Storia di Giorgio Napolitano, riformista, crociano, liberista, prima filosovietico e poi atlantista

La vita politica di Giorgio Napolitano riassume ed estremizza tutti gli aspetti più negativi che hanno caratterizzato la formazione culturale del gruppo dirigente del Pci del dopoguerra.
Origini alto borghesi addirittura con quarti di nobiltà. Il padre, un avvocato liberale e poeta; la madre, Carolina Bobbio, figlia di nobili piemontesi trapiantati a Napoli. Circostanza che ha alimentato negli anni voci mai confermate su presunti legami di sangue con la famiglia Savoia che avrebbero investito la reale paternità del piccolo Giorgio.
Formazione culturale crociana, studi di giurisprudenza con una laurea in economia politica e una tesi sul mancato sviluppo economico del Meridione. Militanza giovanile nei Guf, i gruppi universitari fascisti. Insomma il classico cursus honorem di un giovane rampollo della buona borghesia partenopea che ha vissuto la sua prima gioventù sotto il regime fascista senza particolari tormenti. Nel 1945 entra a far parte del Partito comunista in una Napoli già insorta e occupata dalle truppe angloamericane. L’alto livello culturale gli apre subito la strada nel gruppo dirigente locale: nel 1947 viene inviato a guidare la federazione di Caserta per farsi le ossa prima di diventare deputato nel 1953 e restarlo ininterrottamente fino al 1996, per poi passare al parlamento europeo, essere nominato senatore a vita nel 2005 e assumere per due volte la carica di Presidente della repubblica dal 2006 fino alle dimissioni del maggio 2015. E’ stato anche Presidente della camera e ministro dell’Interno del primo governo Prodi dal 1996 al 1998.

Riformista, crociano e liberista
Lo stile felpato, l’atteggiamento prudente, il linguaggio forbito, il perfetto controllo della lingua inglese, lo hanno reso da subito un cavallo di razza non solo nel Pci ma nella scena politica italiana. Moderato politicamente è cresciuto all’ombra della scuola politica di Giorgio Amendola incarnando le tradizionali linee guida della destra del partito: un iniziale filosovietismo in politica estera sfumato dopo i fatti di Praga del 1968. Nel 1956 appoggiò la repressione sovietica in Ungheria e pronunciò il discorso di espulsione dal partito del dissidente Antonio Giolitti a cui chiese scusa, omaggiandolo, una volta salito al Quirinale; grande attenzione in politica interna per i ceti produttivi, i circoli finanziari, la grande borghesia e le ricette economiche liberali. Quando fu responsabile economico del Pci negli anni dell’austerità berlingueriana predicava i sacrifici per la classe operaia come soluzione alla crisi economica. Nemico feroce della sinistra interna che sconfisse nell’XI congresso del 1966, detestava l’operaismo politico ritenuto una forma di estremismo che rasentava il sovversivismo. I tratti liberali della sua formazione culturale lo resero allergico al giustizialismo, anche se questo non gli impedì di essere un feroce sostenitore dell’emergenza giudiziaria antisovversiva. Da capogruppo dei deputati del Pci nel 1994 lanciò la stagione della dietrologia con una mozione parlamentare divenuta il manifesto del complottismo sul sequestro Moro, atteggiamento che rinforzò negli anni della sua permanenza al Quirinale quando inaugurò la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il 9 maggio 2008, con un discorso che avviava la stagione della vittimocrazia, attribuendo ad associazioni vittimarie accreditate l’amministrazione della memoria pubblica del decennio 70 e decretando il bavaglio per gli ex militanti, prigionieri ed ex prigionieri della sinistra armata e sovversiva dell’epoca.

Il battesimo negli Usa
Il punto di svolta della carriera politica di Napolitano risale tuttavia ai giorni del sequestro Moro, al mese di aprile del 1978 quando fu autorizzato a tenere un ciclo di conferenze in alcune università degli Stati Uniti, incontrare circoli politici, culturali e finanziari americani. Primo dirigente comunista occidentale autorizzato ad entrare negli Usa in quanto tale e non in una delegazione parlamentare, come era già avvenuto per altri prima di lui.
Il retroscena di quel viaggio che potete leggere di seguito (qui) fu lungo ed elaborato con un visto rifiutato tre anni prima. Quella missione ebbe una importanza decisiva nella successiva carriera politica del futuro capo della corrente «migliorista» del Pci. Napolitano, che bruciò sul tempo Berlinguer, anche lui invitato negli Usa al pari Carrillo (leggi qui), il segretario del Partito comunista spagnolo, per spiegare cos’era l’eurocomunismo, ebbe il compito di chiarire all’establishment statunitense cosa era diventato il Pci, cosa avrebbe fatto in caso di vittoria elettorale, tranquillizando investitori e politici nordamericani sulla fedeltà atlantica dei comunisti italiani e sulla tutela delle libertà economiche e della proprietà privata, ricevendo il placet Usa sulla linea della fermezza da tenere durante il sequestro del leader della Dc Moro da parte delle Brigate rosse.

La doppiezza culturale di Napolitano
Nel corso del viaggio emerse con forza tutta la doppiezza politica di Napolitano e del gruppo dirigente del Pci: la doppia morale e il doppio linguaggio. Napolitano incontrò in gran segreto Gianni Agnelli nella sua casa di Parck Avenue a New York. L’episodio, omesso dal resoconto apparso su Rinascita al suo ritorno, fu ignorato anche dal corrispondente dell’Unità Jacoviello. Elettori e militanti del Pci non dovevano saperlo. Napolitano rivelò la circostanza, che diede il via a una consuetudine tra i due, solo nel 2003 alla morte di Agnelli. Il viaggio negli Usa aprì al futuro presidente della Repubblica l’ingresso in circoli molto riservati, salotti dove esponenti politici, statisti e uomini della finanza più influenti, i decisori del mondo, si incontravano e discutevano. Dopo il viaggio negli Usa per Napilitano si aprirono anche le porte dell’ambasciata Usa per incontri riservati, tenuti anche con Pajetta, e il cui contenuto sia l’ambasciatore dell’epoca Gardner che lo stesso Napolitano riferivano unicamente di persona ai loro rispettivi superiori: il capo del Dipartimento di Stato e il presidente Usa per Gardenr, il segretario del Pci Berlinguer per Napolitano.
Se c’è un aspetto che riassume la storia politica di Giorgio Napolitano è questo elitismo, questa visione oligarchica, inside, di una politica per soli eletti di cui ha dato mostra con i governi tecnici e gli incarichi attribuiti a grandi comis di Stato e della finanza. Visione antica, liberale, predemocratica nella quale Napolitano si trovava a suo agio.

