Rapimento Moro, quei complottisti a caccia di fantasmi…

Via Gradoli, al posto di Moro un paio di stivali con il dna della brigatista Faranda e dentro la 128 bianca con targa diplomatica, che bloccò in via Fani il convoglio dello statista, il dna del proprietario. Daniele Zaccaria riprende su il Dubbio le ultime novità presenti nel volume La polizia della storia, Derviveapprodi, maggio 2021, sulla sesta inchiesta aperta dalla procura romana sul rapimento e l’uccisione del leader democristiano da parte delle Brigate rosse.


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 19 marzo, 2023

Sono passati quarantacinque anni esatti dal sequestro di Aldo Moro e dalla strage della sua scorta, ma i dietrologi e gli illusionisti di ogni risma non riescono proprio ad accettare il fatto che a rapire e a uccidere il presidente della Democrazia cristiana furono le Brigate rosse e nessun altro. A quasi mezzo secolo di distanza da quei tragici eventi continuano infatti ad evocare cospirazioni, manipolazioni, regie occulte, disturbati dal pensiero che un piccolo manipolo di operai e studenti di bassa estrazione sociale abbia tenuto sotto scacco lo Stato e i suoi apparati per così tanto tempo. La chiamavano “geometrica potenza” delle Br una bella suggestione letteraria, in altri termini il nome che lo Stato aveva dato alla sua incapacità di comprendere e contrastare il fenomeno brigatista, ma quell’immagine di efficienza militare attribuita dalla politica e dal circo mediatico all’organizzazione comunista armata ha alimentato con enorme successo il filone del complottismo.

Un flusso di opinione qualunquista e gelatinoso alimenta la dietrologia
Non stiamo parlando solamente del flusso di opinione qualunquista e gelatinoso che scorre sui social, dei discorsi da bar o delle ossessioni degli “specialisti” della congiura come Sergio Flamigni o Paolo Cucchiarelli che su questi giochetti di ombre cinesi agitate attorno all’affaire Moro hanno costruito una discreta carriera.
La caccia ai fantasmi di via Fani è purtroppo uno sport ancora in voga anche ai più alti livelli politici e istituzionali. Illuminante in tal senso è stato il lavoro della Commissione Moro II con la sua fissazione di voler scovare a tutti i costi il Dna di individui estranei alle Br sul luogo dell’attentato per suffragare l’ipotesi di complotto.
Come nel plot twist di un film hollywoodiano i commissari di Palazzo San Macuto speravano di far emergere verità scottanti e inconfessabili, magari illuminando la longa manus dei servizi segreti, o addirittura quella delle centrali di intelligence straniere: la Cia, il Kgb, e persino gli israeliani del Mossad come sostenne l’ex Pubblico Ministero di Genova Luigi Carli in una memorabile audizione davanti alla Commissione.
Un fronte di indagine, quello genetico, affidato al Reparto investigazioni speciali dei carabinieri, il celebre Ris, che ha messo a confronto le tracce biologiche rinvenute in via Fani con quelle presenti nel covo brigatista di via Gradoli 96. Le analisi però non confermano nessun sospetto evocato dalla Commissione, al contrario denudano diverse fake news che negli anni hanno tentato di smontare senza successo la “versione ufficiale”.

