Riprendo dal blog di Marco Clementi, podista coriaceo e storico pignolo, un bellissimo pezzo sulle bombe esplose durante la maratona di Boston, Correre 2.0. Queste bombe mi ricordano quelle messe sui metrò parigini nel 1995. Chi affollava le carrozze dei treni sotterranei? Una calca umana di lavoratori, pendolari, donne e giovani che si spostavano dalle periferie.
«Correre – scrive Marco – è uno sport diverso. E, tra le corse, la maratona è la gara. La corsa è lo sport dei poveri. Ormai vincono quasi sempre gli africani, etiopi o keniani. Conosciamo un altro sport nel quale eccellono? Per praticare la corsa servono solo una maglietta, un paio di calzoncini e le scarpe. Non devi pagare una palestra, un istruttore, un campo. Non corri contro qualcuno, ma per qualcosa. Perché, anche se ti giochi la vittoria, in realtà non hai un avversario da battere, ma il tempo dentro la tua testa, il ritmo costante e i chilometri da lasciarti dietro. Puoi essere bello o brutto, alto, magro, basso: conta solo quanto hai dato in allenamento, perché solo quello ti sarà restituito in gara. Neanche un grammo di energia in più».
Marco parla della corsa con un trasporto che da i brividi e sente queste bombe come un oltraggio doppio. Correre è bello ed il bello è che lo puoi fare come recitava una canzone degli Onda rossa posse: battendo il tuo tempo. Non posso che dargli ragione anche se non so stargli dietro. Una estate, durante alcuni giorni di licenza, l’ho visto allenarsi sui sentieri di montagna. Saliva in vetta a passo di corsa. Gli sono andato dietro per un po’, poi ho dovuto mollare non tanto per il fiato quanto per i muscoli delle gambe che bruciavano dandomi fitte dolorose. Correre sì, ma chi l’aveva mai fatto per così tanti chilometri in salita? Mi sono seduto e ho aspettato che tornasse giù. Faceva un caldo incredibile e ci siamo tuffati dentro una fontana, immersi con l’acqua gelida fino al collo.
Sono entrato in politica correndo, da ragazzino. Gare podistiche che servivano a portare ogni domenica migliaia di romani nelle zone verdi della città che facevano gola alla speculazione edilizia. Occupavamo terreni, spazi verdi, per rivendicare palestre, campi sportivi, parchi: tutto pubblico e a prezzi popolari. Sport per tutti contro le strutture private. Ve l’immaginate oggi?
A undici anni giravo per Roma la domenica mattina, prendevo tre o quattro autobus per arrivare a Spinaceto, al parco degli Acquedotti, alla Caffarella. Spesso mi perdevo, arrivavo tardi a gara iniziata, quando gli altri erano partiti. Più che una corsa diventava una rincorsa. Altre volte, per fortuna, si correva vicino casa, e lì a rompere le reti che recintavano la Pineta Sacchetti, la valle dell’Inferno, a forzare il cancello di villa Carpegna. Quante zone verdi abbiamo salvato in questo modo, diventate poi parchi pubblici o zone protette.
Sono tornato a correre nei cortili di prigione. Lì la corsa è resistenza, libertà interiore, le endorfine che entrano in azione dopo la prima mezz’ora, l’euforia che si sprigiona dentro, sono un piacere in quei luoghi dove il piacere non esiste. C’era un pastore sardo, un compagno finito in carcere per la delazione di un pentito, che riusciva a correre per l’intera durata dell’aria. Più di due ore. Un treno senza fermata.
Ricordo l’estate del 1989 come fosse ieri. Ero solo sul campo in terra battuta del G12 speciale di Rebibbia. C’era la pausa estiva del processo, avevano trasferito tutti, di lì a poco sarebbe toccato anche a me tornare nel forno delle Casermette di Foggia. In sezione erano rimasti solo i palestinesi e alcuni detenuti di estrema destra, un paio, che però non incontravamo perché il Dap aveva disposto il divieto d’incontro. Il campo era tutto mio. Correvo, correvo con Talkin’bout a revolution di Tracy Chapman nelle orechie
Scritto da MC. Marconista
primadellapioggia.blogspot.it 16 aprile 2013
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