Ai Partigiani senza medaglie e riconoscimenti

Il fratello di mia nonna, zio Antonio, è stato partigiano. A sedici anni si arruolò nella Brigata Maiella. La Brigata era nata nel suo paese, Torricella Peligna e in quello accanto, Gessopalena, situati entrambi sulla linea Gustav. Prese parte agli scontri più duri di Pizzoferrato e Gamberale. Mia madre racconta sempre la scena del suo ritorno a casa sui camion aperti dei partigiani e il lancio del berretto che lei ragazzina raccolse felice.
Terminata la guerra partigiana, zio Antonio, come molti del suo paese, è migrato all’estero, in Belgio prima, poi in Australia. Un suo fratello maggiore, zio Pasquale, durante la leva militare si era ritrovato coinvolto nella guerra d’Albania. Fatto prigioniero finì nei campi d’internamento inglesi e poi a lavorare in una colonia agricola in Grecia. Tornò in Italia dopo il 1950. La moglie era morta e la figlia, zia Angela, era cresciuta con mia nonna insieme a mia madre. La casa di famiglia non c’era più, centrata da un aereo, non ho mai capito se tedesco o alleato. Oggi al suo posto c’è la posta.
I nazifascisti si vendicarono contro i due paesi che avevano dato vita alla Brigata, dopo aver sfollato la popolazione e fatto razzia grazie alle spie fasciste, minarono e distrussero Gessopalena. Fecero lo stesso con Torricella ma dovettero fuggire prima di accendere le mine, riuscirono ad abbattere solo poche case. La guerriglia partigiana colpiva ai fianchi le truppe speciali alpine tedesche che per rappresaglia massacrarono alcune famiglie sfollate riparate in una masseria, in località Sant’Agata, vicino Gessopalena. Mia zia Angela si salvò perché un suo zio la venne a prendere la sera prima per portarla in un’altra masseria. Perse in quel posto un pezzo della sua famiglia.
Ogni volta che torno sotto la Maiella passo sempre a Sant’Agata a vedere quei ruderi rimasti così dal giorno del massacro.
Zio Antonio era lontano, non sapeva scrivere, le storie della Brigata me le ha raccontate un suo coetaneo che abitava al Calacroce, il rione più povero del paese, accanto alla casa dove era nata mia madre, nelle estati che trascorrevo a Torricella quando ero ragazzino. Franchino Di Luzio si chiamava, anche lui partigiano, e i suoi figli erano i miei amici.
Zio Antonio, il partigiano, non voleva morire in Australia e fece di tutto per rientrare in Italia. Visse un anno da mia madre. In quel periodo ero in carcere a Viterbo.
Chiesi l’autorizzazione per poterlo incontrare. Il vicedirettore, Francesco Ruello, me la negò con compiaciuto sadismo. Zio Antonio che non aveva nemmeno la pensione da partigiano nei suoi lunghi anni da migrante, era stato anche a Marceline, aveva perso la cittadinanza italiana.
Quando sono uscito dal carcere era ritornato in Australia. È morto lì, senza che lo abbia mai più rivisto.
Questi sono i miei partigiani, senza medaglie, senza riconoscimenti!

I documenti desecretati smentiscono la destra sulla strage di Bologna

Le informative del capocentro Sismi a Beirut e la fine della pista palestinese sulla strage di Bologna. Su Domani la sintesi della inchiesta in più puntate che potete trovare su questo blog (qui la prima), condotta da Paolo Morando e Paolo Persichetti sui 32 cablogrammi e appunti desecretati nei mesi scorsi. Le carte dimostrano che la trattativa sui lanciamissili sequestrati a Ortona era stata risolta già il 2 luglio 1980 (un mese prima della strage del 2 agosto), accogliendo le richieste del Fplp. Si sbriciola il movente alternativo alle sentenze giudiziarie che hanno condannato i neofascisti dei Nar, costruito dalla destra in questi ultimi anni sulla strage

di Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 11 marzo 2023

Il 2 luglio del 1980 le richieste del Fronte popolare per la liberazione della Palestina erano state accolte. E le minacce, ventilate nei mesi precedenti, di attentati contro obiettivi italiani non avevano più ragion d’essere. Lo raccontano i cablogrammi dell’allora capocentro del Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, documenti da anni al centro di una dura polemica mossa da chi ne chiedeva la desecretazione, sostenendo che lì ci fossero le prove di un legame tra la strage di Bologna e la vicenda di Ortona, di cui si dirà. E dunque una versione alternativa alle sentenze di condanna passate in giudicato dei tre neofascisti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, da sempre contestate dalla destra.
Invece non è così. Quelle carte, ora liberamente consultabili all’Archivio Centrale dello Stato, non avvalorano affatto un movente del genere, come da anni si sente invece ripetere dai tanti fautori (politici, storici, giornalisti, ricercatori) della cosiddetta “pista palestinese”, archiviata già nel 2015 dai magistrati bolognesi. E anzi, se lette in parallelo con precisi passaggi giudiziari, dimostrano che la trattativa sottotraccia tra l’Italia e i palestinesi si era conclusa con successo già un mese prima della strage alla stazione. Sono carte che dunque non consentono tentativi politici di riscrittura della storia.

Ricostruzioni fuorvianti
Tutto trae origine dal sequestro di due lanciamissili Sa-7 Strela privi di armamento e dall’arresto, appunto a Ortona in Abruzzo nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979, di tre autonomi del collettivo del Policlinico di Roma (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Luciano Nieri) che li trasportavano: li tradì un controllo casuale dei carabinieri. Inconsapevoli del contenuto della cassa, erano stati chiamati in aiuto in extremis da Abu Anzeh Saleh, militante del Fplp, pure lui arrestato poco dopo. La vicenda è al centro delle informative di quel periodo di Giovannone, carte visionate (con obbligo di riservatezza) da alcuni membri della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro 2 già dal 2016. Venendo meno all’impegno, il senatore del centrodestra Carlo Giovanardi, sostiene da anni che in quelle carte è scolpita la verità sulle stragi di Ustica e Bologna: in particolare un cablo del 27 giugno 1980, in cui si annunciava da parte del Fplp la ripresa dell’iniziativa contro obiettivi italiani.
Nel giugno scorso il Comitato consultivo (istituito presso la Presidenza del Consiglio) che vigila sulle attività di desecretazione e versamento dei fondi archivistici delle Direttive Prodi, Renzi e – ultima – Draghi dell’agosto 2021, ha deciso di togliere il segreto e versare all’Archivio Centrale dello Stato il carteggio, peraltro già visionato dai magistrati romani impegnati sulla vicenda di Ustica. E come recita la relazione del Comitato, datata 12 ottobre 2022, è stato fatto proprio per rispondere «all’esigenza di escludere ricostruzioni fuorvianti del tragico evento, spesso oggetto di strumentalizzazione».

Richieste accolte
Il fascicolo, di 32 documenti, riporta in copertina il titolo “Vicenda Giovannone-Olp”. E non contiene alcun elemento che possa ricondurre alle stragi di Ustica e Bologna. Quei documenti dimostrano invece che la crisi dei lanciamissili palestinesi fu negoziata con grande abilità dal colonnello Giovannone e risolta già un mese prima dell’attentato alla stazione, con il rinvio del processo d’appello, venendo incontro alle richieste palestinesi.
Il processo fu addirittura rinviato altre due volte (novembre 1980 e giugno 1981, per poi finalmente tenersi a gennaio 1982): questa fu infatti la strategia individuata dal governo, e concordata con i palestinesi, per consentire la scarcerazione nell’agosto del 1981 di Saleh, grazie al superamento dei limiti di custodia cautelare.
Successivamente le condanne vennero ridotte per tutti e quattro gli imputati nel corso del processo d’appello: esattamente come richiesto dal Fplp. I palestinesi non hanno dunque mai avuto alcuna ragione per rompere gli accordi presi nel 1973, cioè il cosiddetto “Lodo Moro”.

Caso risolto
Le informative di Giovannone da Beirut vanno di pari passo con l’andamento processuale della vicenda di Ortona. Ed è una lettura inequivocabile. Lo spazio non consente qui di dettagliare il contenuto dei 32 documenti: i lettori potranno trovarlo da oggi sul blog Insorgenze.net (prima puntata), in un’inchiesta in più puntate.
L’appunto del Sismi datato 2 luglio 1980, lo si è detto, è quello che sancisce la soluzione della crisi. È attribuibile al generale Armando Sportelli, nome in codice “Sirio”, che riceveva le informative da Beirut. L’appunto, «per il signor direttore del Servizio» (il generale Giuseppe Santovito), riferisce i diversi interventi compiuti da Giovannone, a nome dello stesso Santovito, sul capo di gabinetto del ministro della Giustizia, il 15 maggio, il 30 giugno e l’1 luglio.
E qualcuno nel frattempo si mosse. Scritto a matita, sul documento si legge infatti: «Visto dal DS [Direttore del Servizio] il mattino del 2 luglio 1980. Processo rinviato». Era avvenuto proprio quella mattina, fu spostato a novembre: come chiedevano i palestinesi. Il caso era quindi stato risolto.