Via Gradoli, al posto di Moro un paio di stivali con il dna della Faranda
In primo luogo nel covo non è stato ritrovato nessun frammento del Dna di Moro ( i quattro profili genetici isolati dal Ris, due maschili e due femminili, non coincidevano con quelli prelevati ai familiari dello statista Dc), il che smentisce chi afferma che il leader democristiano fosse stato imprigionato o comunque avesse transitato anche per via Gradoli: in tutti i 55 giorni del sequestro rimase nella “prigione del popolo” di via Montalcini come hanno sempre affermato i brigatisti coinvolti.
Inoltre nei reperti di via Gradoli emerge una «compatibilità biologica» con il l Dna della brigatista Adriana Faranda, un’altra conferma di quanto sostenuto dai protagonisti: nella base avevano vissuto infatti tre coppie, Carla Maria Brioschi e Franco Bonisoli, Adriana Faranda e Valerio Morucci, Barbara Balzerani e Mario Moretti, questi ultimi proprio durante i giorni del rapimento dopo che l’appartamento di Piazzale Vittorio Poggi in cui vivevano si era “bruciato”. Anche l’inseguimento dei “tabagisti” sulla scena del delitto si è rivelato un flop: le analisi dei 39 mozziconi ritrovati nella Fiat 128 targata corpo diplomatico utilizzata in via Fani per bloccare le automobili di Moro e della sua scorta isolano infatti le tracce genetiche di Nando Miconi, il proprietario del mezzo rubato, su alcuni mozziconi ci sono invece le tracce miste di Miconi e di un ignoto, con ogni probabilità un suo amico o conoscente. Sono soltanto dieci i mozziconi riconducibili a sei ignoti, ma poiché nessuno ha mai visto uscire sei persone dalla Fiat 128 la mattina del 16 marzo 1978, con tutta evidenza le tracce sui mozziconi appartenevano anch’esse a conoscenti del proprietario.
Nel 2021 il fascicolo sui tabagisti viene ereditato dalla procura di Roma la quale convoca quei brigatisti che inizialmente si erano rifiutati di fornire alla Commissione i loro profili genetici. Un accanimento che secondo Enrico Triaca, il “tipografo” delle Br «è un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità come le torture». Arrestato il 17 maggio del 1978, otto giorni dopo la morte di moro, Triaca venne in effetti torturato dal funzionario di polizia Nicola Ciocia, il cosiddetto “professor De Tormentis” che lo sottopose al waterboarding, la stessa tecnica utilizzata dalla Cia per far parlare i sospetti jihadisti e proibita da qualsiasi convenzione internazionale.
Convocazioni pittoresche quelle della procura romana, basti pensare a Corrado Alunni, fuoriuscito dalle Br addirittura nel 1974 o a Giovanni Senzani che non è mai stato un fumatore. In tutto furono una dozzina abbondante gli ex Br convocati, la maggior parte condannati in via definitiva per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Cercando di comprendere l’utilità di simili test, siamo ancora in attesa degli esiti dei nuovi accertamenti genetici visto che l’inchiesta della procura è ancora in corso.
Un altro brutto autogol della Commissione riguarda il testimone Alessandro Marini: nessuno aveva sparato contro di lui in via Fani e il parabrezza del suo motorino Boxer Piaggio si era rotto a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti.
Peraltro, e questo particolare la dice lunga su quanto il furore cospirazionista flirti con il cinismo, il presidente della Commissione Fioroni non hai mai contattato la procura perché avviasse la revisione delle condanne per il tentato omicidio di Marini, tentato omicidio che logicamente non è mai avvenuto.

Quando su richiesta del generale Dalla Chiesa il Pci infiltrò un proprio militante nelle Brigate rosse

Estratto dal libro La polizia della storia (pp. 173-176).
La vicenda venne raccontata per la prima volta nel giugno del 2017 dall’ex responsabile della sezione speciale antiterrorismo dei carabinieri di Roma, Domenico Di Petrillo, durante la sua audizione davanti alla seconda Commissione parlamentare che indagava sul sequestro Moro e poi riportata nel libro, scritto sempre dall’ex colonnello, Il lungo assedio al terrorismo nel diario operativo della Sezione speciale anticrimine Carabinieri di Roma, Melampo 2018. Fatto singolare la Commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, impegnatissima nella ricerca di infiltrati, spie, agenti d’influenza dentro e attorno alle Brigate rosse durante il sequestro Moro, ignorò completamente le rivelazioni. Nessun approfondimento venne disposto: i suoi solerti consulenti, i magistrati Donadio e Salvini, l’ufficiale dei Cc Giraudo, impegnatissimi a sfornare piste, creare e inventare nessi con Servizi di mezzo mondo, mafie e ‘ndranghete varie, snobbarono l’informazione troppo imbarazzante. Eppure sarebbe stato utile accertare modalità, tempi e modi di questa interazione tra Antiterrorismo dei carabinieri e vertici del Partito comunista dell’epoca, conoscere come si svolse questa operazione di intelligence. Niente di tutto ciò. L’unica versione dei fatti ad oggi conosciuta è quella fornitaci dall’ex carabiniere che dice fino ad un certo punto, omette, confonde per tutelare la sua fonte. Fonte, nome in codice «Fontanone», che, a distanza di oltre quarant’anni, si guarda bene dal farsi avanti e raccontare al Paese quella esperienza di cui probabilmente deve provare vergogna se preferisce rimanere celato nelle pieghe del passato. Questa vicenda è raccontata anche nella docuserie che sta andando in onda su Sky in queste settimane Roma di piombo, diario di una lotta.
Nel volume la Polizia della storia potete trovare invece un capitolo interamente dedicato al lavoro di contrasto svolto dalle forze di polizia contro le Brigate rosse, dal titolo «L’uso di esche, infiltrati e rami verdi nell’azione di contrasto alle Brigate rosse» nel quale per la prima volta, documenti alla mano, si ricostruiscono i pochi casi in cui le forze di polizia riuscirono ad impiegare delatori e provocatori. Non emergono casi di infiltrazione di membri dei Servizi o delle Forze dell’ordine, frequente invece è l’uso di esche, in particolare dopo la discesa in campo diretta del Pci che fornì propri militanti, mentre il nome più noto è quello di Girotto. Risultano arruolati due delatori: uno storico proveniente dalla Brigata Ferretto in Veneto, che fu all’origine di numerosi arresti, il secondo di Curcio, della Mantovani, di Semeria; l’altro a Milano che provocò l’arresto di Fenzi e Moretti. Infine c’è la storia di «Fontanone» che permise di agganciare nei primi mesi del 1980, dopo due anni di indagini a vuoto, la colonna romana.

