclusion, all scholars and concerned readers cannot but thank the authors for their excellent work. We all wait for the second volume.

Il segreto di Guido Rossa

L’appartenenza all’apparato riservato del Pci e il lavoro informativo all’interno della fabbrica

Il 24 gennaio 1979 Guido Rossa, militante del Pci e sindacalista della Fiom-Cgil all’interno degli stabilimenti dell’Italsider di Genova-Cornigliano, rimase ucciso in un’azione della colonna genovese delle Brigate rosse che inizialmente prevedeva soltanto il suo ferimento. Tre mesi prima della sua uccisione, il 25 ottobre 1978, Rossa aveva denunciato un operaio dell’Italsider, Francesco Berardi, scoperto mentre diffondeva all’interno della fabbrica volantini della Brigate rosse (leggi qui il verbale della denuncia).
Rossa era una figura importante all’interno della fabbrica, portavoce della linea ufficiale del Pci all’interno dell’azienda, svolgeva per conto del suo partito anche un incarico molto speciale. Ecco il ritratto che ne fece un suo compagno di lavoro:
«In fabbrica rappresentava il potere sindacale. Di indole schiva e modesta, non voleva apparire uomo di comando, pur esercitandolo con molta fermezza e autorità. Era conosciuto molto dagli addetti ai lavori, i dipendenti politicizzati e sindacalizzati, ma non dalla massa delle maestranze, stando poco in mostra. Non prendeva mai la parola nelle assemblee generali. Ma dentro il Consiglio di fabbrica, tra i delegati, era un numero Uno; dettava legge, incuteva quasi soggezione ai delegati che lo consideravano portatore del verbo di Enrico Berlinguer e Luciano Lama. Il reparto dove Rossa svolgeva il suo lavoro, l’officina di manutenzione, era la Stalingrado dello stabilimento. Il reparto più rosso, dominatondagli attivisti del Pci. Come una nicchia protetta, nel suo seno, in un sottoscala stava il piccolo laboratorio di riparazione degli strumenti di precisione. Lì, Guido Rossa operava con molta libertà».1

I taccuini
Nel libro che ricostruisce la storia di suo padre, Sabina Rossa racconta una scoperta importante: il ritrovamento di alcuni taccuini che un suo compagno di lavoro e di sindacato aveva conservato per anni: «Ecco, sono tutte cose di Guido. Ero presente nello spogliatoio della fabbrica il giorno in cui, subito dopo l’attentato, la polizia aprì il suo armadietto. Trovarono questi documenti, avevo paura che andassero perduti e li presi in custodia. Li ho conservati fino ad oggi, per quasi trent’anni. Ma adesso è giusto che li abbia tu».2
I notes erano cinque, enormi – scrive Sabina Rossa – «E sulla copertina di ognuno era segnato un anno: sul primo il 1974, sull’ultimo 1978. Per cinque anni, anno per anno, con la sua grafia pulita e ordinata, papà aveva annotato con estrema precisione tutti i fatti sindacali dell’Italsider, con tanto di tabelle zeppe di dati ed elenchi di nomi… […] Per cinque anni aveva annotato, quasi giorno per giorno, con maniacale pignoleria, ogni cosa che avesse a che fare con l’attività sindacale all’interno della fabbrica. Organici. Livelli di avanzamento e anzianità. Qualifiche. Mansioni. Orari di lavoro. Paga. Nuovi assunti, loro provenienza e inquadramento. Ferie. Assenze giornaliere e richieste di rimpiazzo… In cinque anni papà aveva ricostruito il quadro della situazione, dipendente per dipendente. E di ognuno conosceva anche numeri di matricola e di patente, e di alcuni persino l’esito di «visite psicoterapeutiche». Non c’era nulla che fosse sfuggito alla sua attenzione. Ho pensato – prosegue ancora Sabina Rossa – che forse quei notes potevano essere riletti anche da un altro punto di vista. Non dovevo cercare grandi rivelazioni che sarebbe stato impossibile trovare fra quegli appunti. Ma dovevo capire perché mio padre aveva fatto quel lavoro, per cinque anni, con pazienza certosina e metodo scientifico».3

Intelligences di fabbrica, Guido Rossa e la struttura riservata del Pci
Proseguendo il suo coraggioso lavoro di scoperta della attività riservate del padre, Sabina Rossa incontra prima il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo che ebbe un ruolo importante nei nuclei speciali creati dal generale Alberto Dalla Chiesa di cui fu uno stretto collaboratore:
«Dalla Chiesa – spiega il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo».4
La successiva testimonianza di Bisso, raccolta sempre da Sabina Rossa, è rivelatrice della speciale missione che Guido Rossa conduceva in fabbrica:
«[…] Quell’esperienza si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».5

Note
1 Intervento di Pierluigi Baglioni, impiegato dell’Italsider, in Guido Rossa mio padre, Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Bur, pp.149-150, 2006.
2 Ivi, p. 145.
3 Ivi, pp. 145-148.
4 Ivi, p. 141.
5 Ivi, pp. 158-159.

I cento anni del partito che non c’è più/1

Il 21 aprile del 1921 nasceva a Livorno il Partito comunista d’Italia. Nella ricorrenza del centenario si aperta una discussione sulla erdità lasciata da questa forza politica che ha chiuso i battenti trent’anni fa, al congresso di Rimini il 3 febbraio 1991. Questo intervento di Giorgio Amico ne ritraccia con efficacia i passaggi fondamentali dal dopoguerra alla Bolognina

Giorgio Amico
Tratto da http://cedocsv.blogspot.com «A proposito della storia del PCI a cento anni dalla sua fondazione»

Nonostante il mito ancora perdurante della lungimiranza del Partito e dei suoi dirigenti, Togliatti e Berlinguer fra tutti. Quest’ultimo oggetto di un vero e proprio culto che lo vede il punto più alto nella storia del partito, fu invece con la sua politica ondeggiante fra compromesso al ribasso con la Dc e massimalismo verbale, uno degli artefici della crisi e del declino che in pochi anni, complici anche gli avvenimenti internazionali e il crollo dell’Urss, condusse alla tragicomica gestione Occhetto e alla fine ingloriosa del partito.
Un partito colto di sorpresa dal biennio rosso 68-69, incapace di comprenderne la profonda carica innovativa tanto da usarne l’enorme forza propulsiva per tentare di ricucire, con la politica del compromesso storico, lo strappo del 1947 con la Dc e la strategia rivelatasi già fallimentare allora, di un governo di unità nazionale Dc-Pci.
Dunque negli anni ’70 mancarono risposte adeguate alla crisi del centrosinistra e all’ondata di lotte che aveva rimesso in discussione gli assetti tradizionali del potere, ma non fu l’unica occasione. Tutta la storia del Pci del dopoguerra è fatta di occasioni mancate da un partito che mai capì davvero come il Paese stesse cambiando. Nel 47 si escludeva assolutamente la possibile cacciata dal governo, nel 48 si era totalmente convinti della vittoria elettorale, nello stesso periodo si rifiutò il Piano Marshall sostenendo che avrebbe definitivamente affondato l’economia italiana. Analogamente pochi anni dopo si rifiutò più o meno con le stesse argomentazioni il Mec e, prigionieri di una schema che vedeva il capitalismo irreversibilmente in crisi, non si vide arrivare il boom economico. Così si teorizzò fino agli anni ’60 il carattere stagnante e arretrato dell’economia italiana. E non fu solo questione di errori nell’analisi economica. Nonostante il suo esteso radicamento sociale non si capì cosa stesse davvero succedendo nelle fabbriche, vedi la sconfitta Fiat a metà degli anni ’50, il luglio 60 fu una sorpresa e così le lotte del ’62 con la lotta dura degli elettromeccanici e la rivolta di Piazza Statuto denunciate come opera di provocatori. Non si colse il fermentare della rivolta studentesca del 68 e neppure di quella operaia del 69, tanto che la Fiom difese a lungo le commissioni interne contro i consigli di fabbrica e inizialmente considerò primitiva la richiesta operaia degli aumenti uguali per tutti.
Certo il Pci fu uno dei grandi partiti della Repubblica, ma se si guarda ai dati elettorali si vede come dal 1948 alla spallata del 1968 non ci fu una significativa crescita elettorale. E comunque il partito sostanzialmente tenne, ma, come il partito francese, grazie all’enorme capitale accumulato con la Resistenza e soprattutto grazie alla totale subalternità del Psi negli anni ’50 e poi al fallimento del centrosinistra negli anni 60. Tenne, è fu un grosso risultato, e si rilanciò grazie alle lotte, che pure aveva non solo non capito ma anche osteggiato del 68/69. Un rilancio non dovuto ad un ritorno a posizioni più classiste, che anzi il Pci usò questa nuova forza per trattare con la Dc una ripresa della politica di unità nazionale già fallita nel 47, ma perché essendo il principale partito di opposizione questi raccolse naturalmente la grande richiesta di cambiamento espressa dalla contestazione studentesca e operaia. Un fenomeno comune a tutto l’Occidente. Per cui il maggio francese portò al governo i socialisti di Mitterand, la rivolta studentesca tedesca la Spd di Brandt e in Italia, dove il Psi era quello che era, si riversò sul Pci. Quindi nella crescita elettorale degli anni ’70 non c’entra ne l’abilità di Longo ne quella di Berlinguer che al contrario, come Togliatti nel 46/47, non seppero usare questa spinta di massa per ottenere equilibri più avanzati e furono poi travolti dal suo rifluire. Riflusso a cui la politica del compromesso storico e dei sacrifici non fu certo estranea. Insomma se la spinta della lotta partigiana aveva sorretto il Pci per vent’anni, quella del ’68, molto meno forte, già nel 1980 era totalmente esaurita determinando la crisi irreversibile di un partito e di una politica, quella di Berlinguer, del tutto incapace, una volta crollato il falso socialismo sovietico, di fare davvero i conti con la propria storia e trovare una propria identità. In pochi anni si passò dal togliattismo semistalinista del dopo ’56, al compromesso storico, poi all’eurocomunismo per approdare infine alla piena accettazione del neoliberismo incipiente. In questo contesto la Bolognina e quello che ne seguì non poteva essere una sorpresa.