La verità che manca
La soluzione della crisi con l’Fplp fu insomma il frutto di una sofisticata strategia procedurale: le continue richieste di rinvio avanzate dalla difesa, sostenute dall’azione di moral suasion del governo (attivato dal Sismi) sulla magistratura, avevano consentito l’allungamento dei termini di custodia preventiva dei tre autonomi, ma non di Saleh, il cui avvocato non aveva mai presentato alcuna richiesta in merito.
Una mossa che fa supporre che la difesa del palestinese fosse a conoscenza delle trattative. Nell’ultimo documento del carteggio, il trentaduesimo del 19 agosto 1982 inviato al Cesis, il Sismi attesta che l’ultimo attentato palestinese «risale al 17 dicembre 1973» (cioè la strage di Fiumicino) e che i transiti di armi non erano previsti nell’accordo originario, che riguardava solo la “neutralizzazione” del territorio italiano.
In questi giorni, peraltro, qualcuno ha già sostenuto che quel passaggio del documento altro non sarebbe che una excusatio non petita. Mentre l’assenza, nelle carte di Giovannone ora desecretate, di documenti del periodo tra il 2 luglio 1980 (quando la crisi di Ortona si era risolta) e il 25 settembre dello stesso anno, indicherebbe la sparizione di altri cablo.
Quasi una estrema linea del Piave, dopo che per anni è stato sostenuto che in quelle informative stava una verità indicibile sulla strage, mentre ora si sa che non è così. Perché è vero che il totale delle carte di Giovannone comprende 250 documenti, ma lo è altrettanto che i 32 ora versati all’Archivio Centrale dello Stato – come sanno bene proprio quei parlamentari che visionarono l’intero carteggio – ne costituiscono il fulcro.

Nessun legame
La citazione delle informative di Giovannone, in questi anni, si è sempre arrestata sulla soglia del 27 giugno 1980: circostanza curiosa, visto che i commissari della “Moro 2” avevano invece potuto consultarli tutti, anche quelli successivi. Ma evidentemente non conveniva citarli.
Tanto che nessuno rilanciò un altro appunto del Sismi del 15 giugno 1981, diffuso nel luglio 2020 su una testata online: citando Giovannone, si attestava infatti che, a quella data, non si doveva fare «più affidamento sulla sospensione delle operazioni terroristiche in Italia e contro interessi e cittadini italiani, decisa dal Fplp nel 1973».
Sospensione che quindi continuava a reggere, nonostante il tira e molla sulla questione Ortona (si era all’ennesimo rinvio del processo d’appello), dimostrando che le minacce non si erano concretizzate. Mentre dalla strage di Bologna era passato quasi un anno. Una prova dunque contro la tesi di un legame tra la vicenda dei missili e la bomba alla stazione.

Tesi smentite
Lo scorso 22 luglio, a dare notizia della desecretazione, era stato Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna: «Doveva esserci la verità completa sulla cosiddetta pista palestinese, ma non c’è niente», disse. Non lo prese sul serio Enzo Raisi, ex deputato di Alleanza nazionale, bolognese: «Mente sapendo di mentire», replicò, sostenendo che «i documenti veri», quelli letti dai membri della “Moro 2”, erano «atti del 1980, dai missili Strela alla strage alla stazione».
E sono appunto quelli ora consultabili, che arrivano addirittura fino all’agosto 1982. Quando le carte di Giovannone, ormai quasi quattro anni fa, finirono al centro della polemica sulla strage di Bologna, disse la sua anche Giorgia Meloni. E sostenne che «la rivelazione dei documenti del Sismi di Beirut relativi all’estate del 1980 conferma la necessità e l’urgenza della desecretazione dei documenti relativi alla strage di Bologna e al “Lodo Moro”. Lo scorso 2 agosto, ancora a capo solo di un partito, affermò invece che «gli 85 morti e gli oltre 200 feriti meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità». Neppure lei s’era accorta che Draghi aveva già desecretato il dossier. Chissà che cosa dirà il prossimo 2 agosto.

Sullo stesso argomento
Prima puntata – Strage di Bologna, ecco i cablo di Giovannone che smentiscono la pista palestinese

E’ morto Giancarlo Calidori. Ha lottato fino all’ultimo contro gli sciacalli che hanno provato a infangare il cognato Mauro Di Vittorio, una delle vittime della strage di Bologna

Si è spento questa mattina Giancarlo Calidori, marito di Anna Di Vittorio, sorella di Mauro Di Vittorio una delle 85 vittime della strage di Bologna la cui storia lungamente raccontata su questo blog (leggi qui), potete trovare nel libro da poco uscito di Paolo Morando, La strage di Bologna, Bellini,i Nar, i mandanti e un perdono tradito, Feltrinelli. Quando nell’ottobre 2012 sono andato a proporre al manifesto l’inchiesta sull’ultimo depistaggio della strage che smontava la pista Di Vittorio (leggi qui), era capo servizio Marco Boccitto. Appena lesse il nome di Mauro mi disse che lo aveva conosciuto molto bene. Che incredibile coincidenza!
Era molto amico del fratello e per loro Mauro, di qualche anno più grande, appariva come una specie di mito con i suoi racconti sull’underground londinese, la vita negli squatt, la ganja, i viaggi, la vita on the road e la sua idea che il conflitto politico degli anni 70 era uno schema da superare con il lavoro sulle relazioni interpersonali. Marco pubblicò la mia inchiesta qualche giorno dopo (con un refuso sul mio nome, tanto per far capire quanto ci conoscessimo tutti) a cui seguì una errata corrige. Gli chiesi un ricordo di Di Vittorio che pubblicai sul blog (leggi qui) e poi il numero di Anna e Giancarlo che chiamai il giorno dopo inviandogli anche la bozza dell’articolo. Siccome la pubblicazione tardava per ragioni di spazio ne approfittai perché nel frattempo Giancarlo mi fornì ulteriori informazioni e precisazioni sul viaggio di Mauro verso Londra, dove non arrivò mai perché respinto alla frontiera di Dover e costretto ad un rocambolesco ritorno senza biglietto (aveva finito i soldi) sui treni, tanto che dopo la sua morte arrivò una multa delle ferrovie.
Iniziò così la nostra conoscenza trasformatasi nel tempo in amicizia. Dieci anni e poco più di infinite telefonate, lunghe chiacchierate e ogni tanto qualche incontro. Giancarlo faceva sofisticate letture filosofiche, era un vero bibliofilo, mi regalava decine di libri ed aveva delle battute folgoranti. Socialista di formazione era profondamente antifascista. Detestava la burocrazia togliattiana di quei personaggi che si erano impadroniti dell’associazione dei familiari della strage, trasformandosi in imprenditori di una memoria falsata e omissiva che girarono la testa altrove quando si scatenò la bufera contro Mauro Di Vittorio, lasciando Anna e Giancarlo soli a di difendere la memoria del loro familiare. Non voglio parlare qui della storia del perdono tradito e del loro progetto di riconciliazione fondato sull’esperienza Sud Africana, mai veramente compreso e strumentalizzato a Destra come a Sinistra. Se ne è già scritto molto e ci sarà modo di tornarci in altri momenti.
Sapere che Giancarlo non c’è, non sentire più dall’altra parte del telefono quella voce resa roca dalla sigarette mi fa sentire più solo. Le sue battute già mi mancano. Ho salutato Giancarlo due domeniche fa, insieme a Sandro Padula e Ugo Maria Tassinari. Siamo corsi da lui appena saputo dell’aggravamento del suo stato di salute. Con il suo libro che Giancarlo è riuscito ad avere tra le mani, Paolo Morando gli ha fatto il regalo più bello. Giancarlo Calidori non è morto solo di un male incurabile, come si dice perché si ha paura di pronunciare quella parola infame che si chiama “cancro”. Ad ucciderlo è stata anche la cattiveria e la malvagità di alcuni che sicuramente si riconosceranno leggendo queste parole. Un caro abbraccio ad Anna che lo ha assitito fino all’ultimo con amore.
Ciao Giancarlo!