L’operazione Olocausto, il Pci infiltra un proprio militante
Dopo la morte di Guido Rossa il Pci decise di cambiare la propria strategia di contrasto alla lotta armata. Il sindacalista della Cgil era stato ucciso dalla colonna genovese delle Brigate rosse che gli contestava il lavoro informativo svolto all’interno dell’Italsider di Cornigliano per conto del Partito comunista italiano (1). I vertici del Pci non ritennero più sufficiente la semplice attività informativa e il controllo dei luoghi di lavoro più caldi, delle scuole e del territorio, condotta dal proprio apparato di sorveglianza: una struttura riservata coordinata a livello centrale dalla Sezione Affari dello Stato che si appoggiava sulle singole Federazioni. Attività che ormai, come era accaduto per Rossa, esponeva a rischi eccessivi i propri militanti. Una volta individuato Francesco Berardi, operaio dell’Italsider che distribuiva opuscoli e volantini delle Br all’interno della fabbrica, Rossa non esitò a denunciarlo ai carabinieri presso gli uffici della sorveglianza nonostante l’esitazione del Consiglio di fabbrica, dove alcuni non erano convinti di quel gesto e avrebbero voluto affrontare in modo diverso il problema. Nella cultura politica del mondo operaio era piuttosto innaturale un atto del genere, in «The Making of the English Working Class», Edward P. Thompson evoca il concetto di «opacità operaia» per descrivere la tendenza della comunità proletaria a opporre una coltre di riservatezza per tutelare quel che avveniva al proprio interno: forme di illegalità, sabotaggio ma anche divergenze che non venivano risolte chiedendo aiuto all’esterno (2). Rossa aveva infranto questo tradizionale scudo, ma lo aveva fatto seguendo alla lettera le indicazioni del suo partito. Un recente lavoro di Sergio Luzzato ci offre un suo ritratto che aiuta a comprendere meglio le ragioni di quel comportamento: un aspetto caratteriale intransigente, un passato giovanile votato all’alpinismo agonistico animato da ideali nicciani e superomisti. Rossa era stato paracadutista nella brigata Folgore e per una di quelle strane coincidenze della storia uno dei suoi addestratori era stato il “guastatore” Oreste Leonardi, il maresciallo divenuto fedele guardia del corpo di Aldo Moro, morto in via Fani. Anni dopo, la tragica morte del figlioletto muta profondamente il suo sguardo sulla vita, Rossa si avvicina all’impegno sociale, abbandona la precedente visione individualistica e competitiva del mondo anche se, probabilmente, non riuscì a liberarsi della vecchia traccia normativa (3).
La svolta arriva nel settembre 1979 – racconta Domenico Di Petrillo, per molti anni a capo della Sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma – quando Ugo Pecchioli, il responsabile della sezione Affari dello Stato del Pci (una sorta di Ministero dell’Interno ombra del Partito comunista) comunica a Dalla Chiesa la disponibilità a infiltrare un militante del partito all’interno delle Brigate rosse con l’intento di destabilizzarle. L’unica condizione posta dai vertici di Botteghe Oscure – riferisce sempre Di Petrillo – «era che il militante da infiltrare fosse gestito da un ufficiale del Nord Italia per renderne il più possibile difficile l’individuazione». L’incarico venne affidato al Comandante della Sezione speciale anticrimine di Milano, Umberto Bonaventura, che incontrò per la prima volta la spia del Pci nei pressi della fontana del Gianicolo, circostanza che portò ad attribuirgli il nome in codice «Fontanone». In realtà, stando al racconto della vicenda – fatto sempre da Di Petrillo, prima nel corso della sua audizione del 19 giugno 2017 davanti alla Commissione Fioroni e successivamente in un volume pubblicato l’anno successivo che ripercorre l’attività della Sezione antiterrorismo di Roma, gli incontri con il candidato all’infiltrazione, «si concretizzano in una ricerca di come riuscire ad essere sicuri di approcciare le Brigate rosse. Facemmo vari