Il viaggio negli Usa di Napolitano in pieno sequestro Moro/3

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«Come sapete, qualche mese fa ho ricevuto e ho accolto in linea di massima l’invito di alcune università a recarmi negli Stati uniti per un giro di conferenze e seminari nella prima metà del mese di aprile». A scrivere è Giorgio Napolitano in una lettera indirizzata il 2 febbraio 1978 alla segreteria del suo partito. Più avanti nel testo il dirigente comunista entra nei dettagli della preparazione e della organizzazione del viaggio:

«In particolare il prof. La Palombara1 alcune settimane or sono mi ha detto di aver parlato personalmente con l’ambasciatore Gardner e di aver ricevuto assicurazioni in proposito. Accenni nello stesso senso mi ha fatto il professor Modigliani, venuto ancor più di recente in Italia. Infine avevo parlato anche io, come alcuni compagni sanno, col primo segretario dell’ambasciata americana, il quale mi aveva solo raccomandato di avanzare per tempo la richiesta del visto. Se voi siete d’accordo, io dunque inoltrerei senz’altro la richiesta del visto e preciserei alle università che mi hanno invitato, il mio periodo di soggiorno negli Stati uniti che dovrebbe cominciare il 4 o 5 aprile e durare una quindicina di giorni. Si tratta infatti di trascorrere due o tre giorni in ciascuna delle tre università che mi hanno invitato (Princeton, Yale, Harvard) e di avere inoltre alcuni giorni per contatti, discussioni ecc. che è possibile avere a New York e a Washington. Per quanto riguarda questa possibilità di incontri fuori dal giro delle università, ho preso accordi con Jacoviello quando è venuto a Roma e posso fare affidamento su diversi altri amici e canali negli Stati uniti. Avremo comunque tempo di parlare nel merito dell’atteggiamento da tenere nel corso delle discussioni che potrò avere negli Stati uniti»2.

Napolitano lavorava da almeno tre anni a questo appuntamento con un impegno e uno zelo personale che lasciano trapelare il desiderio di accreditarsi in tutti i modi come l’interlocutore privilegiato di quell’avvicinamento a Ovest (vedi i ripetuti tentativi di accreditarsi al ricevimento dato da Ted Kennedy durante la sua visita a Roma nel novembre 1976, leggi qui), a cui la segreteria di Berlinguer stava lavorando da quando aveva preso in mano le redini del Pci. Convinto di essere giunto nell’anticamera del governo sulla spinta di una progressione elettorale che sembrava inarrestabile, il vertice comunista riteneva fondamentale, per poter compiere indenne il passo finale, ottenere l’avallo dell’amministrazione statunitense.

«Se il Pci ottiene un attestato di rispettabilità dagli Usa, la vittoria elettorale sarebbe inevitabile»

Già nel 1975 era pervenuto a Giorgio Napolitano un primo invito a recarsi negli Stati Uniti per tenere un ciclo di conferenze promosso dallo stesso Centro studi che poi lo avrebbe invitato di nuovo nel 1978. In quell’occasione non fu possibile dare seguito alla richiesta, in quanto il Dipartimento di Stato gli negò il visto, così come lo negò a Segre, che stava per recarsi a Washington con una delegazione dell’Istituto Affari Internazionali. Per protesta l’intera delegazione (compreso Gianni Agnelli) rinunciò al viaggio3. L’incidente si risolse nel novembre quando Segre e Franco Calamandrei poterono infine entrare negli Usa come membri di una delegazione dell’Unione interparlamentare guidata da Giulio Andreotti, che svolse il ruolo di garante. A individuare la figura di Napolitano era stato un piccolo gruppo di accademici che comprendeva, oltre al citato La Palombara, Stanley Hoffmann di Harvard, Nick Wahl di Princeton e Zbigniew Brzezinski, docente alla Columbia University, esponente della commissione Trilateral e futuro consigliere della Sicurezza nazionale del presidente Carter. Si trattò, sempre secondo le parole di La Palombara, di un primo tentativo di apertura verso l’eurocomunismo rivolto all’amministrazione Ford. Con una lettera alla Casa Bianca, inviata da Wahl e firmata da Hoffmann, «volevamo indagare se l’esecutivo fosse disposto ad adottare un’interpretazione più morbida dei visti d’ingresso per un numero limitato di eurocomunisti europei che consideravamo importanti. Ma il risultato fu, come sappiamo, negativo. Si incaricò di bloccare tutto Helmut Sonnenfeldt, consigliere del Dipartimento di Stato retto da Kissinger»4. La pubblicazione nel 2015 dei Kissinger cables, le comunicazioni tra Henry Kissinger e le ambasciate Usa di tutto il mondo, ha permesso di conoscere meglio i retroscena di questo rifiuto. Era l’agosto del 1975 quando l’ambasciatore a Roma John Volpe scriveva al suo superiore: «Nell’aprile scorso, abbiamo raccomandato di non rilasciare un visto a Giorgio Napolitano, che voleva recarsi negli Stati Uniti per tenere conferenze in quattro università»5. Dalle comunicazioni emerge che della faccenda si era occupato direttamente lo stesso Kissinger il quale, anche se in un cablo all’ambasciatore Volpe qualificava la richiesta «intempestiva», mostrava di avere una lettura complessa delle posizioni interne al Pci. Nel 1976, infatti, scrisse che «i comunisti non sono tutti uguali» e tra questi distingueva Napolitano che «ha confessato le proprie perplessità su come sviluppare il socialismo all’interno di uno stato democratico, tenuto conto della specificità dell’esperimento sovietico»6. La decisione americana, dettata da realpolitik, era legata tra le altre ragioni alla necessità di non fare gesti che legittimassero, e quindi favorissero elettoralmente, il Pci, forza politica in forte ascesa e con ulteriori margini di progresso. «Non c’è dubbio – scriveva ancora Volpe nell’agosto dello stesso anno – che il rilascio di visti per Berlinguer e per altri alti funzionari del Pci giocherebbe a favore della loro rispettabilità democratica agli occhi dell’elettorato italiano. E come ha detto Berlinguer a Moro, “se il Pci dovesse ottenere un attestato di rispettabilità, la vittoria sarebbe inevitabile”»7. Negare il visto d’ingresso avrebbe suscitato delle critiche ma sarebbe stato, concludeva l’ambasciatore: «il danno minore per gli Stati Uniti e per la causa della democrazia in Italia di quanto lo sarebbe lo sfruttamento da parte del Pci del rilascio dei visti come una sorta di presunta indicazione del fatto che il governo americano ha accettato le credenziali democratiche del Pci»8.

18 marzo 1978, è arrivato il visto grazie ad Andreotti
Il 18 marzo 1978 Napolitano annunciò che aveva ricevuto finalmente il visto per gli Usa9. Il viaggio, che sarebbe durato due settimane, era nato da un’iniziativa del Centro per gli studi europei diretto dal professor Stanley Hoffmann dell’università di Harvard. L’intenso programma di incontri, seminari e conferenze era coordinato dal professor Peter Lange, un italianista in contatto con La Palombara. A sbloccare il visto di Napolitano aveva anche contribuito l’intercessione di Andreotti, come avrebbe rivelato egli stesso: «Mi diedi da fare anch’io con l’ambasciata statunitense a Roma perché quel visto fosse concesso. Si trattava infatti di un’occasione importantissima: Napolitano poté spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli anni»10. In una lettera autografa del 9 maggio 2006, conservata presso l’archivio Andreotti, Napolitano appena eletto al Quirinale rendeva omaggio a quel gesto che creò le basi della sua futura carriera istituzionale11:

«Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati Uniti: venni a chiederti consiglio nel tuo studio a Palazzo Chigi, mi assicurasti il sostegno della nostra ambasciata a Washington, mi mettesti in contatto con Dini, a casa del quale potei incontrare il rappresentante del Fondo monetario»12.

Una confidenza importante quella a cui si lasciò andare Napolitano, che lasciava trapelare uno dei segreti del suo viaggio negli Usa, tenuto nascosto ai militanti del Pci. Nella sua nota alla Segreteria Napolitano riferiva che avrebbe «ritirato, ovviamente, il visto e deciso con voi se partire alla data stabilita, in relazione al modo in cui si evolverà la vicenda Moro e la situazione complessiva»13.

Le perplessità della Direzione: chi parte? Napolitano o Berlinguer?
A suscitare perplessità tra i massimi dirigenti del Pci sui tempi del viaggio, il cui inizio era previsto per il 3 aprile, non era soltanto il rapimento Moro o l’esame parlamentare della legge sull’aborto, i cui margini di approvazione erano strettissimi, tanto che la partita si sarebbe giocata con pochi voti di differenza14. Sullo sfondo, molto probabilmente, c’era il ricordato invito a Berlinguer stesso di recarsi negli Stati Uniti (leggi qui), che non a caso chiese a Napolitano di verificare la possibilità di un rinvio. In una seconda lettera indirizzata il 23 marzo a Berlinguer, Natta e al resto della Segreteria, emergono i sondaggi fatti per valutare un possibile ritardo del viaggio: «Secondo il suggerimento datomi da Berlinguer stamattina – scrive Napolitano – ho telefonato oggi pomeriggio a Jacoviello per chiedergli di sondare con gli amici americani la possibilità di far slittare – data la coincidenza con le votazioni sull’aborto – di almeno una dozzina di giorni tutte le date del mio programma di conferenze e incontri negli Stati uniti. Jacoviello mi ha risposto di considerarlo impossibile – dato che ci sono volute settimane per combinare i diversi impegni e fissare le date – e ha aggiunto che mentre, ovviamente, eventuali ulteriori aggravamenti della situazione dell’ordine democratico potrebbero risultare talmente drammatici da giustificare l’annullamento, il rinvio sine die del mio viaggio sarebbe difficile spiegarlo agli amici americani con la faccenda delle votazioni sull’aborto. Se ne potrebbe dare un’interpretazione politica (un ripensamento politico sul mio viaggio) con conseguenze alquanto negative»15. Napolitano voleva assolutamente partire. Lo si capisce dalla cura degli argomenti che sceglie per far comprendere agli altri dirigenti del suo partito quanto un rinvio rischiasse di provocare malintesi diplomatici, che avrebbero azzerato il faticoso obiettivo di allacciare rapporti con le autorità statunitensi ed essere finalmente riconosciuti come una potenziale forza di governo che non avrebbe messo in discussione gli equilibri geopolitici. «Detto ciò – continua la sua lettera alla Segreteria – lascio valutare a voi i due lati della questione: l’annullamento del viaggio (posso anche provare a telefonare direttamente all’americano Peter Lange che ha collaborato alla definizione di tutto il programma, per vedere se è possibile uno spostamento di 12-15 giorni anziché un rinvio sine die, ma l’opinione negativa di Jacoviello mi sembra fondata) e il rischio che il margine di maggioranza nelle votazioni sull’aborto risulti talmente ristretto da rendere decisivo il mio voto. Si può anche – come si diceva stamattina con Natta – verificare l’evolversi della situazione nel corso delle votazioni e prima di quella finale, riservandosi di richiamarmi ove ciò appaia indispensabile (anche se alcuni degli impegni di maggior rilievo politico sono previsti per gli ultimi giorni della mia permanenza negli Usa: in modo particolare l’incontro al di New York è previsto per il giorno 14)»16.