Il criminologo Francesco Bruno, «Avevamo paura della sue lettere. Sono stato io a suggerire che Moro fosse affetto dalla sindrome di Stoccolma, ma era una menzogna»

Il Professor Francesco Bruno, psichiatria forense, criminologo di fama internazionale, conosciuto dal grande pubblico per la sua partecipazione ai talk televisivi dove era chiamato a commentare i casi di cronaca nera più noti e spinosi degli ultimi decenni, è morto l’11 gennaio scorso. Tutti lo ricordano mentre forniva la sue interpretazioni, spesso tranchants, sul delitto di via Poma, il massacro del bimbo di Cogne, la vicenda del mostro di Firenze che lo vide subire addirittura una perquisizione da parte degli inquirenti. Tuttavia agli albori della sua carriera Bruno si era occupato d’altro trovandosi al posto giusto nel momento giusto. Era stato infatti un giovane collaboratore molto ascoltato del professor Franco Ferracuti, psichiatra forense e criminologo, membro del comitato di esperti del Viminale nominato da Cossiga per elaborare la strategia del governo durante il sequestro del leader democristiano Aldo Moro realizzato dalle Brigate rosse. Divenuto consulente del Sisde al momento della riforma dei Servizi segreti, fu proprio Bruno – per sua stessa ammissione – a suggerire a Ferracuti l’impiego della teoria del condizionamento dell’ostaggio. Secondo questa tesi Moro si sarebbe trovato «sotto influenza», afflitto dalla «sindrome di Stoccolma».
Nel 1978 questa definizione non era ancora granché nota: coniata a seguito di un episodio accaduto a Stoccolma nel 1973 e nel quale due rapinatori tennero in ostaggio per oltre 5 giorni quattro impiegati. Contro ogni aspettativa i sequestrati empatizzarono fortemente con i loro sequestratori, al punto che una delle impiegate ebbe successivamente un lungo rapporto sentimentale con uno dei rapitori e al processo i quattro impiegati chiesero clemenza per i sequestratori. Nel fascicolo che raccoglie le relazioni dei membri del comitato di esperti del Viminale, presenti nelle carte della Direttiva Prodi depositata in Archivio di Stato, si trova ancora la fotocopia del volume di F.M. Ochberg, La vittima del terrorismo, 1978, 2 edizione italiana, citato nel testo di Ferracuti.
«Un primo argomento – si può leggere a pagina 2 del rapporto – in favore della ipotesi che gli aggressori esercitino un notevole controllo psicologico sulla vittima sta nel fatto che le missive da essa inviate si integrano perfettamente con i proclami degli aggressori». Più avanti si prende in considerazione l’ipotesi che questa integrazione «possa essere stata realizzata a posteriori», tuttavia secondo Ferracuti-Bruno «il gioco reciproco, e motivazionale, tra missive della vittima e messaggi degli aggressori è troppo stretta perché si possa escludere un alto grado di controllo sulla vittima stessa». A pagina 4, il duo Bruno-Ferracuti ricordando che Moro «faceva uso abbastanza generoso di farmaci e ne portava con se una scorta personale (scomparsa dal luogo del sequestro)», ritengono persino probabile che «determinati farmaci gli siano stati somministrati al di fuori della sua consapevolezza». Dalle analisi grafologiche – rilevano sempre i due – «si evidenziano segni di fini tremori, attribuibili possibilmente alla somministrazione di farmaci del gruppo dei neurolettici, e specificatamente del gruppo dell’aloperidolo».
Oggi suscita sicuro sconcerto leggere di un’analisi tossicologica elaborata per via grafologica, soprattutto dopo l’opera risolutiva sugli scritti di Moro dalla prigione di via Montalcini apparsa nel 2019 e curata da Michele Di Sivio, Il Memoriale di Aldo Moro, edizione critica, De Luca editore, nel quale la grafologa Antonella Padova, insieme a Di Sivio e Stefano Twardzik, dimostrano come le lettere e il cosiddetto Memoriale siano opera interamente cosciente e lucida di Moro.
L’espediente suggerito da Francesco Bruno, oltre ad essere falso fu una formidabile operazione di disinformazione, una vera e propria azione di controguerriglia psicologica che governo, forze politiche e grande stampa accolsero e utilizzarono cinicamente per sostenere la non veridicità delle lettere scritte da Moro nella prigione brigatista. Strategia che mirava a togliere valore politico all’ostaggio e al peso – altrimenti dirompente – delle sue parole per l’intero sistema politico-istituzionale e per l’opinione pubblica e impedire che la richiesta di una soluzione negoziata, sostenuta da Moro stesso, fosse presa in seria considerazione. Quella strategia ebbe un risultato ambivalente: per un verso fu un indubbio successo, perché condizionò le Brigate rosse che videro depotenziate le parole dell’ostaggio e di conseguenza anche i contenuti dell’interrogatorio a cui era stato sottoposto e che Moro aveva trascritto, in più versioni successive: un corpus complesso di materiali che prese, appunto, il nome di Memoriale. Situazione che ne rallentò il progetto di pubblicazione da parte brigatista. Al tempo stesso fu un drammatico fallimento perché decretando l’isolamento dell’ostaggio, prosciugò ogni margine possibile di manovra favorendo l’esito cruento del sequestro. Fino a quel momento le Brigate rosse non avevano mai giustiziato le persone rapite, i sequestri si erano sempre risolti con la liberazione dell’ostaggio. Circostanza che indusse probabilmente in errore gli analisti del Viminale.
In una intervista del maggio 2007, raccolta da Gianluca Cicinelli per L’Indipendente, Bruno ha sostenuto – forse per attenuare la portata del proprio errore – che la tesi della sindrome di Stoccolma era stata escogitata per fornire una via di uscita onorevole a Moro, una volta riottenuta la libertà. Separarlo dalle sue parole sarebbe servito a tutelarne il futuro politico, la sua carriera istituzionale: «Il mio scopo era di fare in modo che se Moro fosse stato liberato, con la scusa della sindrome, avrebbe potuto ritrovare un suo ruolo politico all’interno delle istituzioni senza perdere la faccia»(1).
Dettaglio non secondario per comprendere fino in fondo i risvolti di questa vicenda è l’appartenenza di Bruno al Pci, forza politica che più di ogni altra sostenne l’inautenticità delle lettere di Moro mostrando singolari assonanze con gli argomenti utilizzati dal duo Bruno-Ferracuti: oltre alla «mollezza» dello statista Dc nelle riunioni della Direzione del Pci si denunciava l’uso di droghe per manipolare la volontà dell’ostaggio(2). Bruno era entrato nel Sisde, in quota Pci, quando Botteghe oscure negoziò nell’ambito dell’accordo con la Dc le modalità di costituzione dei nuovi servizi di informazione e sicurezza «democratici».
Circostanza che oggi porta a rileggere quei fatti in modo diverso e ad interrogarsi sulla capacità di controllo e condizionamento che il Pci seppe esercitare nei 55 giorni, piazzando suoi uomini nei luoghi dove si prendevano decisioni strategiche. Ecco che allora le interminabili polemiche sull’«americano» Steven R. Pieczenik, il funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), psicologo esperto di guerra psicologica che partecipò anch’egli su richiesta del ministro dell’Interno Cossiga al comitato di esperti, o sull’appartenenza di Ferracuti (successiva al sequestro) e di altri alla P2, sembrano aver intorpidito le acque invece di schiarirle.