tentativi che non andarono a buon fine, fino a che arrivammo ad individuare Piccioni, Ricciardi e da lì iniziò l’attività […] Però fu una ricerca, non fu una partenza con l’indicazione: “Andate lì”» (4). Di Petrillo fa capire che la spia non entrò mai nelle Br, ma si limitò a svolgere un lavoro di conoscenza e prossimità che consentì di individuare gli ambienti, i collettivi e i comitati politici romani che facevano da bacino di provenienza delle colonna romana: «Il nostro rapporto durò pochissimi mesi», scrive nel libro: «precisamente, sino a quando riuscimmo a individuare un’area dell’antagonismo romano, nella zona Sud della Capitale, caratterizzata dalla presenza di numerosi collettivi: le Br stavano cercando di indirizzare l’attività e di selezionare al loro interno militanti da arruolare nell’organizzazione» (5). Di Petrillo protegge ancora la fonte, è parco di informazioni e stende un po’ di cortina fumogena, ma è chiaro che l’infiltrazione nell’organico brigatista non ci fu, ma piuttosto un lavoro di perlustrazione ambientale, di individuazione dei riferimenti periferici dell’organizzazione, che conducessero a semplici «contatti» o «irregolari» da fotografare, agganciare e poi pedinare, cercando di ricostruire, appuntamento dopo appuntamento, la rete del gruppo. Di «Fontanone» si sa che era un insegnante, che riuscì a incontrare alcune persone ritenute vicine alle Brigate rosse, che questi incontri vennero fotografati e i volti dei suoi interlocutori immortalati fino a quando il pentito Patrizio Peci riconobbe l’immagine di uno di loro, fornendo l’input decisivo per indirizzare l’indagine verso la persona giusta: Francesco Piccioni, figura di peso della colonna romana, membro del fronte logistico nazionale che aveva partecipato nel dicembre 1979 alla riunione della Direzione strategica convocata in tutta fretta nella base genovese di via Fracchia. Dopo una intensa attività durata mesi Piccioni (Michele) fu catturato il 19 maggio 1980 nella base di via Silvani 7 a Roma, sede del «logistico» della colonna romana. Interessante è un ulteriore episodio: i carabinieri avevano in mano foto di diversi brigatisti immortalati durante queste attività di osservazione e pedinamento. Si trattava sicuramente di militanti che avevano una storia, erano conosciuti nei loro quartieri. «Mi rivolsi – ha spiegato Di Petrillo davanti alla Commissione Fioroni – «al Partito comunista, all’avvocato Tarsitano perché mi aiutasse a identificare queste persone. Ritagliai la foto di uno di questi che stava in via dei Fori Imperiali e dopo qualche giorno mi dette un appuntamento, andai alla Pigna [piazza Venezia, in prossimità dell’inizio di via delle Botteghe Oscure dove si trovava la sede nazionale del Pci] a incontrare Antonio Marini, un uomo del Pci, gli consegnai quel frammento di foto; dopo qualche giorno mi richiamò e mi diede il nome: Marcello Basili» (6). Si trattava di un militante vicino alla brigata di Torrespaccata che una volta arrestato iniziò a collaborare facendo catturare diversi suoi compagni.
Fu sistematica in quegli anni l’attività informativa del Pci a favore delle forze di polizia, «Dalla Chiesa – ha riferito il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora Segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo» (7). Alcune testimonianze portano a ritenere che il flusso informativo avvenisse anche in direzione opposta, seppur in misura molto minore. Salvatore Ricciardi, dirigente della colonna romana scomparso il 9 aprile 2020, con una ricca storia politica nel movimento operaio romano, prima nel Psiup (1965), poi tra i fondatori del Cub ferrovieri di Roma, per poi aderire all Brigate rosse nel 1977, mi ha più volte raccontato che dall’interno del Pci romano, qualcuno che non gradiva affatto la scelta della «delazione politica di massa» condotta dai vertici del partito, fece pervenire copia dei nomi di attivisti ritenuti sospetti che erano stati passati alla Questura.