3 aprile, parte Napolitano con una ricca agenda di appuntamenti
La Segreteria comprese le ragioni e il 3 aprile Napolitano lasciò l’Italia per New York. Anche se non era il primo dirigente del Pci a fare ingresso negli Usa, la sua visita costituiva una novità assoluta, come lui stesso sottolineò in un articolo-resoconto scritto al suo rientro e apparso su Rinascita del 5 maggio 1978: «La novità e il significato dell’avvenimento stavano nel fatto stesso del rilascio del visto»17, concesso in deroga alla legislazione (lo Smith Act del 1940 e il Mc Carran Act del 1950) che impediva il rilascio di permessi di entrata per chi era ritenuto una «minaccia» per il Paese (i comunisti tradizionalmente rientravano in quella categoria). «Per la prima volta – prosegue Napolitano – un membro della Direzione del Pci [era stato] invitato in quanto tale negli Stati uniti per illustrare la politica del Pci, e non come componente di una delegazione unitaria, di carattere parlamentare o regionale o comunale»18, come era stato in precedenza per Pecchioli e Segre. Il programma degli incontri era davvero molto fitto19: si andava dai confronti con gli staff dirigenziali e le redazioni dei più noti quotidiani e settimanali, come il NewYork Times, il Washington Post, Newsweek, o i top editors di Time e Fortune a conversazioni private con rappresentanti del mondo degli affari e del mondo politico e culturale fino alle conferenze nelle università di Princeton, Harvard e Yale. Chiudevano l’esperienza alcuni seminari al Centro di ricerca della politica estera della John Hopkins University di Washington e al Centro di studi strategici della Georgetown University diretto da Kissinger nonché importanti incontri con gruppi e centri decisionali come il Lehman Institute e il Council on Foreingn Relations dove, a detta di La Palombara, la visita raggiunse il suo culmine davanti a un uditorio composto da avvocati, banchieri e dirigenti industriali di portata internazionale20.

«Le Brigate rosse non sono marionette di un complotto reazionario ma figli degeneri del marxismo rivoluzionario»
I temi affrontati durante gli incontri furono la politica estera del Pci, la sinistra europea, la politica economica, in particolare la posizione del Pci sull’intervento dello Stato nell’economia e, ovviamente, il terrorismo. Se ne parlò, scrisse Napolitano su Rinascita, fin dal primo giorno nella redazione di Newsweek: «Si discute sulle sue cause, sulla sua dimensione internazionale e sulla rilevanza e virulenza in Italia. Mi sembra che venga apprezzato il nostro impegno a non seguire la troppo facile strada della riduzione del fenomeno a complotto reazionario – le Brigate rosse come marionette, opportunamente travestite, della reazione – e a fare invece i conti con le degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista»21.

A casa di Agnelli in Park Avenue
Pochi giorni dopo a Princeton si registrò un episodio particolare: al momento delle domande un giovane studente, esprimendosi in un buon inglese, dopo aver rilevato contraddizioni nell’esposizione di Napolitano, chiese quali legami restassero ancora tra gli scritti del giovane Marx e la politica del Pci. Alla fine egli stesso si presentò al dirigente comunista: era Edoardo Agnelli, il figlio di Gianni22. La trasparenza impiegata nel caso dell’aneddoto su Edoardo Agnelli non trovò seguito quando si trattò di riferire l’incontro, mantenuto segreto per trentacinque anni, che Napolitano ebbe con il padre, Gianni Agnelli, nella sua casa in Park Avenue, a New York. L’episodio venne rivelato dal protagonista soltanto nel 2013:

«Fui condotto – raccontò Napolitano – da Furio Colombo nella casa dell’Avvocato in Park Avenue. Sapeva che ero in America, voleva conoscermi. Parlammo vivacemente, dei miei incontri americani in primo luogo, ma anche dell’Italia naturalmente. Curioso, attento, gentile. E, di certo, uomo di visione internazionale. Ecco l’impressione che mi fece subito Agnelli in quell’incontro che rappresentava un inedito o quasi, perché credo che fino a quel momento l’Avvocato conoscesse di persona pochissimi esponenti nazionali del Pci oltre a Giorgio Amendola e Luciano Lama, che aveva avuto come controparte sindacale. Così cominciò una conoscenza, nacque un interesse reciproco, e si avviò un rapporto che ebbe poi tappe interessanti e particolari in seguito»23.

Magro bilancio ma pieno accordo sulla linea della fermezza
La missione negli Stati uniti aveva «acceso un interesse» verso il Pci, aperto «canali di comunicazione e confronto» che da lì bisognava percorrere. Fu quello il bilancio del viaggio negli Usa tirato da Napolitano al suo rientro24. Secondo l’esponente comunista, il contatto di notevole ampiezza avuto «con ambienti rappresentativi del mondo universitario e culturale americano, in alcuni dei suoi centri più importanti e più impegnati politicamente» sarebbe stato estremamente utile poiché era convinto «che tra questo mondo e le sedi di elaborazione della politica ci sia comunicazione, non separazione». In sostanza il suo viaggio aveva permesso all’amministrazione Carter di rimettere in discussione diffidenze e pregiudizi verso i comunisti italiani.
Nonostante ciò il favore accademico raccolto era rimasto privo di risultati politici. Il Pci non ottenne la benedizione auspicata, anche perché la situazione politica italiana stava evolvendo velocemente. Alle elezioni amministrative parziali del maggio 1978 il Pci subì un primo segnale di arresto che spinse Berlinguer ad accennare un’autocritica sulla politica del compromesso storico: «Siamo stati generosi forse fino al livello della ingenuità, anche perché a questa nostra generosità e lealtà non ha corrisposto eguale lealtà da parte di altri partiti e da parte della stessa Democrazia cristiana»25. Nel gennaio del 1979 il Pci uscì dalla maggioranza di governo, tardiva decisione che non impedì la durissima sconfitta elettorale del giugno 1979, dove i comunisti arretrarono per la prima volta dalla nascita della Repubblica, perdendo quattro punti percentuale e un milione e mezzo di voti. Addebitare quel risultato alla politica di logoramento che gli americani avevano ricalcato sulla strategia elaborata da Moro, sarebbe riduttivo. Nessuno aveva obbligato il Pci a scegliere la strada del compromesso storico. I comunisti pagavano il prezzo della loro inadeguatezza di cultura politica che il decennio aveva portato in superficie: la scelta di strategie fondate sull’autonomia del politico nel momento di massimo protagonismo dei movimenti sociali probabilmente ne mise a nudo l’incapacità di interpretare quelle domande di radicale mutamento che avevano osteggiato nonostante ne avessero ricavato un vantaggio elettorale alla metà degli anni Settanta. Non a caso, l’unico vero risultato politico incassato durante il viaggio di Napolitano negli Usa fu la totale sintonia sulla strategia della fermezza da mantenere di fronte al sequestro di Moro e più in generale verso i sommovimenti sociali di quel periodo. La politica americana era dettata dalla realpolitik: nel momento in cui il Pci non sembrava più in grado di varcare la soglia di Palazzo Chigi, per gli Usa veniva meno il problema di concedergli eventuali atout, anche se ciò non impedì l’ulteriore approfondimento della «politica dei contatti». Il 20 luglio 1978 l’ambasciatore Gardner, in accordo con il Dipartimento di Stato, sottoscrisse un memorandum che «apriva un nuovo corso, autorizzando un numero molto maggiore di funzionari d’ambasciata a intrecciare rapporti con i membri del partito comunista»26.

La processione dei dirigenti del Pci davanti al cancello di Villa Taverna
Le nuove procedure consentirono inviti formali per esponenti del Pci che ricoprivano incarichi pubblici, dal sindaco di Roma al presidente della Camera, nessuna preclusione nei rapporti con i giornalisti de l’Unità e grande disponibilità in ambito culturale27. Il problema dell’amministrazione Usa restava sempre quello di non dare adito all’equivoco che questo diverso atteggiamento verso il Pci, questo lavoro di conoscenza di una parte d’Italia rimasta fino a quel momento ai margini, potesse essere interpretato come un lasciapassare per l’ingresso del Pci al governo. Per aggirare questo rischio Gardner ottenne da Brzezinski e Vance un’ulteriore concessione: fu stabilito un protocollo segreto che consentiva all’ambasciatore in persona di incontrare in privato alcuni esponenti di primo piano del Pci, come Emanuele Macaluso, Ugo Pecchioli e lo stesso Napolitano. Il primo incontro avvenne a casa di Cesare Merlini, presidente dell’Istituto Affari internazionali, in cui si stabilirà una consuetudine di incontri protetti da riservatezza assoluta. Per evitare fughe di notizie l’ambasciatore riferì direttamente a Carter e Brzezinski senza mai inviare telegrammi a Washington. Napolitano ne parlò solo con Berlinguer28. Nonostante l’impegno assunto, però, fu proprio Gardner – per rispondere a chi negli Usa criticava il suo operato – a far trapelare la notizia sul Los Angeles Times. Oltre ai ricevimenti a Villa Taverna, si riferiva che «Gardner aveva incontrato funzionari del partito comunista soltanto in occasioni private» e si lasciava chiaramente intendere che avesse visto «almeno due dei membri della segreteria del partito: Giorgio Napolitano e Giancarlo Pajetta». L’articolo riportava anche valutazioni politiche sull’esito degli incontri, «apparsi deludenti», inquadrandoli in una strategia che mirava a «incoraggiare e accelerare il processo di occidentalizzazione del partito»29. Il tiro giocato dall’ambasciatore Usa provocò indignate proteste sulla stampa del Pci e un duro editoriale di Eugenio Scalfari, su la Repubblica, con il titolo «L’ambasciatore delle gaffes»30, ma non mise fine alla processione dei dirigenti del Pci davanti al cancello di Villa Taverna. 3/ continua

Fonte: Paolo Persichetti in, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2007

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Note
1 Politologo della università di Yale, tra i maggiori esperti della politica italiana, nel biennio 1980-81 fu capo dell’ufficio culturale dell’ambasciata americana a Roma.
2 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0317, Estero, Lettera di Giorgio Napolitano alla segreteria, 2 febbraio 1978, f. 1152.
3 la Repubblica, 3 aprile 1999.
4 Intervista a Joseph La Palombara di G. Cubeddu, Alla ricerca della solidarietà nazionale, http://www.30giorni.it,4 aprile 2008,  p. 2-3 (http://www.30giorni.it/articoli_id_17702_l1.htm).
5 S. Maurizi, Espressonline, 8 aprile 2015.Vedi http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/04/08/news/quel-comunista-non-deve-entrare-1.52900.
6 Ibid.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, Direzione sezione estero, Stati Uniti, «Nota di Giorgio Napolitano alla segreteria», 18 marzo 1978 (514/S), ff. 2156-57.
10 R. Rotondo, «Napolitano in Usa, così Andreotti mediò», Avvenire, 17 aprile 2013.
11 Giorgio Napolitano fu presidente della Camera dei deputati nella XI legislatura dal 1992 al 1994; ministro dell’Interno nel primo governo Prodi, 1996-1998; senatore a vita dal 2005; presidente della Repubblica con doppio mandato dal maggio 2006 fino al gennaio 2015.
12 Avvenire, 17 aprile 2013.
13 Ibid.
14 La legge 194 che introduceva l’interruzione volontaria della gravidanza venne approvata dalla Camera il 14 aprile 1978, alla fine di una seduta fiume di 36 ore, con 308 voti favorevoli (quelli di Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e di un drappello di democristiani) e 275 contrari (quasi tutta la Dc, Msi, e per ragioni opposte i Radicali e il Pdup-Dp). Un mese più tardi, il 18 maggio 1978, venne approvata in via definitiva al Senato senza subire alcuna ulteriore modifica, con 160 voti a favore e 148 contrari.
15 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, Direzione sezione estero, Stati Uniti, Nota di Giorgio Napolitano alla segreteria, 23 marzo 1978 (533/S), f. 2158.
16 Ibid.
17 G. Napolitano, «Il Pci spiegato agli americani. Taccuino di viaggio negli Usa», Rinascita, 5 maggio 1978, p.32.
18 Ibid.
19 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, f. 2146, A. Jacoviello, l’Unità, 5 aprile 1978.
20 J. La Palombara, op. cit., pp. 5-6.
21 G. Napolitano, op. cit., p. 32.
22 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, f. 2148, l’Unità, 9 aprile 1978.
23 la Repubblica, 13 gennaio 2013.
24 G. Napolitano, op. cit., p. 32.
25 Rapporto di Enrico Berlinguer alla riunione dei segretari regionali, 25 maggio 1978, l’Unità, 26 maggio 1978.
26 N. R. Gardner, op. cit., p. 244.
27 Ivi, pp. 244-245.
28 Ivi, p. 244, Cf. Presentazione del libro di Gardner a Roma, 4 settembre 2004. (https://www.radioradicale.it/scheda/161849/mission-italy-gli-anni-di-piombo-raccontati-dallambasciatore-americano-a-roma-1977).
29 Ivi, p. 259, articolo ripreso dal International Herald Tribune, 20 luglio 1978.
30 la Repubblica, 21 luglio 1978. Si veda anche Un’altra «gaffe» dell’ambasciatore, l’Unità, 22 luglio1978.