Note
(1) Per una ricostruzione più approfondita del contesto di questa vicenda leggi, «Novembre 1977, Aldo Moro chiede aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse», in La polizia della storia,la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, cap. 5, «Appunti sul rapimento Moro, pp. 53-59, Deriveapprodi 2022.
(2) Leggi in porposito «La posizione del partito comunista», in Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Parte terza, cap. 3, pp. 401-454, Deriveapprodi 2007.

Persichetti racconta la sua storia processuale in “La polizia della storia”

Recensioni – La storia del sequestro del suo archivio, la girandola di imputazioni, la caccia al reato inesistente, il tentativo di imbavagliare la ricerca storica indipendente, le ultime acquisizioni sul rapimento Moro, una critica serrata delle narrazioni dietrologiche, un bilancio spietato dei lavori della Commisssione parlamentare Moro 2, il tutto raccolto in un racconto avvincente e pieno di colpi di scena. Il 5 maggio nelle librerie, in prevendita su tutti gli store online

Frank Cimini, il Riformista 30 aprile 2022

La polizia della storia è il titolo di 281 pagine, editore Derive Approdi, 20 euro, in libreria dal 5 maggio con cui Paolo Persichetti racconta il suo caso che la dice lunga sulla qualità della nostra democrazia, dalla Prima Repubblica fino ai giorni nostri. Come se non fossero passati ben 44 anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro, il fatto intorno al quale ruotano le parole del ricercatore che ormai quasi un anno fa subì i sigilli al suo archivio, il più pericoloso del mondo. E non ha ancora riavuto dall’8 giugno del 2021 “il maltolto” dove era compresa pure la certificazione medica di Sirio il figlio diversamente abile.
Paolo Persichetti combatte da anni la battaglia contro la dietrologia spiegando che il fenomeno non riguarda solo il passato ma il presente e il futuro di questo paese. Persichetti è coinvolto in una vicenda giudiziaria dove il capo di incolpazione ha subito cinque modifiche e visto l’eliminazione del reato più grave, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo attraverso la violazione del segreto di carte della commissione parlamentare sul caso Moro che segrete non erano. L’inchiesta è coordinata dal pm Romano Eugenio Albamonte lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei brigatisti condannati per via Fani e altre persone nell’ambito di una caccia a complici ulteriori veicolando il sospetto che servizi segreti nazionali e esteri avessero avuto un ruolo nella vicenda con cui la Prima Repubblica cominciò a morire.
“L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile diventa il nuovo modo di giustificare una contronarrazione che si pretende autonoma libera e indipendente dai ‘poteri’ – scrive l’autore – È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni, uno schema cognitivo che riporta ai tempi dell’Inquisizione…. L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraverso le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.
Va ricordato che la dietrologia non è un fenomeno solo italiano. Basti pensare a quanto accaduto intorno all’11 settembre. Ma il nostro è per molti aspetti un paese almeno un po’ particolare perché il capo dei dietrologi sta al Quirinale fa pure il presidente del Csm che quasi ogni 16 marzo e 9 maggio insiste: “Bisogna cercare la verità”. Come se cinque processi non avessero accertato anche dalle deposizioni di “dissociati” e “pentiti” che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse. “Esiste in questo paese un organismo che si chiama polizia di prevenzione il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica se non addirittura per prevenirla segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi” scrive nella prefazione Donatella Di Cesare aggiungendo di “una gendarmeria della memoria che assenza una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero, da una parte i buoni dall’altra i cattivi”.
“Il tratto di strada che il 16 marzo del 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del nord insieme a dei giovani romani dare l’assalto al convoglio di auto che trasportavano l’onorevole Moro non trova pace. Questo fatto storico non è accettato ancora dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili che nei decenni si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro” chiosa l’autore. E per questa ragione domenica 22 febbraio 2015 la zona fu sottoposta a scansione laser dalla polizia scientifica. I nuovi rilievi fecero emergere l’assenza di novità. In via Fani agirono le Brigate Rosse. Solo loro. Ma dirlo, riaffermarlo, ribadirlo è pericoloso. In pratica come dimostra la vicenda di Paolo Persichetti un reato.

Le marché de la vérité

La recherche d’une vérité manquant encore à l’appel aura été une des justifications les plus rappelées dans l’orgie de commentaires ayant accompagné la nouvelle de la rafle des exilés italiens des années 1970, à Paris ces jours-ci. Parmi les voix les plus autorisées, on aura remarqué celle du nouveau ministre de la Justice, Mme Marta Cartabia, accompagnée de nombreux représentants du “parti des victimes du terrorisme”. La page historique des années 1970 ne peut être encore fermée -soutiennent ces nouveaux soldats de la vérité- sans que ne soit d’abord fait la lumière sur les faits de la lutte armée. Cet établissement de la vérité ne peut du même coup être séparé de l’exécution de la peine, unique moyen -à ce qu’on comprend de leurs arguties- d’arriver à la vérité.
Affirmation à la portée implicite inquiétante : rappeler que la vérité serait ontologiquement liée à la punition ouvrirait des scenarii totalitaires qui ne semblent pourtant pas avoir déclenché d’alarmes. Qui demande la vérité de cette façon ne promeut en aucune façon un parcours de connaissance mais cherche une confirmation de ses propres préjugés, par addition autoritaire. Une vérité préconçue dont les présumés coupables devraient s’accommoder. Soit l’exact inverse de la vérité historique, qui est, au contraire, un processus libéré des conditionnements, où l’on creuse à la recherche de sources nouvelles, et où se réélaborent et se confrontent dans l’espace publique les sources les plus dignes d’intérêt. Ce qui est en revanche proposé par les milices de la vérité punitive est un marché des vérités, le marché des vérités opposables, vérités qui changent avec les changements de majorités électorales et de couleurs politiques.
La chose la plus absurde consistant à voir la plus haute autorité de la Justice promouvoir la demande d’extraditions, en utilisant pour ce faire tous les subterfuges possibles pour contourner les prescriptions là où l’inexorable écoulement du temps les a déjà sanctionnées (au vu de l’invention de la délinquance habituelle), sur la base de sentences qui reconstruisent une vérité judiciaire avec de lourdes conséquences pénales, et, immédiatement après, entendre dire que ces coupables doivent encore dire la vérité, une vérité qui ne peut donc être différente de celles qui ont été sanctionnées dans les sentences rendue (quand on pense au fait qu’il soit illégal de discuter publiquement de décisions de Justice, une fois celles-ci rendues).
Mais s’il est ainsi que vont les choses, quelle légitimité ont donc les demandes d’extraditions fondées sur des sentences de justice établies sur des semblants de vérités?
Une fois en prison après mon extradition de l’été 2002, je rétorquai la même question au magistrat de surveillance qui, en s’érigeant en 4° degré de jugement, me demandait la vérité, qui se serait, à défaut, toujours opposée à la concession de quelque mesure alternative que ce soit. «Si vous me formulez cette demande -répondis-je-, je voudrais bien savoir sur la base de quelle vérité judiciaire ai-je été condamné?». Cela ressemblait à une de ces pages de Lewis Carrol, dans Alice au pays des Merveilles, «d’abord la condamnation, puis l’établissement des faits». Evidemment, ça s’est terminé de la pire des façons. 
Qui prétend qu’il y ait encore des mystères ait au moins la cohérence de briguer l’annulation des vieilles condamnations et des vieux procès. On ne peut pas demander à la fois une vérité nouvelle et s’entêter à maintenir d’aussi vieilles accusations de culpabilité. 