Note

  1. Testimonianza di Loriano Bisso, segretario provinciale del Pci genovese, in Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, pp. 158-159: «[…] Quell’esperienza – si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».
  2. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1968.
  3. S. Luzzato, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Einaudi 2021.
  4. D. Di Petrillo, audizione davanti alla Commissione Moro 2, 19 giugno 2017.
  5. D. Di Petrillo, Il lungo assedio. La lotta al terrorismo nel diario operativo della sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma, Melampo, Milano 2018, p. 115-116.
  6. D. Di Petrillo, CM2, 19 giugno 2017.
  7. G. Fasanella, S. Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, Milano p. 141.

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

L’omaggio a Salvatore Ricciardi e l’occupazione poliziesca di san Lorenzo

Il saluto che compagni e amici romani hanno voluto donare ieri a Salvatore Ricciardi è terminato con 16 automezzi della polizia e dei carabinieri, tra cui 7 blindati, intervenuti per bloccare le vie di san Lorenzo, elicotteri che volteggiavano su via dei Volsci, una trentina di persone identificate e il quartiere alle finestre. Una signora con le buste della spesa in mano indignata per l’occupazione poliziesca se n’è andata esclamando: «manco le Brigate rosse». Salvatore Ricciardi si è fatto riconoscere. Immediatamente le cronache online di alcuni giornali e siti di informazione (?), ripresi stamani anche da quotidiani come Repubblica, Giornale e Messaggero, hanno diffuso una versione  dei fatti che definire fantasiosa è ancora poco, parlando di un corteo che per alcuni sarebbe partito dalla camera ardente del policlinico Umberto I, dove il corpo di Salvo è stato esposto per l’ultimo saluto di familiari ed amici, per poi dirigersi verso le strade di san Lorenzo fin sotto la sede di Radio Onda Rossa. Qui addirittura ci sarebbe stato un uso degli idranti per disperdere la folla in corteo… Nulla di tutto questo è avvenuto. Non sappiamo come si sia diffusa questa narrazione falsa della mattinata, forse si è trattato di un tentativo di giustificare ex-post l’imponente dispositivo di polizia mobilitato senza motivo sulla scia della circolare del ministero dell’Interno che ha lanciato allarmi contro possibili tensioni sociali e mobilitazioni delle «aree estremiste». Nel corso delle settimane, con un crescendo assai preoccupante, le forze dell’ordine hanno accentuato il loro margine di autonomia interpretativa delle misure restrittive previste nei decreti anticovid, accrescendo l’approccio repressivo rispetto all’iniziale atteggiamento dissuasivo, alimentando paure fantasmatiche per giustificare l’accrescimento del loro ruolo. L’azzeramento degli spazi sociali, la desertificazione urbana, la reclusione abitativa, l’annullamento della dialettica politica e sociale, hanno creato un vuoto che inevitabilmente viene occupato da altre forze. Bisognerà, appena le condizioni sanitarie lo permetteranno, tornare a riprendere le piazze, animare le strade e i marciapiedi, rioccupare la città, ridare vita ad una intensa dialettica sociale e politica.
In ogni caso, come mostrano le immagini diffuse, il saluto a Salvo si è tenuto in forma stanziale sotto la sede di Radio Onda Rossa, dove amici e compagni hanno atteso l’arrivo del feretro, rispettando i criteri sanitari richiesti in questi tempi di Covid: le persone avevano mascherine, molti i guanti, ed erano disposte a distanza di sicurezza tra loro con una densità di certo inferiore alle file che si sono viste in questi ultimi giorni davanti ai supermercati, assaltati per gli acquisti di Pasqua. Il saluto, emotivamente intenso, si è protratto per un quarto d’ora scarso e poi il feretro si è avviato girando per via degli Equi (nella foto qui sotto si intravede sulla sinistra). Un gruppo si è poi diretto verso le mura Aureliane (visibili sul fondo della foto) per realizzare la scritta “Ciao Salvo” (che potete vedere più in basso). Ed è a questo punto, quando la scritta era quasi terminata, che sono arrivati i mezzi di polizia a sirene spiegate bloccando tutte le vie di uscita, mentre personale di polizia e carabinieri in assetto antisommossa sono scesi accerchiando i presenti che assistevano alla trascrizione, così producendo il primo assembramento della giornata (Foto in basso). Anziché lasciare aperto un corridoio per permettere  alle persone di defluire e consentire loro di mantenere la distanza, le hanno strette pretendendo di identificarle, situazione che ha sucitato accese discussioni. Alla fine tutto si è concluso con l’identificazione di chi era rimasto nella rete mentre il quartiere è stato occupato per diverse ore dalle forze di polizia senza alcun motivo.
Siamo sicuri che Salvo si sarà divertito molto!