Il Pci e gli amici americani /2

«Alla fine degli anni 70 l’ambasciata americana a Roma era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale. A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci». La restituzione del contesto storico sbriciola il principale movente che ha alimentato la letteratura dietrologica negli ultimi decenni – Leggi qui la Prima parte

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Dalla metà degli anni Settanta il Pci e l’ambasciata americana avviano una sorta di «politica dei contatti», una tessitura che passava attraverso relazioni di vario livello, soprattutto riservate, in alcune circostanze molto formali anche di natura pubblica, con esponenti della diplomazia e dell’intelligence statunitense. Eurocomunismo e compromesso storico, le due novità politiche introdotte da Berlinguer, avevano dato al Pci un rilievo internazionale attorno al quale ruotava l’inevitabile attenzione e l’interesse delle cancellerie occidentali per capire meglio i possibili sviluppi della situazione, adeguarsi alla possibile entrata nel governo del più importante partito comunista d’Occidente che alle elezioni regionali del 1975 aveva compiuto un balzo di 5 punti, minacciando il primato trentennale della Dc.

Il rapporto Boies

Proprio nel 1975 fu preparata una relazione, nota come Rapporto Boies, dal nome del primo segretario dell’ambasciata degli Stati uniti a Roma, Robert Boies, estensore del testo e forse funzionario della Cia sotto copertura, nel quale si prospettava l’arrivo al potere nel breve periodo del Pci. L’opinione però era in contrasto con le convinzioni del segretario di Stato, Henry Kissinger, e per queste ragioni non produsse effetti immediati; tuttavia, come ha spiegato il professor Joseph La Palombara, era condivisa da molti1. D’altronde, prosegue La Palombara, «vari personaggi che all’epoca testimoniarono al Congresso sul “caso Italia” ne erano convinti, e le elezioni del 1976 confermarono l’onda lunga comunista. Scrissi in quel momento che m’aspettavo anch’io il Pci al governo, ma non da solo e non senza problemi»2. La Cia sosteneva la necessità di aprire rapporti con il Pci e di individuarne gli interlocutori giusti in vista di un suo probabile accesso al governo e l’analisi di Boies era frutto di un lavoro protratto nel tempo: il 13 agosto 1974, infatti, Sergio Segre, responsabile della sezione Esteri del Pci, aveva già riferito a Berlinguer di alcuni incontri avuti con Boies poco tempo prima del suo rientro negli Stati uniti. In procinto di lasciare l’ambasciata, Boies aveva quindi presentato a Segre il suo successore, Martin Arthur Weenick. Nel corso di quell’incontro – riferisce Segre – il nuovo primo segretario dell’ambasciata Usa aveva ritenuto maturi i tempi di «un dialogo fruttuoso» tra le parti «superando le barriere di questi anni»3.

La politica dei contatti
Prima del 1975, scrive Silvio Pons, Segre era stato il solo esponente del Pci ammesso ad avere rapporti con l’ambasciata americana4, ma dal 1975 anche Luciano Barca entrò a far parte di quella dinamica. E fu proprio Barca a raccontare per primo l’incontro tra un membro della Direzione del Pci ed emissari del governo degli Stati Uniti: «Nel giugno del 75, per iniziativa americana il primo segretario dell’ambasciata americana Weenick, con la motivazione di voler meglio capire la politica economica del Pci, prende contatto con me (ovviamente autorizzato da Berlinguer). È la prima volta che viene stabilito un contatto diretto con un membro della Direzione del Pci, anche se mascherato da interesse per le nostre proposte economiche. In realtà questo interesse non era solo una maschera tanto che al secondo incontro partecipò anche il rappresentante del Tesoro americano. Poiché gli incontri cominciarono ad essere periodici e ad entrare sempre più in questioni politiche decidemmo con Berlinguer di porre a Weenick la necessità di incontrare, prima di una nuova colazione, Giancarlo Pajetta, membro della Segreteria e nostro «ministro degli Esteri». La richiesta spaventò evidentemente l’ambasciatore e il Dipartimento di Stato perché bloccò per circa due mesi gli incontri. Alla fine entrambi accettarono un mio invito a pranzo da Piperno [noto ristorante situato nel Ghetto a Roma. Ndr]. Il primo contatto fu brusco. Pajetta si presenta ed esordisce così: “Non riesco a capire perché un membro della segreteria del Partito comunista – lui era molto conscio del suo ruolo, io l’ho visto anche all’estero, è un vero ministro degli esteri, difensore in tutte le occasioni della dignità italiana – non debba avere paura di incontrare un alto ufficiale della Cia, e un alto ufficiale della Cia debba aver tanta paura di me”. Così è iniziato l’incontro, e Weenick, da buon incassatore, ha risolto tutto sorridendo»5. Alla vigilia del primo incontro Barca aveva cercato di capire se il funzionario dell’ambasciata americana fosse un uomo della Cia: «Mi fu detto di sì e mi fu specificato che come tale era stato espulso da Mosca, a causa dei contatti che cercava con i dissidenti sovietici»6. Che Weenick fosse veramente un agente sotto copertura della Cia incaricato di raccogliere da fonti dirette informazioni sulla evoluzione del Pci non è del tutto certo (ed è anche secondario), e anni dopo Barca ricevette una diversa informazione che situava il funzionario alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Ciò che risulta rilevante sul piano storico è il fatto che due importanti dirigenti del Pci, su mandato del segretario e della sezione Esteri del partito, si incontrarono per diverso tempo con un funzionario che consapevolmente ritenevano essere un membro dell’agenzia di intelligence Usa. L’esito degli incontri fu molto positivo, tanto che poi «sono cominciati ad arrivare altri americani, anche quelli della Exxon tra gli altri, tutti in cerca di assicurazioni nel caso il Pci andasse al governo. Noi a tutti esponevamo la nostra politica: non volevamo nazionalizzare, ma anzi volevamo vendere molte aziende Iri non strategiche. Ciò li tranquillizzava. Molti rappresentanti di gruppi americani, forse perché vittime della corruzione dilagante in Italia e del crescente intreccio tra affari e politica, apprezzarono molto il discorso di Berlinguer sull’austerità (1977) che mostrarono di aver capito meglio della destra del nostro partito»7. Tra i cablo inviati dalla sede diplomatica romana al dipartimento di Stato ce n’è uno del 2 maggio 1978 che riferisce il risultato di una delle conversazioni periodiche che Barca teneva con i funzionari dell’ambasciata, svoltasi il 20 aprile precedente. Vi si può leggere che «l’alto esponente del Pci ci ha detto che il suo partito resta fermamente contrario a negoziati che portino a concessioni ai rapitori di Aldo Moro» e ha «fornito al governo delle informazioni su ex membri del Pci che adesso si ritiene stiano cooperando con i terroristi dell’estrema sinistra». «Sin dal rapimento – sono le parole di Barca riportate nel cablo – nel corso dell’ultimo anno il Pci ha consegnato al ministero degli Interni informazioni anche su alcuni nostri amici che riteniamo stiano partecipando a gruppi delle Br presenti in certe aziende come Sip e Siemens». Alle osservazioni del funzionario che lamenta un articolo di Macaluso apparso su l’Unità nel quale si suggerisce il coinvolgimento della Cia nel rapimento Moro, Barca replica: «La direzione del Pci ha ordinato, a lui e altri, di astenersi dal ripetere tali accuse senza fondamento poiché il Pci non ha alcun elemento che possa suggerire un coinvolgimento della Cia nel rapimento»8.

Carter e “la diplomazia delle conferenze”
Con l’arrivo alla Casa Bianca di Jimmy Carter, nel gennaio 1977, trovò nuovo slancio la «diplomazia delle conferenze» ossia l’idea di ricorrere alla politologia come arma diplomatica, invitando negli Usa gli esponenti dell’Eurocomunismo a tenere dei cicli di lezioni nelle università. Sostenere lo sganciamento dei partiti comunisti occidentali dalla sfera d’influenza sovietica rientrava nella strategia americana, che mirava a rafforzare le spinte di dissenso all’interno del campo socialista. «Prima di fare una richiesta formale all’amministrazione abbiamo comunque sondato l’ambiente», racconta La Palombara: «Cyrus Vance [il nuovo segretario di Stato] lo conoscevo da prima, in qualità di membro del consiglio d’amministrazione della Yale University. “Zibig” Brzezinski, che ora era consigliere per la Sicurezza nazionale, avrebbe già potuto dirci se l’idea era ok». Anche il presidente Carter era informato, spiega La Palombara, «perché Brzezinski non era certamente in grado, da solo, di mutare la politica dei visti ai dirigenti comunisti. A tal fine, inoltre, occorreva un lavoro di preparazione con il Congresso americano, e con i nostri sindacati, Afl-Cio, da sempre ferocemente anticomunisti. Insomma non bastava che Brzezinski bussasse allo studio ovale, soprattutto dopo le elezioni italiane del 1976»9.
 Tra coloro che si attivarono per creare un canale di comunicazione tra la nuova amministrazione statunitense e il Pci troviamo Franco Modigliani, futuro premio Nobel per l’economia, che venne più volte consultato dal Dipartimento di Stato sulla situazione economica e politica italiana. Questi aveva consigliato l’apertura al Pci e alla Cgil, ritenuti i soli in grado di arginare la protesta sociale e far accettare i sacrifici richiesti. Nel corso del 1976 aveva più volte incontrato Napolitano, in quel momento responsabile del settore economico del Pci10.