Traduit de l’italien par Boudjemaa Sedira, samedi 1er mai 2021

Vogliono cancellare l’esilio perché è stato la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione

Paolo Persichetti, Adnkronos 28 aprile 2021

“Questo Paese appena cinque anni dopo la guerra ha dato amnistia e indulto a membri delle bande di fascisti che torturavano. E vogliamo parlare dell’armadio della vergogna? Sembra che solo i reati degli anni ’70 siano imprescrittibili, perché i protagonisti di quegli anni sono i vinti della storia”. A parlare all’Adnkronos è Paolo Persichetti, negli anni ’80 nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti, primo (e unico, al momento) ex terrorista estradato in Italia dalla Francia, che, commentando gli arresti di oggi, sottolinea: “La messa in discussione dello Stato, il crimine rivoluzionario, è quello che non perdonano, anche se quella rivoluzione è fallita e tutti lo sanno, dunque non c’è nemmeno un pericolo di ‘memoria’”.

“L”esilio’ – dice Persichetti, parlando di una esperienza che ha vissuto in prima persona – non dico che è una forma di pena ma è certamente un percorso di difficoltà, di sofferenza: vivi senza permessi, senza lavoro, non è che sei lì a fare la bella vita, anche se poi magari la propaganda ti dipinge a mangiare ostriche e champagne. In Francia non ho mai avuto assistenza medica, non avevo i soldi per fare nulla, quando vivi sans papier è così”. E tuttavia, racconta l’ex terrorista parlando dei fuoriusciti, “quelle persone anche restando lì sono riuscite a dare un valore aggiunto alla loro vita. Roberta Cappelli, ad esempio, lavora da tanti anni come educatrice in una scuola per bimbi disabili: era un architetto, si è riconvertita, ha acquisito nuove competenze ed è diventata una riabilitatrice, una figura fondamentale per tante mamme con figli in difficoltà. Marina Petrella, invece, ha un’associazione che fa un lavoro sociale enorme, si occupa di anziani e persone in difficoltà, fa attività di sostegno sul territorio”.
“Che senso ha ora distruggere tutto ciò? La pena deve avere una funzione socializzante, riabilitativa. E in qualche modo l”esilio’ ha avuto lo stesso effetto – sottolinea Persichetti, oggi ricercatore storico -: è stata la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione, e una prova vincente. Il problema è che questo dimostra l’inutilità del sistema sanzione e del sistema giustizia come lo concepiamo. Ecco allora che dopo 40 anni lo Stato riafferma un potere su persone di 65 anni e più, che minimo dovranno fare 10 anni di carcere per avere benefici. Che senso ha? Il rapporto tra il tempo e la giustizia non può essere infinito”.

Quando la ricerca storica fa paura

Insorgenze

L’ultima relazione dei Servizi di sicurezza per l’anno 2019, depositata in parlamento nelle scorse settimane (leggi qui), punta l’indice contro la ricerca storiografica indipendente sugli anni 70. A preoccupare gli apparati di sicurezza è la presenza di una lettura non omologata di quel periodo, etichettata come «propaganda», rispetto alle versioni storiografiche ufficiali. Il pericolo – scrivono gli estensori del testo – è quello di «tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti», un «impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili» che – sempre secondo i Servizi –  rischia di trovare consensi «nell’uditorio giovanile». Quel decennio, nonostante il quasi mezzo secolo trascorso, suscita ancora grossi timori in settori di peso delle istituzioni che pretendono di mantenere una tutela etica sul periodo, estendendo all’infinito la logica emergenziale fino ad occupare il campo della conoscenza del nostro passato più prossimo. In un solenne discorso pronunciato il 9 maggio 2009, in occasione della “giornata in memoria delle vittime delle stragi e del terrorrismo”, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva chiesto il bavaglio verso una parte dei protagonisti di quel periodo1. «Chi controlla il passato controlla il futuro», scriveva Georges Orwell in un felice passo del suo 1984

Da alcuni anni è venuto meno il monopolio delle fonti, in passato nelle mani solo della magistratura e delle commissioni parlamentari con la loro scia di consulenti e periti che hanno elaborato il più delle volte narrazioni mistificatorie. Alla voce importante dei testimoni ora si è aggiunta questa importante novità: un’apertura che contiene i germogli di una nuova primavera storiografica. Non è cosa da poco tornare ad una attività di ricerca che rifugge rappresentazioni monocromatiche e sottopone a critica il paradigma penale che ha fatto della visione poliziesca e complottista la chiave di lettura di quegli anni. Agli apparati, come ai dietrologi, tutto ciò non piace. Per decenni l’accesso riservato alle carte aveva messo nelle loro mani un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, totalmente stabilizzatore, una narrazione ostile alla storia dal basso, che nega alla radice l’agire dei gruppi sociali fino a negare la capacità del soggetto di muoversi e pensare in piena autonomia, secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale, dando vita ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico.

1 Discorso tenuto nel corso della celebrazione della terza giornata della memoria delle vittime di stragi e terrorismo, «Lo Stato democratico, il suo sistema penale e penitenziario, si è mostrato in tutti i casi generoso: ma dei benefici ottenuti gli ex terroristi non avrebbero dovuto avvalersi per cercare tribune da cui esibirsi, dare le loro versioni dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni».

Il passo, p. 199, della “RELAZIONE SULLA POLITICA DELL’INFORMAZIONE PER LA SICUREZZA 2019”

«L’attività di costante monitoraggio informativo assicurata dal Comparto intelligence ha rilevato, in linea di continuità con gli ultimi anni, il proseguire dell’impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti. La propaganda si è in particolare rivolta, in un’ottica di proselitismo, a un uditorio giovanile, con un occhio di riguardo alla composita area dell’antagonismo di sinistra, sulle cui sensibilità risulta tarata una lettura trasversale, in chiave rivoluzionaria, dell’“antifascismo”, dell’“anti-imperialismo”, dell’“antimilitarismo” nonché delle questioni correlate al disagio sociale, dall’emergenza abitativa a quella migratoria, passando per le criticità del mondo del lavoro».

 

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Moro e quella concitata sera del 15 marzo 1978

296100968_10224737736284367_8248193915251431220_nPer capire il comportamento politico tenuto dalle maggiori forze politiche nei giorni del sequestro Moro bisogna osservare con attenzione quel che avvenne la settimana precedente, quando la lunga trattativa condotta da Moro per il varo dell’ennesimo governo Andreotti giunse a termine. Con una maestria incredibile, dopo aver estenuato gli emissari del Pci, Moro con colpo di mano finale cambiò la carte in tavola a tempo ormai scaduto cancellando dalla lista dei nuovi membri del governo i tre ministri indipendenti di sinistra che il segretario della Dc Zaccagnini e il primo ministro incaricato Andreotti avevano negoziato con il Pci. Tempo prima, all’ambasciatore americano Richard Gardner, il leader Dc aveva spiegato di ritenere «necessario guadagnare altro tempo. Ci sarebbe voluto almeno un anno per creare un clima elettorale in cui il Pci avrebbe subito una pesante sconfitta e la Dc una netta vittoria. Il trucco stava nel trovare un modo per tenere il Pci in una maggioranza parlamentare senza farlo entrare nel Consiglio dei ministri». Nei tre precedenti incontri che si erano tenuti lungo tutto il 1977, Moro aveva spiegato al diplomatico Usa che da parte democristiana non c’era mai sta la volontà di condividere il potere con i comunisti, ma che la situazione economico-sociale e la forza elettorale che avevano raggiunto imponevano delle concessioni. Non potendo andare ad elezioni anticipate, che avrebbero rischiato di rafforzare ulteriormente il Pci, bisognava mantenere le redini del governo, aprendo ai comunisti l’ingresso nella maggioranza e coinvolgendoli nella elaborazione di un programma di governo senza concedere loro alcun ministero. Una strategia rivolta ad impegnare il Pci nella difesa dello Stato avvalendosi della sua capacità di fare argine contro la protesta sociale