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“Salvo è vivo, i morti siete voi!”. Un commento a proposito del dispiegamento di polizia dopo il saluto a Salvatore Ricciardi

di Lai Yiu-fai

92817505_2637853416324757_1894055997438164992_oL’ottusità del potere è assai spesso fonte di tragedie. La frase “sarà una risata che vi seppellirà” del celebre manifesto con la foto di un ridente anarcosindacalista tratto in arresto è ahinoi una illusoria consolazione a fronte delle tante lacrime versate e dei patimenti subiti a seguito delle angherie repressive. Ci sono però occasioni in cui la stoltezza di chi ci governa si traduce in effetti ridicoli che riescono a strappare un sorriso. Non è molto, non li seppellirà, ma quantomeno può aiutarci ad affrontare momenti difficili e dolorosi. Così è stato per lo schieramento di forze di polizia che nella mattinata dell’11 aprile 2020 ha provato a impedire l’ultimo saluto a Salvatore Ricciardi nelle strade del quartiere di san Lorenzo a Roma: agenti in tenuta anti-sommossa, volanti, blindati e, come se non bastasse, elicotteri volteggianti in cielo. Qualcuno dei partecipanti alla adunata “sediziosa” è stato identificato – e questo non fa affatto ridere – ma l’ingente spiegamento di forze dell’ordine ha avuto nel suo complesso l’effetto opposto di quello ricercato dai suoi ideatori. Così facendo hanno mostrato quanto l’idea di libertà e insubordinazione al potere che Salvatore Ricciardi ha incarnato e promosso in vita continui a far paura anche da morto. Non c’era miglior omaggio che si potesse fargli, al punto da concedere spazio alla retorica con cui concludere: “Salvo è vivo, i morti siete voi!”

 

Sal

Il feretro parte. Il fotografo Tano D’Amico al lavoroTANO CIAO

Un piccolo gruppo assiste alla realizzazione della scritta «Ciao Salvo». Sullo sfondo di Porta Labicana un blindato manovra per chiudere la via
MURA AURELIANE

Plotoni di polizotti e carabinieri in assetto antisommossa si avvicinano da via dei Volsci
CARAMBA

Un altro mezzo blocca via Porta Labicana sull’altro lato
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Un elicottero delle Forze di polizia sorvola la zona
ELICOTTERO