La diplomazia personale di Giorgio Napolitano
Nel novembre del 1976, dunque prima dell’insediamento ufficiale di Carter, giunse in visita a Roma il senatore Ted Kennedy. Sembrò l’occasione ideale per un incontro con un esponente del Pci, o almeno questa era la convinzione di Napolitano che, sia pur privo di incarichi nella politica estera del partito, fece di tutto per accreditarsi. L’entourage del senatore Kennedy agì in modo prudente e sotto stretta osservazione dell’ambasciata, che riferiva ogni suo movimento al Dipartimento di Stato. Oltre al presidente della Repubblica Leone, al presidente del consiglio Andreotti e al presidente della Fiat Gianni Agnelli, i politici ammessi agli incontri ufficiali furono solo i segretari della Dc, Zaccagnini, e del Psi, Craxi. Il responsabile dell’ufficio Esteri del Pci, Sergio Segre, ricevette un invito unicamente per la cena di cortesia insieme ad altri 30 ospiti. Kennedy non volle che l’evento fosse fotografato e l’ambasciatore Volpe riportò a Kissinger ogni minimo dettaglio, anche la disposizione a tavola degli invitati. In quella circostanza, riferisce Volpe in un documento stilato per il Segretario di Stato, «ci risulta che siano stati fatti almeno tre tentativi per inserire l’esperto economico del Pci, Napolitano, nella lista degli incontri, ma la squadra di Kennedy ha rifiutato»11. Una dimostrazione della pervicacia del personaggio e della propensione a tessere una sua diplomazia personale accanto a quella del partito.

La politica di «non interferenza, non indifferenza»
Nel marzo del 1977 arrivò da parte della nuova amministrazione democratica un primo prudente segnale di cambiamento: il segretario di Stato Vance e il ministro del tesoro Michael Blumenthal stilarono un memorandum per il presidente dove si tracciavano le linee della cosiddetta politica di «non interferenza, non indifferenza», riguardo alla scelte che il governo di Roma avrebbe effettuato nel caso di un coinvolgimento del comunisti nell’esecutivo. Una strategia che modificava l’interventismo praticato da Kissinger durante le presidenze Nixon e Ford. Nello stesso documento si davano indicazioni meno rigide sui visti d’ingresso da rilasciare ai dirigenti del Pci e si fornivano nuove direttive sulla «politica dei contatti» da tenere con gli esponenti di quel partito. Era questo il quadro all’interno del quale doveva operare il nuovo ambasciatore scelto da Washington: Richard N. Gardner, giovane avvocato e professore di diritto internazionale alla Columbia University12. Divisa al suo interno su quelli che sarebbero stati gli sviluppi della situazione politica italiana, l’amministrazione statunitense assumeva una posizione di prudenza, e apparentemente attendista, che in sostanza chiedeva al Pci di fornire le conferme del proprio mutato atteggiamento in politica internazionale, dando prova della propria affidabilità, prima di essere chiamata ad assumere una diversa posizione nei suoi confronti. Gardner aveva il compito di svolgere, come vedremo, questa «politica degli esami», un delicato lavoro di approfondimento e verifica. «Ricevemmo dettagliate istruzioni dal dipartimento di Stato – scriverà nelle sue memorie – che consentivano un approfondimento dei contatti con il Partito comunista», estese anche a funzionari del Pci con o senza incarichi pubblici ma con modalità che non suscitassero «l’impressione che i comunisti avessero improvvisamente guadagnato il favore americano». Fu così che Martin Weenick, il funzionario addetto ai rapporti con il Pci che aveva già contatti regolari con Sergio Segre e «occasionali con altre tre o quattro persone», poté «vedere anche membri di spicco della segreteria del partito, come Pajetta e Napolitano»13.

Ramificazione dei contatti tra esponenti Pci e funzionari dell’ambasciata
L’estensione e l’approfondimento di queste relazioni fu tale che, racconta sempre l’ambasciatore, in un bilancio «della nostra politica dei contatti eseguito due anni dopo risultò che in quel momento l’ambasciata era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale»14. A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci. Un rapporto della sezione politica dell’ambasciata riassumeva in questo modo la situazione: «Riteniamo un successo il programma di contatti. Ampliarli ci ha consentito di avere una più approfondita comprensione del partito e di formulare su di esso giudizi più accurati. Abbiamo avuto abbastanza successo nell’anticipare le sue mosse»15. Una ulteriore conferma di questa ramificazione e della profondità dei contatti tra diplomatici dell’ambasciata e apparato del Pci viene da una nota del 1 aprile 1978 nella quale il segretario della federazione provinciale di Piacenza, Romano Repetti, riferiva sull’incontro avuto con il console americano di Milano, Thomas Fina. Nella stessa occasione il console aveva visto anche responsabili della Cgil. Obiettivo del console era sondare le opinioni dei gruppi dirigenti provinciali, capire quanto la linea del gruppo dirigente centrale trovasse adesione nei vertici periferici. Tra i temi affrontati, al primo posto ci fu il sequestro Moro. «Il Console ha osservato – scrive Repetti – che esso avrebbe in qualche modo avvantaggiato il Pci perché aveva fatto superare alla base comunista lo scontento per la composizione del governo e perché qualificava il nostro partito nella pronta e concorde approvazione delle misure di rafforzamento dell’azione delle forze dell’Ordine e della Magistratura contro la criminalità. Ha manifestato la sua sorpresa per la grande risposta unitaria dei lavoratori nella giornata del rapimento, rilevato che per la prima volta nelle manifestazioni le bandiere rosse erano mescolate con quelle della Dc. Ha chiesto se il nostro partito aveva ordinato agli operai di uscire dalle fabbriche. Ha espresso interesse e meraviglia per quello che gli ho spiegato essere il naturale comportamento dei sindaci in circostanze come queste, cioè di convocare immediatamente riunioni con i dirigenti dei partiti e dei sindacati per concordare e promuovere iniziative unitarie»16. Nel luglio successivo il console approfondì i suoi contatti incontrando «due dozzine di funzionari Pci» della Lombardia arrivando alla conclusione che il «Pci in questa regione ha attraversato dei cambiamenti fondamentali» fino al punto da «far dire a molti responsabili locali sostanzialmente onesti che essi sostengono il modello di democrazia occidentale, inclusa la lealtà a Comunità europea e Nato». Il giudizio tuttavia non era condiviso dall’ambasciata di Roma che in un cablo del 19 luglio parlava di «conclusioni troppo ottimistiche» che a giudizio dell’ambasciatore Gardner non trovavano riscontro tra i dirigenti nazionali del partito17.

«Basta con la Dc», il dibattito in via Veneto
Il 3 marzo Allen Holmes, vice di Gardner e soprattutto Deputy Chief of Mission, ovvero diplomatico più alto in grado in via Veneto – perché Gardner era un ambasciatore di nomina politica – firmò un telegramma di undici pagine intitolato A dissenting of American politicy in Italy nel quale mostrava di dissentire radicalmente dalla politica estera statunitense condotta fino a quel momento in Italia. Il testo metteva informa un’opinione minoritaria ma presente nell’amministrazione Carter, che riteneva ormai superata «l’attitudine interventista» e la convinzione che l’Italia dovesse ancora essere considerata «una nazione a sovranità limitata»18. Il diplomatico suggeriva a Washington una «revisione politica che deve affrontare i fatti», i quali mostravano che l’alleanza con i democratico-cristiani aveva comportato «diversi svantaggi», trasformando l’America in «un fattore della politica interna italiana» che «ci porta a sminuire i fallimenti della Dc e a sopravvalutare la sua capacità di autoriformarsi». Il bilancio, secondo Holmes, era fallimentare: «Dovremmo essere onesti e ammettere che la perpetuazione al potere di un singolo partito non significa avere una democrazia sana» e che se in trent’anni gli Stati uniti non sono riusciti a «rafforzare la democrazia in Italia farebbero bene a lasciar perdere». Per il vice di Gardner andava rivisto «l’immutabile atteggiamento rispetto al Pci che invece sta cambiando»; a suo avviso l’amministrazione Usa era ferma «alle analisi del 1950 che lo descrivevano come il partito dei poveri mentre l’arricchimento della popolazione ha portato a un suo rafforzamento» e «la tradizione rivoluzionaria del Pci non è quella russa, i comunisti italiani non sanno nulla del comunismo russo e i suoi leader sono intellettuali marxisti dell’Ovest non dell’Est». Per il Deputy Chief di via Veneto, «la collaborazione con il governo Andreotti dal 1976, gli atteggiamenti responsabili sull’ordine pubblico, le posizioni moderate sull’economia, la formale accettazione della Nato e della Comunità europea, il discorso di Berlinguer al XIV Congresso del partito e la decisione della Cgil di abbandonare l’Organizzazione internazionale del lavoro [non potevano essere considerate] operazioni di facciata»19. 2/continua

Fonte: Paolo Persichetti in, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2007

th_1dd1d6fe940b0becc9a0299f6069644e_br_cop Recensione

Note
1 Intervista a Joseph La Palombara (Politologo della università di Yale, tra i maggiori esperti della politica italiana, nel biennio 1980-81 fu capo dell’ufficio culturale dell’ambasciata americana a Roma) di G. Cubeddu, Alla ricerca della solidarietà nazionale, http://www.30giorni.it,4 aprile 2008, p. 3 (http://www.30giorni.it/articoli_id_17702_l1.htm).
2 Ibid.
3 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 080, Estero 1974, f. 401.
4 S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, 2006, cit., p. 50.
5 L. Barca, Il Pci e l’Europa, intervista rilasciata a Paolo Ferrari, «Menabò di etica e economia impresa», 20 giugno 2004, (http://www.eticaeconomia.it/intervista-al-senatore-luciano-barca/), scaricato il 26 aprile 2016), ma anche L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci, Rubettino Roma, 2005, vol. II, pp. 601-603.
6 Ibid.
7 Ibid.
8 M. Molinari, Governo ombra. I documenti segreti degli USA sull’Italia degli anni di piombo, Rizzoli, 2012, p. 109-112. Barca riferisce anche che Macaluso «è stato rimproverato per non aver informato il partito sul coinvolgimento di una figlia acquisita in un gruppo di estrema sinistra». Si trattava di Fiora Pirri Ardizzone.
9 J. La Palombara, Alla ricerca della solidarietà nazionale, Op. cit. p. 3.
10 F. Modigliani, L’impegno civile di un economista, a cura di Pier Francesco Asso, Protagon – Fondazione del Monte dei Paschi di Siena, 2007, pp. 35-37, cit. in P. Chessa, L’ultimo comunista. La presa del potere di Giorgio Napolitano, Chiarelettere, Roma 2013, p. 140.
11 la Repubblica, 8 aprile 2013, «Quell’incontro con Napolitano che Ted Kennedy rifiutò tre volte».
12 R.N. Gardner, Mission Italy, Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004 Italy, cit.
13 Ivi, p. 124. Cfr L. Barca, Il Pci e l’Europa, intervista rilasciata a Paolo Ferrari, «Menabò di etica e economia impresa», 20 giugno 2004, (http://www.eticaeconomia.it/intervista-al-senatore-luciano-barca/).
14 R.N. Gardner, Mission Italy, cit., p. 125.