Moro scorta«Quel mercoledì ero stato quasi tutta la serata col presidente. I comunisti contestavano che il governo era stato fatto col bilancino, assecondando le pretese di tutte le correnti Dc. Moro era convinto che non si potesse fare altrimenti, che solo a quelle condizioni la Dc poteva accettare che i comunisti entrassero nella maggioranza. A un certo punto mi disse: “Il Pci deve sapere che può essere solo così”». Tullio Ancora, consigliere di Aldo Moro, incaricato di tenere i rapporti con Botteghe oscure1, racconta in questo modo l’ultima sera di libertà del Presidente della Dc nello studio di via Savoia 88, base operativa della sua corrente, dove si riuniva con i suoi fedeli collaboratori. Un appartamento di 240 metri quadri, sette stanze e sei armadi blindati nei quali conservava documentazione di varia natura, anche dossier – si scoprì dopo la sua morte – di proprietà dello Stato (e che, dunque, non dovevano trovarsi lì). Fascicoli che decenni dopo richiesero mesi di lavoro alle Commissioni incaricate della stesura di un inventario. Tullio Ancora aggiunge: «Andammo avanti a lavorare fino alle 22. L’ultimo incarico che mi diede Moro, a tarda sera, fu di avvertire Berlinguer che, al di là delle perplessità, quella lista la dovevano accettare così com’era, altrimenti saltava il governo. Mi incontrai con Barca di notte, ma prima di quel messaggio a Berlinguer, all’indomani, arrivò la notizia del rapimento e dell’uccisione della scorta»2. Congedato Ancora, Moro si attardò ulteriormente rimanendo a parlare con il suo collaboratore Nicola Rana: «Io e l’onorevole Moro la sera del 15 siamo rimasti a chiacchierare all’uscita di via Savoia fino alle 23-23.30 proprio perché Moro diceva: “Rana, mi raccomando, domani, non appena finiamo…”. Avevamo le tesi di laurea da discutere il 16 mattina, ragion per cui Moro aveva deciso di fare un passaggio alla Camera, di sentire il discorso di Andreotti e poi per le 11 di essere all’università, dove avevamo 12 allievi da laureare»3.
Secondo alcune testimonianze, intrattenersi fino a tardi nello studio di via Savoia era per Moro una consuetudine. Anni dopo Francesco Cossiga rivelò che questa sua abitudine era un modo per tenersi lontano dalle tensioni familiari4, ma quella sera del 15 marzo la famiglia non c’entrava nulla, era in ballo il futuro del nuovo governo monocolore guidato da Andreotti. I segnali di forte insofferenza che stavano montando tra i dirigenti comunisti preoccupavano il dirigente democristiano perché avrebbero potuto ripercuotersi in parlamento, privando il nuovo esecutivo del voto di fiducia del Pci.

Incontro nella notte
Anche Luciano Barca5, che nelle settimane precedenti aveva preso parte a due incontri riservati tra Moro e Berlinguer, ha raccontato quel che avvenne quella lunga sera. A mezzanotte squillò il telefono di casa. All’altro capo del filo c’era Ancora che voleva vederlo subito nonostante l’ora tarda. I due abitavano vicino e si vennero incontro a metà strada. Barca prese appunti tenendo il foglio su un cofano d’auto6: «Moro è preoccupato delle riserve che sono state formulate dal Pci alla lista del governo e fa appello a Berlinguer affinché non si riapra il dibattito che faticosamente i gruppi parlamentari Dc hanno appena chiuso. […] Decido che è inutile svegliare Berlinguer (che tra l’altro non ama parlare per telefono e in sedi non proprie: tutti i miei resoconti e tutte le discussioni sulle risposte da dare hanno avuto come unica sede il suo ufficio di Botteghe Oscure, spesso con la partecipazione di Bufalini o Natta) e batto a macchina l’appunto per consegnarglielo al mattino»7. L’incontro quel mattino non ci fu, quel messaggio giunse a Berlinguer molto più tardi. La notizia dell’azione di via Fani modificò radicalmente la situazione. Racconterà Berlinguer: «Mi trovavo nella sede del gruppo comunista alla Camera, nella stanza dell’onorevole Natta, quando, intorno alle 9 e un quarto entrarono per darci la notizia prima il giornalista Angelo Aver, di “Paese Sera”, e immediatamente dopo l’onorevole Di Giulio. Entrarono successivamente altri compagni, altri collaboratori. Dopo una brevissima consultazione, decidemmo di recarci immediatamente a Palazzo Chigi dove trovammo che erano già convenuti o stavano convenendo numerosi esponenti politici e ministri. In quel momento, nelle stanze di Palazzo Chigi c’era una certa confusione»8. Fu dunque la circostanza eccezionale del rapimento, come si può leggere nelle parole di Giorgio Napolitano tenute in apertura della riunione di Direzione del 16 marzo, che spinse il Pci a tralasciare ogni riserva sulla composizione del governo e votare la fiducia: «Nella riunione di emergenza avvenuta stamane, poco dopo le 10 tra il Presidente del ConsiglioAndreotti ed i Segretari dei partiti dell’arco democratico, si è convenuto di accelerare all’estremo tutto l’iter della fiducia per fare in modo che il governo la ottenga entro la nottata dai due rami del Parlamento, per esplicare i suoi compiti gravi e delicati con pienezza di poteri. […] Berlinguer farà un intervento molto breve, sotto i 30 minuti concordati, nel quale darà risalto alle questioni dell’emergenza, quella più generale e quella di punta ora, e farà appello alla solidarietà democratica»9.
Si trattò di una improvvisa accelerazione politica che nel giudizio di alcuni storici è la prova di come in quei giorni si produsse «un’adesione comunista, per molti versi definitiva, alle istituzioni della democrazia italiana»10. Una valutazione analoga venne anche da Mario Moretti, che nel libro intervista con Rossanda e Mosca riconobbe la propria sorpresa davanti al livello di integrazione istituzionale ormai raggiunto dal Pci. I brigatisti, sbagliando, ritenevano che l’operazione Moro avrebbe suscitato una crisi difficilmente gestibile all’interno del Pci, favorendo uno scollamento tra i vertici del partito e una base che aveva mostrato segni di insofferenza di fronte alla strategia del compromesso storico11. Anche Moro – racconta sempre Moretti – all’inizio della sua prigionia «sta a vedere quel che succede, esattamente come noi. E quel che succede è sorprendente, sconvolgente. Anche lui ha bisogno di pensarci. [Per questo rimarrà] prima sorpreso, poi incredulo, sconcertato, irritato. Sempre lucidissimo però […] convinto che il blocco si smuoverà da quella chiusura solo se la Dc avrà un’iniziativa, si muoverà per prima. E comincia la sua battaglia politica con il suo partito»12.