Poliziotti in borghese vengono avanti
Digos

La scritta è finitaCiao Salvo

Il quartiere viene occupato dalla polizia
OCCUPAZIONE

Avere vent’anni nel luglio 60. Storia di Salvatore Ricciardi

Salvo bandieraSessant’anni di lotta politica e battaglie sociali, è stata questa la vita di Salvatore Ricciardi. Nato a Roma nel 1940, cresciuto nel quartiere di Porta san Paolo quando la città veniva bombardata dagli angloamericani, Salvatore appartiene a quella generazione che ha traversato per intero la storia del secondo Novecento italiano sapendo andare oltre, valicando il millennio.
Avere vent’anni nel luglio 60. Parte da questa data fatidica, gli scontri di Porta san Paolo del 6 luglio 1960, la traiettoria politica di Salvatore che lui stesso ha raccontato: «In quei giorni scoprimmo il sampietrino e la «breccola»… Scoprimmo una cosa ancora più importante: non eravamo soli. C’erano tanti gruppi di ragazzi nelle strade di Roma, che come noi avevano attraversato quel dopoguerra accumulando un malessere e una rabbia contro chi li condannava a una difficile esistenza. Come noi avevano quella sorta di ripulsa per la politica che sapeva troppo di schede elettorali, di “mozioni” e “ordini del giorno”, e sapeva poco di vita reale. Come noi avevano accumulato un’infinità di domande, ma, fin lì, nessuna risposta. Come noi volevano fare qualcosa» (leggi qui).
Lavoratore edile nei primi anni sessanta, dopo la prematura scomparsa del padre diventa ferroviere, attivista sindacale nella Cgil a cui segue l’ingresso nel Psiup (Partito socialista di unità proletaria, formazione che si collocava alla sinistra del Pci), sezione di Garbatella, quartiere popolare e proletario della Capitale, segue – a metà degli anni 60 – il lavoro politico nelle fabbriche di Pomezia, «un territorio – come si legge nella presentazione del suo blog (leggi qui) – che  rappresentava, nei voleri dei governi, il polo industriale di Roma e offriva notevoli facilitazioni agli imprenditori. Nel 1967 incontriamo davanti ai cancelli di queste fabbriche le compagne e i compagni del Potere Operaio di Pomezia (di cui si è persa memoria, eppure era frequentato da compagni/e molto capaci, in rapporto con Quaderni Rossi). Agli inizi dei movimenti del ’68 studentesco e operaio, proponiamo al Psiup di “sciogliersi nel movimento” per ridefinire le proposte politiche e anche gli assetti organizzativi; ritenevamo quel partito “vecchio” come gli altri e volevamo esplorare e moltiplicare i percorsi dell’autorganizzazione. Perdemmo il congresso provinciale su questa proposta (dicembre ’68), per pochissimi voti a causa dei “funzionari” che non volevano perdere il “posto di lavoro”. Usciamo dal Psiup e proponiamo alle assemblee del movimento di gettarsi nella costruzione degli organismi autorganizzati moltiplicando una tendenza che dilagava non solo in questo paese e di cui il Cub (Comitato unitario di base) dei lavoratori della Pirelli Bicocca era il punto di riferimento. La Fatme, la Sacet, la CocaCola, e tante altre realtà lavorative. Nel 1971 con altri ferrovieri diamo vita al Cub dei ferrovieri di Roma (leggi qui), che blocca il traffico ferroviario nei primi giorni di agosto 1971 e apre la sua sede nel quartiere di San Lorenzo (storico insediamento di ferrovieri) in Via dei Volsci 2-4. Che ospiterà, di lì a poco, gli aggregati di lavoratori che si muovono sul terreno dell’autorganizzazione, per primi l’assemblea lavoratori/trici del Policlinico e il Comitato politico Enel; poi, via via, tutti gli altri».
L’instancabile lavoro politico di Salvatore prosegue con la fondazione del Comitato politico ferrovieri (Cpf), «con un carattere più politico e più agile. Prendemmo la sede nel quartiere di San Lorenzo, in via di Porta Labicana 12, a pochi metri da quella che era stata la prima sede del Cub, in via dei Volsci».
Il Cpf fu parte integrante dell’Assemblea cittadina che si riuniva in via dei Volsci negli anni dal 1974 al 1976 e raccoglieva gran parte dei comitati politici territoriali romani, percorso che giunse a un bivio quando al suo interno alcune componenti decisero di entrare nel percorso di fondazione della colonna romana delle Brigate rosse. Convinto che bisognasse fare di più, che servisse un altro livello di scontro e di organizzazione per rispondere ai pesanti processi di ristrutturazione, nel 1977 anche Salvatore decise di entrare nelle Brigate rosse, nonostante avesse lasciato a casa una figlia piccola, un’esperienza vissuta intensamente, senza sconti. Diede vita alla Brigata ferrovieri (leggi qui), per poi dirigere alcune brigate territoriali, come quella di Primavalle, ed entrare nella Direzione di colonna, fino all’arresto del 20 maggio 80, in piazza Cesarini Sforza.