Maggio 1978, il viaggio mancato di Berlinguer negli Usa /1

berlinguer-unita-eccociNel luglio del 1977 la nuova amministrazione Carter autorizza l’apertura di un ufficio di corrispondenza de l’Unità a Washington. La direzione del giornale in accordo con quella del Pci inviò sul posto un giornalista di provata esperienza, Alberto Jacoviello, che oltre al ruolo di corrispondente svolse nei fatti anche quello di ambasciatore del Pci in ambienti accademici e politici1. L’ambasciatore Usa in Italia, Richard Gardner, rivendicò per sé questo passo: «Fin dai miei primi mesi come ambasciatore ero riuscito a convincere Washington ad approvare l’apertura di un ufficio dell’“Unità” nella capitale statunitense»2. Un lavoro che cominciò a dare presto i suoi frutti: il 18 novembre 1977 giunse alla sezione Esteri del Pci una lettera dal Dipartimento di scienze politiche dell’università di Yale. Su sollecitazione della professoressa Yasmine Ergas, intenzionata a tradurre il libro di Enrico Berlinguer, La politica internazionale dei comunisti italiani3, il professor Joseph La Palombara4 chiedeva se il segretario del Pci fosse disponibile a scrivere una prefazione per la traduzione americana. La missiva era in realtà un buon pretesto per sondare nuovamente le intenzioni del segretario comunista sulla possibilità di un suo viaggio negli Stati Uniti. La Palombara chiedeva anche se Berlinguer potesse prendere in considerazione un invito, del quale non abbiamo però altra fonte o conferma, formulato un po’ di tempo prima dalla sua università per recarsi a Yale come «Chubb Fellow», una posizione di prestigio per i conferenzieri propria della Yale University. Questa posizione, proseguiva La Palombara, «è la formula con la quale Santiago Carrillo è stato qui questa settimana e sono certo che potrà dire che è una formula ideale»5. 

Invitato per un ciclo di conferenze, il segretario dei comunisti spagnoli Santiago Carrillo era giunto a Yale quattro giorni prima, il 14 novembre1977, tenendo una serie di incontri durante i quali aveva evitato di presentarsi come «ambasciatore dell’eurocomunismo» per non irritare eccessivamente il Pcus. Nonostante questa precauzione riuscì lo stesso a suscitare scalpore, in Spagna e in Europa, dichiarando – senza aver prima consultato nessun altro dirigente del suo partito – che il Pce non era più «leninista». L’affermazione colpì favorevolmente Brzezinski, il quale compilò una sua personale classifica di affidabilità, ritenendo i comunisti italiani e francesi destalinizzati, a differenza dei portoghesi, ma ancora troppo leninisti6. Nel resto della sua lettera, La Palombara spiegava di non voler minimizzare «i problemi concernenti le norme e la realizzazione di questo tipo di visita […]. Naturalmente ci vorrà un certo tempo, una considerevole riflessione ed una accurata preparazione per sistemare tutto in modo che sia soddisfacente per Berlinguer. Il mio parere è che tale visita potesse coincidere con l’uscita qui del libro di Berlinguer. Per favore, può seguire questa questione e farmi sapere quale sia il Suo pensiero per risolverla?»7. 

La lettera di La Palombara ha una indubbia rilevanza storiografica: scopriamo infatti che erano ben due i dirigenti del Pci invitati negli gli Stati uniti. La circostanza solleva interessanti interrogativi poiché il visto finale lo ottenne solo Napolitano, responsabile della politica economica del Pci, e non il segretario generale Berlinguer. La proposta di La Palombara si arenò perché un secondo invito per tenere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti programmato per il mese di maggio 1978 pervenne a Berlinguer l’8 febbraio 1978 da una seconda sede, la New York University. La lettera, indirizzata al responsabile dell’ufficio Esteri del Pci Segre, era firmata da Norman Birnbaum, sociologo dell’Amherst College ed esponente dell’ala sinistra del partito democratico statunitense. L’invito, era stato preceduto da un incontro a gennaio con lo stesso Segre8. Secondo Pons, che dedica alla vicenda un succinto commento, il viaggio di Berlinguer non ebbe luogo «forse a causa dell’affare Moro»9. Se è probabile che l’esito mortale del sequestro e gli effetti che produsse sul quadro politico abbiano indotto Berlinguer a rinunciare al viaggio, dagli archivi del Pci emergono anche segnali di una certa prudenza verso l’invito di Birnbaum. 
Franco Calamandrei, senatore e membro della Commissione esteri, che ebbe modo di incontrare l’universitario americano il 19 gennaio 1978, scrisse in una relazione inviata al partito che il docente era stato «indicato fra i tanti più o meno collegati con la Cia»10. Una voce, più che una informazione, fin troppo generica ma forse sufficiente per consigliare prudenza. Anche altre circostanze invitarono alla cautela, come la collocazione politica del docente, molto critica nei confronti dell’amministrazione Carter, situazione che poteva sollevare problemi di opportunità diplomatica per una viaggio così delicato. Resta senza risposta, invece, l’esito infruttuoso dell’invito di La Palombara e a oggi non sappiamo se fu una scelta autonoma dell’amministrazione Usa, che ritenne di selezionare l’esponente del Pci considerato più affidabile (Giorgio Napolitano), oppure di una decisione interna al gruppo dirigente comunista. 1/continua

Leggi qui la seconda puntata

Fonte: Paolo Persichetti in, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2007

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Note
1 Pasquale Chessa, L’ultimo comunista, Chiarelettere, 2013, cit., p. 129.
2 R.N. Gardner, Mission Italy, Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004, p. 244.
3 E. Berlinguer, La politica internazionale dei comunisti italiani. 1975-76, Editori Riuniti, Roma, 1976.
4 Politologo della università di Yale, tra i maggiori esperti della politica italiana, nel biennio 1980-81 fu capo dell’ufficio culturale dell’ambasciata americana a Roma.
5 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0310, 1078 Esteri, f. 1185. L’originale in inglese della lettera si trova nel microfilm 0310, f. 1184.
6 l’Unità, 16 novembre 1977.
7 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0310, 1078 Esteri, cit.
8 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Esteri lettera 8 febbraio 1978, b. 2477.
9 S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, 2006, cit., p. 135.
10 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, 1978, Segreteria, Microfilm 7801, f. 0087, citato in P. Chessa, L’ultimo comunista, Chiarelettere, 2013, cit., p. 139.

Quando i giudici passeggiavano negli uffici di Partito

Nel 2017 Umberto Contarello, segretario alla fine degli anni Settanta della Federazione giovanile comunista di Padova, divenuto uno sceneggiatore di successo legato da stretta collaborazione al realizzatore Paolo Sorrentino, rivelava in una pagina Fb il retroscena che aveva preceduto la sua testimonianza in aula al processo 7 aprile

Cottarello

«Questa è una cosa molto delicata.
 Lo è di per sé e lo è perché mi riguarda personalmente e perché ho capito che non renderla minimamente pubblica ora, sarebbe una reticenza a me intollerabile.
 La faccenda attuale, che sembra irrisolvibile, è la totale perdita di confini tra magistratura, informazione, politica. Ormai non vi è più alcun confine nettamente tracciabile, siamo un paese che ha vilipeso uno dei principi fondamentali di un sistema democratico.
Vengo a me e all’aspetto delicato. Mi sono chiesto a lungo perché questa mostruosità non riusciva a entrarmi dentro e a farmi terremotare come altre questioni. Perché il mostro non mi ha mai realmente terrorizzato? Perché, a partire da generiche posizioni garantiste, scialbe e di maniera, non mi ha sollevato la rabbia che ho espresso frequentemente? 
Lo so perché, perché mi hanno insegnato, a ventidue anni, che questi confini non esistono.
 L’episodio originario si svolge a via Beato Pellegrino, a Padova, alla vigilia del processo 7 Aprile.
 La storia ha ormai stabilito il ruolo fondamentale nella difesa del paese e di quella città, dallo squadrismo di para-semi-pre-terrorista.
 Io ero segretario della Federazione Giovanile Comunista e il Pm che istruiva quel processo trascorreva parecchio tempo nei locali della Federazione. Un giorno, essendo io nel processo chiamato a testimoniare contro Autonomia Operaia anche nel ruolo di vittima, vengo convocato nell’ufficio dell’allora segretario cittadino del partito dove trovo appunto il Pm del processo. Senza alcun preambolo, e senza alcun imbarazzo, mettiamo a punto un brogliaccio, assolutamente veritiero nella sostanza, che avrei dovuto imparare a memoria e che mi doveva servire per sostenere l’interrogatorio.
 Così feci (non voglio dire nulla in merito allo stato psicologico) e ricordo però come una icona dell’incredibile entrare nell’aula e vedere il pm con la toga sulle spalle rivolgersi a me secondo l’impersonale linguaggio. 
Chi era? Questo ricordo mi chiesi. Dove mi trovavo? Ero lì per una causa sacrosanta ma avvertivo oltre le urla che uscivano dalle gabbie degli imputati, qualcosa di straniante. Ricordo la sensazione di una comunicazione spuria, falsa, indecente, nascosta. Ora capisco, ora so, oggi, di essere stato allevato dal mio partito in una opaca, moralmente sostenibile e civicamente orripilante commistione tra Stato e Partiti. 
Un Giudice, perché un Pm lo è, non istruisce un ragazzo di ventidue anni in un ufficio di partito su come è più efficace esporre una deposizione davanti a se stesso. Ora so perché la storia di questa fetida commistione, con l’aggiunta dell’informazione, non mi inferocisce. Perché nasce dentro di me, nei miei fondamentali di cultura civica. Si dice, ed è vero, che il PCI fu scuola di vita, che insegnò a generazioni cose meravigliose, ma sarebbe il caso che altri e con ben altro nome, ammettessero che la sinistra italiana non è realmente garantista, non lo è dentro come è antirazzista e egualitaria, perché insieme a me, molti altri, di quella generazione, imparammo che i giudici passeggiano negli uffici di un Partito».

Queste dichiarazioni ebbero un seguito: infuriato per la ricostruzione dell’episodio il procuratore Guido Calogero, il Pm che, secondo la ricostruzione fatta da Contarello, aveva orchestrato la testimonianza concordando modi e contenuti della deposizione negli uffici della federazione padovana del Pci  ha querelato Contarello che ha fatto marcia indietro parlando di «scherzi della memoria». Della “ritrattazione” di Contarello ha successivamente scritto Ernesto Milanesi sul manifesto, nel gennaio 2018, raccontando come «nello stesso modo social lo sceneggiatore da Oscar si fosse rimangiato lo “scherzo della memoria”, ottenendo una raffica di insulti da Flavio Zanonato, padre-padrone del Pci-Pds-Ds ora eurodeputato dopo un ventennio da sindaco. Sempre Milanesi raccontava di altro «ricordo» di Contarello passato sotto silenzio: il 17 novembre 2011 aveva già scritto on line di Pecchioli, Folena e Longo, ma anche del faccia a faccia con Calogero prima della deposizione in tribunale. «Arriva con la toga sotto braccio che mi pare un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo…».