L’ingresso in carcere inizia con una evasione mancata per un soffio da Regina coeli e poi con la rivolta di Trani a fine dicembre 1980. Seguono anni di carcere speciale, il rifiuto della dissociazione, la patologia cardiaca che si palesa, la chiusura del ciclo politico della lotta armata. Nel 1990 comincia, insieme a Prospero Gallinari, la battaglia per la sospensione pena e la possibilità di operarsi all’esterno che ottiene nel 1995. Nel marzo 1998 viene nuovamente reincarcerato. Tornerà fuori con il lavoro esterno (art. 21) come redattore di radio Onda Rossa e la collaborazione nella Fondazione Basso, riallacciando rapporti bruscamente interrotti ai tempi dell’ingresso nelle Brigate rosse. Venne quindi la semilibertà fino alla conclusione della pena nel 2010. Ai microfoni di Onda rossa era la voce, oltre che delle sue storiche rassegne stampa e del lavoro redazionale, di due trasmissioni tematiche “Parole contro” e “La conta”, che non a caso si svolgeva nell’ora della conta carceraria, dalle 15 alle 16, quando i detenuti, in tutte le carceri italiane, vengo chiusi in cella per la conta e il cambio turno della custodia. L’impegno contro il carcere è stato il filo conduttore dell’ultima parte della sua vita con l’esperienza di Scarceranda, Odio il carcere, e i libri, Solo un tratto di strada, brevi cenni sulle lotte e il dibattito nel ciclo di lotte 68-69, Supplemento a Stampa alternativa, maggio 1989, Che cos’è il carcere. Vademecum di resistenza, (Deriveapprodi 2015) (qui) e Esclusi dal consorzio sociale (qui), senza dimenticare Maelstrom, Scene di lotta di classe in Italia dal 1960 al 1980, Deriveapprodi 2011 (qui) e l’intervista biografica di Ottone Ovidi, Salvatore Ricciardi, Bordeaux 2018 (qui).
Nel frattempo non aveva smesso di sperimentare terreni nuovi, confrontarsi con generazioni lontane anni luce dalla sua storia e dal suo vissuto, alla ricerca di ogni nuova contraddizione o accenno di lotta, come l’impegno profuso per sostenere le recenti lotte della logistica, con l’umiltà e pedagogia dei vecchi comunisti, convinto che ogni scintilla potesse essere l’occasione per dare nuovamente fuoco alla prateria. Una curiosità insaziabile che negli anni 60 e primi anni 70 l’aveva portato a vagare insieme a Gabriella, sua moglie, per l’Europa con la loro Cinquecento: a Praga per vedere da vicino cosa era stata quella «Primavera», o in Algeria per conoscere da vicino l’esperienza della lotta anticoloniale, o il grande amore per la Palestina, purtroppo mai attraversata, che l’aveva portato a studiare l’arabo in carcere fino ed entrare in contatto con tanti docenti arabisti. Lo salutiamo con le parole di un giovane compagno, perché Salvatore, Salvo per noi tutti, era questo: «Supermariobros delle autogestioni delle nostre scuole, spacciatore di Smemorande, instancabile divulgatore dell’abolizionismo tra noi ancora adolescenti, seminatore di fondi di pipa, procacciatore di introvabili numeri di dimenticate riviste. Il racconto della via prima che fosse la via, di Trani prima e dopo Trani, la spiegazione paziente della centralità della contraddizione capitale-lavoro ai nostri sguardi ebeti. Il rifiuto di sentirsi reduce, l’umiltà di sentirsi sempre un compagno tra i compagni, la curiosità incomprensibile per le nostre farneticazioni. Grazie».
Un abbraccio alle sue donne, la figlia Nicoletta, Gabriella, le sorelle Mariolina e Cloti, la sua compagna Tania. Un ricordo alla sua mamma, Claudia, morta mentre Salvo era in carcere e il permesso per assistere al funerale arrivò, come una beffa, solo il giorno dopo.

Ciao Salvatore

Storia di Salvatore
Brigate rosse, una storia che viene da lontano. Maelstrom, Scene di lotta di classe in Italia dal 1960 al 1980, il libro di Salvatore Ricciardi
Dai Cub alla Brigata ferrovieri
Contromaelstrom.com, il blog di Salvatore Ricciardi
Radiocane.info/ Salvatore Ricciardi