Moro e quella concitata sera del 15 marzo 1978

296100968_10224737736284367_8248193915251431220_nPer capire il comportamento politico tenuto dalle maggiori forze politiche nei giorni del sequestro Moro bisogna osservare con attenzione quel che avvenne la settimana precedente, quando la lunga trattativa condotta da Moro per il varo dell’ennesimo governo Andreotti giunse a termine. Con una maestria incredibile, dopo aver estenuato gli emissari del Pci, Moro con colpo di mano finale cambiò la carte in tavola a tempo ormai scaduto cancellando dalla lista dei nuovi membri del governo i tre ministri indipendenti di sinistra che il segretario della Dc Zaccagnini e il primo ministro incaricato Andreotti avevano negoziato con il Pci. Tempo prima, all’ambasciatore americano Richard Gardner, il leader Dc aveva spiegato di ritenere «necessario guadagnare altro tempo. Ci sarebbe voluto almeno un anno per creare un clima elettorale in cui il Pci avrebbe subito una pesante sconfitta e la Dc una netta vittoria. Il trucco stava nel trovare un modo per tenere il Pci in una maggioranza parlamentare senza farlo entrare nel Consiglio dei ministri». Nei tre precedenti incontri che si erano tenuti lungo tutto il 1977, Moro aveva spiegato al diplomatico Usa che da parte democristiana non c’era mai sta la volontà di condividere il potere con i comunisti, ma che la situazione economico-sociale e la forza elettorale che avevano raggiunto imponevano delle concessioni. Non potendo andare ad elezioni anticipate, che avrebbero rischiato di rafforzare ulteriormente il Pci, bisognava mantenere le redini del governo, aprendo ai comunisti l’ingresso nella maggioranza e coinvolgendoli nella elaborazione di un programma di governo senza concedere loro alcun ministero. Una strategia rivolta ad impegnare il Pci nella difesa dello Stato avvalendosi della sua capacità di fare argine contro la protesta sociale

Moro scorta«Quel mercoledì ero stato quasi tutta la serata col presidente. I comunisti contestavano che il governo era stato fatto col bilancino, assecondando le pretese di tutte le correnti Dc. Moro era convinto che non si potesse fare altrimenti, che solo a quelle condizioni la Dc poteva accettare che i comunisti entrassero nella maggioranza. A un certo punto mi disse: “Il Pci deve sapere che può essere solo così”». Tullio Ancora, consigliere di Aldo Moro, incaricato di tenere i rapporti con Botteghe oscure1, racconta in questo modo l’ultima sera di libertà del Presidente della Dc nello studio di via Savoia 88, base operativa della sua corrente, dove si riuniva con i suoi fedeli collaboratori. Un appartamento di 240 metri quadri, sette stanze e sei armadi blindati nei quali conservava documentazione di varia natura, anche dossier – si scoprì dopo la sua morte – di proprietà dello Stato (e che, dunque, non dovevano trovarsi lì). Fascicoli che decenni dopo richiesero mesi di lavoro alle Commissioni incaricate della stesura di un inventario. Tullio Ancora aggiunge: «Andammo avanti a lavorare fino alle 22. L’ultimo incarico che mi diede Moro, a tarda sera, fu di avvertire Berlinguer che, al di là delle perplessità, quella lista la dovevano accettare così com’era, altrimenti saltava il governo. Mi incontrai con Barca di notte, ma prima di quel messaggio a Berlinguer, all’indomani, arrivò la notizia del rapimento e dell’uccisione della scorta»2. Congedato Ancora, Moro si attardò ulteriormente rimanendo a parlare con il suo collaboratore Nicola Rana: «Io e l’onorevole Moro la sera del 15 siamo rimasti a chiacchierare all’uscita di via Savoia fino alle 23-23.30 proprio perché Moro diceva: “Rana, mi raccomando, domani, non appena finiamo…”. Avevamo le tesi di laurea da discutere il 16 mattina, ragion per cui Moro aveva deciso di fare un passaggio alla Camera, di sentire il discorso di Andreotti e poi per le 11 di essere all’università, dove avevamo 12 allievi da laureare»3.
Secondo alcune testimonianze, intrattenersi fino a tardi nello studio di via Savoia era per Moro una consuetudine. Anni dopo Francesco Cossiga rivelò che questa sua abitudine era un modo per tenersi lontano dalle tensioni familiari4, ma quella sera del 15 marzo la famiglia non c’entrava nulla, era in ballo il futuro del nuovo governo monocolore guidato da Andreotti. I segnali di forte insofferenza che stavano montando tra i dirigenti comunisti preoccupavano il dirigente democristiano perché avrebbero potuto ripercuotersi in parlamento, privando il nuovo esecutivo del voto di fiducia del Pci.

Incontro nella notte
Anche Luciano Barca5, che nelle settimane precedenti aveva preso parte a due incontri riservati tra Moro e Berlinguer, ha raccontato quel che avvenne quella lunga sera. A mezzanotte squillò il telefono di casa. All’altro capo del filo c’era Ancora che voleva vederlo subito nonostante l’ora tarda. I due abitavano vicino e si vennero incontro a metà strada. Barca prese appunti tenendo il foglio su un cofano d’auto6: «Moro è preoccupato delle riserve che sono state formulate dal Pci alla lista del governo e fa appello a Berlinguer affinché non si riapra il dibattito che faticosamente i gruppi parlamentari Dc hanno appena chiuso. […] Decido che è inutile svegliare Berlinguer (che tra l’altro non ama parlare per telefono e in sedi non proprie: tutti i miei resoconti e tutte le discussioni sulle risposte da dare hanno avuto come unica sede il suo ufficio di Botteghe Oscure, spesso con la partecipazione di Bufalini o Natta) e batto a macchina l’appunto per consegnarglielo al mattino»7. L’incontro quel mattino non ci fu, quel messaggio giunse a Berlinguer molto più tardi. La notizia dell’azione di via Fani modificò radicalmente la situazione. Racconterà Berlinguer: «Mi trovavo nella sede del gruppo comunista alla Camera, nella stanza dell’onorevole Natta, quando, intorno alle 9 e un quarto entrarono per darci la notizia prima il giornalista Angelo Aver, di “Paese Sera”, e immediatamente dopo l’onorevole Di Giulio. Entrarono successivamente altri compagni, altri collaboratori. Dopo una brevissima consultazione, decidemmo di recarci immediatamente a Palazzo Chigi dove trovammo che erano già convenuti o stavano convenendo numerosi esponenti politici e ministri. In quel momento, nelle stanze di Palazzo Chigi c’era una certa confusione»8. Fu dunque la circostanza eccezionale del rapimento, come si può leggere nelle parole di Giorgio Napolitano tenute in apertura della riunione di Direzione del 16 marzo, che spinse il Pci a tralasciare ogni riserva sulla composizione del governo e votare la fiducia: «Nella riunione di emergenza avvenuta stamane, poco dopo le 10 tra il Presidente del ConsiglioAndreotti ed i Segretari dei partiti dell’arco democratico, si è convenuto di accelerare all’estremo tutto l’iter della fiducia per fare in modo che il governo la ottenga entro la nottata dai due rami del Parlamento, per esplicare i suoi compiti gravi e delicati con pienezza di poteri. […] Berlinguer farà un intervento molto breve, sotto i 30 minuti concordati, nel quale darà risalto alle questioni dell’emergenza, quella più generale e quella di punta ora, e farà appello alla solidarietà democratica»9.
Si trattò di una improvvisa accelerazione politica che nel giudizio di alcuni storici è la prova di come in quei giorni si produsse «un’adesione comunista, per molti versi definitiva, alle istituzioni della democrazia italiana»10. Una valutazione analoga venne anche da Mario Moretti, che nel libro intervista con Rossanda e Mosca riconobbe la propria sorpresa davanti al livello di integrazione istituzionale ormai raggiunto dal Pci. I brigatisti, sbagliando, ritenevano che l’operazione Moro avrebbe suscitato una crisi difficilmente gestibile all’interno del Pci, favorendo uno scollamento tra i vertici del partito e una base che aveva mostrato segni di insofferenza di fronte alla strategia del compromesso storico11. Anche Moro – racconta sempre Moretti – all’inizio della sua prigionia «sta a vedere quel che succede, esattamente come noi. E quel che succede è sorprendente, sconvolgente. Anche lui ha bisogno di pensarci. [Per questo rimarrà] prima sorpreso, poi incredulo, sconcertato, irritato. Sempre lucidissimo però […] convinto che il blocco si smuoverà da quella chiusura solo se la Dc avrà un’iniziativa, si muoverà per prima. E comincia la sua battaglia politica con il suo partito»12.

L’intransigenza di Moro e la rabbia cupa del Pci
L’ingresso del Pci nella nuova maggioranza di governo, dopo la difficile parentesi del «governo delle astensioni»13, era stato pagato con un alto prezzo politico proprio a causa della rigida posizione di Moro. Negli ultimi giorni che precedettero il 16 marzo: «si chiarì che nel nuovo esecutivo non sarebbero mai stati inseriti né esponenti di altri partiti[…] né “tecnici di area”, come richiesto dai repubblicani, malgrado i tentativi in questo senso di Andreotti»14.
Dopo estenuanti trattative, la lista dei ministri era stata resa pubblica alle 21.00 di sabato 11 marzo. Alle 17.00 il presidente del Consiglio incaricato si era recato al Quirinale per sciogliere la riserva, ma c’erano volute ancora tre ore di negoziato per riempire le ultime caselle. Nonostante gli impegni assunti durante le trattative il monocolore democristiano si riproponeva senza novità: una tradizionale compagine suddivisa rigorosamente per correnti, secondo criteri del passato: 13 dorotei, 7 fanfaniani-forlaniani, 6 morotei, 6 forzanovisti, 4 basisti, 4 andreottiani, 3 del gruppo Rumor-Gullotti, uno per Colombo: Il «ministero delle anime morte» titolava un editoriale de «la Repubblica» il giorno dopo15. Non una delle richieste avanzate dal Pci, che pure lo stesso Andreotti, con Zaccagnini, avevano appoggiato, era stata accolta e ciò per una precisa volontà di Moro, che per garantire l’unità della Dc e fare fronte ai veti del Psdi aveva corretto la lista dei ministri reintroducendo nomi di esponenti politici democristiani per nulla graditi ai comunisti. Una sorpresa amara per Botteghe Oscure, che troppo presto aveva dato per vinta la partita. Completamente spiazzato apparve, infatti, il commento positivo di Natta apparso su «l’Unità» del 12 marzo, dato al giornale prima che venisse diffusala lista ufficiale dei ministri: «Pur nei limiti del monocolore, noi abbiamo ritenuto l’opportunità della presenza di personalità indipendenti di prestigio e della corrispondenza della compagine governativa alla esigenza di impegno, di capacità operativa e di coerenza con lo sforzo eccezionale e con la solidarietà occorrenti. Mi sembra anzi che questa sia la garanzia prima di un rapporto corretto e positivo tra governo e maggioranza, tra indirizzo ed esecuzione»16.
Di fronte al fatto compiuto il commento di Chiaromonte fu ben diverso: «Una lista desolante. Pochissimi cambiamenti, e di non grande peso politico. Alcuni trasferimenti da un ministero all’altro, peraltro incomprensibili nelle loro motivazioni. La maggioranza dei ministri confermata: anche quelli, come Donat Cattin e Bisaglia17, ostili apertamente e combattivamente alla politica di solidarietà democratica. Nessun tecnico indipendente al di fuori di Ossola, che faceva già parte del precedente governo. A molti sembrò una sfida ai comunisti e alla nuova maggioranza parlamentare»18.
Tra i tecnici indicati dal Pci, non c’era il nome di Luigi Spaventa, economista, eletto in parlamento come indipendente nelle liste del Pci19. Le valutazioni positive di Natta furono tanto più imbarazzanti perché «l’Unità» pubblicò sotto al suo intervento la lista dei ministri con un commento molto severo: «Ancora una volta la Democrazia cristiana si è dimostrata incapace di superare la logica delle correnti, le pressioni e le pretese dei gruppi, e di far corrispondere la scelta e la collocazione degli uomini a esigenze generali di qualificazione e di organicità dell’azione di governo nell’interesse del Paese»20. Quelle parole mettevano a nudo l’ingenuità della strategia comunista e la cosa divenne ancora più rimarchevole alla luce dei commenti apparsi nei giorni successivi sugli altri quotidiani: un fondo di Scalfari su «la Repubblica» del 16 marzo descrisse i malumori nel Pci: «dirigenti furibondi, negoziatori messi sotto accusa […] militanti delusi», e chiamò in causa il complesso di inferiorità del Pci riguardo alla propria legittimazione: «I comunisti sono stati talmente cauti da aver consentito, in nome della cautela, la nascita di uno sgorbio ministeriale»21. La reazione dei dirigenti di Botteghe oscure è descritta come «aspra» da Giuseppe Fiori nella sua biografia di Berlinguer: «Pajetta telefona ad Andreotti e gli parla severamente. È subito riunita la segreteria comunista con i presidenti dei gruppi. Si discute vivacemente. È anche espressa l’opinione che a questo nuovo governo (ma si ironizza sul nuovo) debba negarsi il voto favorevole. In tutti c’è ripensamento e dubbio»22. Pecchioli ricorda che quella sera «Berlinguer era furibondo. Raramente aveva preso tanto male qualcosa». Pajetta era per la rottura. In ogni caso – riferisce Natta – «pensavamo ad un discorso di Berlinguer molto duro e molto critico»23. La scelta comune, però, è di «lasciare che a pronunziarsi sia la Direzione dopo aver ascoltato Andreotti in Parlamento»24. Secondo Finetti l’intervento d’autorità di Moro avrebbe creato dissapori con Zaccagnini, «che infatti, quella sera, abbandona il suo ufficio dissociandosi da Moro e ventilando le dimissioni da segretario»25. Un attrito che avrebbe suscitato nei vertici del Pci l’attesa «di una presa di distanza da Moro» del segretario della Dc e di Andreotti. Gianni Gennari, molto vicino a Zaccagnini nei giorni del sequestro, ha confermato l’insofferenza e il forte dissenso di Zaccagnini per le scelte di Moro e non solo e la sua volontà di dimettersi dal ruolo di segretario: «Mi disse più volte che non era contento di come erano andate le cose per la soluzione politica di quella crisi di governo. Neppure era convinto della composizione del nuovo governo Andreotti che proprio la mattina della strage si era presentato alla Camera. Anche un recente “rimpasto” degli organi di partito – di cui pure era lui il segretario – non lo aveva soddisfatto…Avevano combinato tutto Moro e Andreotti. Lui aveva preso la decisione, quindi, e me lo disse chiaro, di dare le dimissioni da segretario. Dunque se le Br non avessero rapito Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, appena varato il governo Andreotti con il Pci nella maggioranza si sarebbe dimesso da segretario della Dc. Per la cronaca lo ha scritto una volta anche Enzo Biagi, nero su bianco, mai smentito da qualcuno…Zac voleva tornare a Ravenna, a fare il pediatra. Era stanco di quella politica, che aveva voluto anche lui, ma di cui troppe cose, troppe persone, troppe vicende concrete non gli piacevano. Lo aveva detto anche a Moro, e negli ultimi giorni qualche colloquio non era stato del tutto normale. Zaccagnini era inquieto, e ne aveva detto le ragioni precise: inascoltato, nel partito di cui pure era segretario e nel governo…Ma le Br rapirono Moro, e lui fu costretto a restare. In quelle condizioni le sue dimissioni divennero impossibili»26.
Finetti aggiunge anche un retroscena: «Scalfari in quelle stesse ore parte all’offensiva di Moro accusandolo di essere lui a celarsi dietro il nome in codice «Antelope Cobbler» della lista delle tangenti della Loockhed, pubblicando in terza pagina un articolo intitolato, Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della Dc27. A dire il vero questa informazione apparve anche su altri quotidiani, come il «Corriere della sera», «La Stampa» e «Il Giorno». Il numero de «la Repubblica», comunque, venne immediatamente ritirato dalle edicole dopo la notizia del sequestro e sostituito con una edizione straordinaria nella quale non troverà più posto l’articolo che chiamava in causa Moro28.

Brigate rosse, dalle Fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017


Note
1
La testimonianza della sua attività come emissario delle diplomazia segreta con il Pci si può leggere in T. Ancora, Enrico, perché senza scorta; in Enrico Berlinguer, a cura di R. Di Blasi, pp. 110 e segg., Editrice l’Unità, Roma 1985.
2 I due passaggi sono tratti da «Avvenire», 7 maggio 2008, Moro e il Pci, un’amicizia travolta dal rapimento, intervista di A. Picariello a Tullio Ancora e Enrico, perché senza scorta, cit. p. 111.
3 Audizione di Nicola Rana, CM2 Martedì 16 febbraio 2016.
4 «Se Moro ti incontrava alle dieci di sera eri fottuto perché ti teneva a discorrere fino a mezzanotte pur di non tornare a casa presto. Lui tornava a casa all’una e si faceva un uovo al tegamino», in L’uomo che non c’è, intervista di Claudio Sabelli Fioretti a Francesco Cossiga, Aliberti editore 2007. Anche Nicola Rana in CM2, audizione del 16 febbraio 2016, fece un accenno ai problemi familiari: «Quel giorno, il 15 marzo, era accaduta soltanto una cosa che teneva la preoccupazione di Moro. C’era stata una lite.[…]  Il presidente Moro era preoccupato per alcune questioni familiari, per un litigio che era intercorso proprio quella giornata tra la signora Chiavarelli e la figlia Anna. C’era stato un fortissimo litigio».
5 Parlamentare e membro della Direzione del Pci, esperto di politica economica, incaricato dal segretario del Pci E. Berlinguer di tenere i contatti con l’entourage di Moro.
6 La scena è raccontata in questo modo da G. Fiori in, Vita di Enrico Berlinguer, cit. pp. 352-353.
7 L. Barca, «Gli incontri segreti con Moro», in Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, 1985, p.107.
8 Commissione Moro 1, audizione di Enrico Berlinguer, vol. 5, p. 350.
9 FG, APC, microfilm 7805, verbale Direzione del 16 marzo 1978, numero 8, fogli 3-4.
10 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 14.
11 M. Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Anabasi, Milano (prima edizione) 1994, pp. 144-146.
12 Ibid.
13 Giuseppe Fiori riassume così il bilancio del Pci sull’accordo di programma a cui aveva preso parte in cambio della propria «non sfiducia»: «Una scatola vuota; peggio un recipiente dove la Dc mette poco del pattuito e parecchie sue convenienze. In Parlamento rimanda, sabota, snatura punti del programma sui quali s’era raggiunta l’intesa dopo trattative estenuanti: la riforma sanitaria, l’equo canone, i patti agrari, il sindacato di polizia, i nuovi poteri degli enti locali. I singoli ministri agiscono senza considerazione alcuna per i partiti dalla cui astensione derivano il potere, e lo si vede nelle nomine pubbliche, spesso scandalose, sempre di bottega»; G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 341. Opinione condivisa anche da Francesco Barbagallo che scrive: «Il Pci usciva molto provato dalla esperienza governativa del 1977. In mancanza di provvedimenti riformatori sul terreno dello sviluppo, del Mezzogiorno, dell’occupazione e dell’organizzazione del lavoro, era diventato bersaglio della protesta giovanile, del disagio operaio, della delusione degli strati intermedi e intellettuali»; F. Barbagallo, «Il Pci dal sequestro di Moro alla morte di Berlinguer», in L’Italia Repubblicana nella crisi degli anni 70. Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa e G. Monina, Rubettino, Soveria Mandelli 2003, p. 80.
14 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 34. Egli cita in particolare una nota riservata di Luciano Barca a Berlinguer e Chiaromonte del 5 aprile 1978 in FG, APC, microfilm 7804, f. 0016.
15 «la Repubblica», 12 marzo 1978.
16 «l’Unità», colloquio con Alessandro Natta, Mettere a frutto le maggiori possibilità di rinnovamento, 12 marzo1978.
17 Il primo all’Industria, il secondo alle Partecipazioni statali.
18 G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica. Cronache, ricordi e riflessioni sul triennio 1976-1979, Editori riuniti, Roma 1986, p. 100. L’espediente dei «tecnici indipendenti» doveva celare, in realtà, il coinvolgimento nel governo di ministri graditi al Pci.
19 A rivelare la circostanza è l’ambasciatore statunitense Gardner che riporta il contenuto di un colloquio con Amintore Fanfani del 18 dicembre 1977, R.N. Gardner, Mission Italy, cit., p. 179.
20 «l’Unità», 12 marzo 1978.
21 E. Scalfari, La firma di Natta non vale una messa, «la Repubblica», 16 marzo 1978.
22 G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 352.
23 C. Valentini, Berlinguer, Editori riuniti, Roma 1997, p. 285.
24 G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 352.
25 L’episodio sembra trovare, tuttavia, una smentita indiretta nelle parole di Moro presenti nella sua ultima lettera a Zaccagnini del 5 maggio 1978, non consegnata, dove scrive: «Essendoci lasciati in ottima intesa la sera del martedì», intendendo il giorno prima di mercoledì 16 marzo.
26 Teologo, consigliere di Berlinguer per gli affari religiosi, predispose il testo della lettera ai cattolici Italiani, inviata il 7 ottobre del 1977 al vescovo di Ivrea, Monsignor Bettazzi. La testimonianza di Gennari su Zaccagnini è apparsa su «La Stampa», 15 luglio 2012.
27 U. Finetti, Caso Moro, trent’anni di mistificazioni, in «Critica sociale», 13 marzo 2008.
28 «la Repubblica», 16 marzo 1978 (edizione ordinaria).

Per saperne di più
Diario del sequestro Moro