L’intransigenza di Moro e la rabbia cupa del Pci
L’ingresso del Pci nella nuova maggioranza di governo, dopo la difficile parentesi del «governo delle astensioni»13, era stato pagato con un alto prezzo politico proprio a causa della rigida posizione di Moro. Negli ultimi giorni che precedettero il 16 marzo: «si chiarì che nel nuovo esecutivo non sarebbero mai stati inseriti né esponenti di altri partiti[…] né “tecnici di area”, come richiesto dai repubblicani, malgrado i tentativi in questo senso di Andreotti»14.
Dopo estenuanti trattative, la lista dei ministri era stata resa pubblica alle 21.00 di sabato 11 marzo. Alle 17.00 il presidente del Consiglio incaricato si era recato al Quirinale per sciogliere la riserva, ma c’erano volute ancora tre ore di negoziato per riempire le ultime caselle. Nonostante gli impegni assunti durante le trattative il monocolore democristiano si riproponeva senza novità: una tradizionale compagine suddivisa rigorosamente per correnti, secondo criteri del passato: 13 dorotei, 7 fanfaniani-forlaniani, 6 morotei, 6 forzanovisti, 4 basisti, 4 andreottiani, 3 del gruppo Rumor-Gullotti, uno per Colombo: Il «ministero delle anime morte» titolava un editoriale de «la Repubblica» il giorno dopo15. Non una delle richieste avanzate dal Pci, che pure lo stesso Andreotti, con Zaccagnini, avevano appoggiato, era stata accolta e ciò per una precisa volontà di Moro, che per garantire l’unità della Dc e fare fronte ai veti del Psdi aveva corretto la lista dei ministri reintroducendo nomi di esponenti politici democristiani per nulla graditi ai comunisti. Una sorpresa amara per Botteghe Oscure, che troppo presto aveva dato per vinta la partita. Completamente spiazzato apparve, infatti, il commento positivo di Natta apparso su «l’Unità» del 12 marzo, dato al giornale prima che venisse diffusala lista ufficiale dei ministri: «Pur nei limiti del monocolore, noi abbiamo ritenuto l’opportunità della presenza di personalità indipendenti di prestigio e della corrispondenza della compagine governativa alla esigenza di impegno, di capacità operativa e di coerenza con lo sforzo eccezionale e con la solidarietà occorrenti. Mi sembra anzi che questa sia la garanzia prima di un rapporto corretto e positivo tra governo e maggioranza, tra indirizzo ed esecuzione»16.
Di fronte al fatto compiuto il commento di Chiaromonte fu ben diverso: «Una lista desolante. Pochissimi cambiamenti, e di non grande peso politico. Alcuni trasferimenti da un ministero all’altro, peraltro incomprensibili nelle loro motivazioni. La maggioranza dei ministri confermata: anche quelli, come Donat Cattin e Bisaglia17, ostili apertamente e combattivamente alla politica di solidarietà democratica. Nessun tecnico indipendente al di fuori di Ossola, che faceva già parte del precedente governo. A molti sembrò una sfida ai comunisti e alla nuova maggioranza parlamentare»18.
Tra i tecnici indicati dal Pci, non c’era il nome di Luigi Spaventa, economista, eletto in parlamento come indipendente nelle liste del Pci19. Le valutazioni positive di Natta furono tanto più imbarazzanti perché «l’Unità» pubblicò sotto al suo intervento la lista dei ministri con un commento molto severo: «Ancora una volta la Democrazia cristiana si è dimostrata incapace di superare la logica delle correnti, le pressioni e le pretese dei gruppi, e di far corrispondere la scelta e la collocazione degli uomini a esigenze generali di qualificazione e di organicità dell’azione di governo nell’interesse del Paese»20. Quelle parole mettevano a nudo l’ingenuità della strategia comunista e la cosa divenne ancora più rimarchevole alla luce dei commenti apparsi nei giorni successivi sugli altri quotidiani: un fondo di Scalfari su «la Repubblica» del 16 marzo descrisse i malumori nel Pci: «dirigenti furibondi, negoziatori messi sotto accusa […] militanti delusi», e chiamò in causa il complesso di inferiorità del Pci riguardo alla propria legittimazione: «I comunisti sono stati talmente cauti da aver consentito, in nome della cautela, la nascita di uno sgorbio ministeriale»21. La reazione dei dirigenti di Botteghe oscure è descritta come «aspra» da Giuseppe Fiori nella sua biografia di Berlinguer: «Pajetta telefona ad Andreotti e gli parla severamente. È subito riunita la segreteria comunista con i presidenti dei gruppi. Si discute vivacemente. È anche espressa l’opinione che a questo nuovo governo (ma si ironizza sul nuovo) debba negarsi il voto favorevole. In tutti c’è ripensamento e dubbio»22. Pecchioli ricorda che quella sera «Berlinguer era furibondo. Raramente aveva preso tanto male qualcosa». Pajetta era per la rottura. In ogni caso – riferisce Natta – «pensavamo ad un discorso di Berlinguer molto duro e molto critico»23. La scelta comune, però, è di «lasciare che a pronunziarsi sia la Direzione dopo aver ascoltato Andreotti in Parlamento»24. Secondo Finetti l’intervento d’autorità di Moro avrebbe creato dissapori con Zaccagnini, «che infatti, quella sera, abbandona il suo ufficio dissociandosi da Moro e ventilando le dimissioni da segretario»25. Un attrito che avrebbe suscitato nei vertici del Pci l’attesa «di una presa di distanza da Moro» del segretario della Dc e di Andreotti. Gianni Gennari, molto vicino a Zaccagnini nei giorni del sequestro, ha confermato l’insofferenza e il forte dissenso di Zaccagnini per le scelte di Moro e non solo e la sua volontà di dimettersi dal ruolo di segretario: «Mi disse più volte che non era contento di come erano andate le cose per la soluzione politica di quella crisi di governo. Neppure era convinto della composizione del nuovo governo Andreotti che proprio la mattina della strage si era presentato alla Camera. Anche un recente “rimpasto” degli organi di partito – di cui pure era lui il segretario – non lo aveva soddisfatto…Avevano combinato tutto Moro e Andreotti. Lui aveva preso la decisione, quindi, e me lo disse chiaro, di dare le dimissioni da segretario. Dunque se le Br non avessero rapito Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, appena varato il governo Andreotti con il Pci nella maggioranza si sarebbe dimesso da segretario della Dc. Per la cronaca lo ha scritto una volta anche Enzo Biagi, nero su bianco, mai smentito da qualcuno…Zac voleva tornare a Ravenna, a fare il pediatra. Era stanco di quella politica, che aveva voluto anche lui, ma di cui troppe cose, troppe persone, troppe vicende concrete non gli piacevano. Lo aveva detto anche a Moro, e negli ultimi giorni qualche colloquio non era stato del tutto normale. Zaccagnini era inquieto, e ne aveva detto le ragioni precise: inascoltato, nel partito di cui pure era segretario e nel governo…Ma le Br rapirono Moro, e lui fu costretto a restare. In quelle condizioni le sue dimissioni divennero impossibili»26.
Finetti aggiunge anche un retroscena: «Scalfari in quelle stesse ore parte all’offensiva di Moro accusandolo di essere lui a celarsi dietro il nome in codice «Antelope Cobbler» della lista delle tangenti della Loockhed, pubblicando in terza pagina un articolo intitolato, Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della Dc27. A dire il vero questa informazione apparve anche su altri quotidiani, come il «Corriere della sera», «La Stampa» e «Il Giorno». Il numero de «la Repubblica», comunque, venne immediatamente ritirato dalle edicole dopo la notizia del sequestro e sostituito con una edizione straordinaria nella quale non troverà più posto l’articolo che chiamava in causa Moro28.

Brigate rosse, dalle Fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017


Note
1
La testimonianza della sua attività come emissario delle diplomazia segreta con il Pci si può leggere in T. Ancora, Enrico, perché senza scorta; in Enrico Berlinguer, a cura di R. Di Blasi, pp. 110 e segg., Editrice l’Unità, Roma 1985.
2 I due passaggi sono tratti da «Avvenire», 7 maggio 2008, Moro e il Pci, un’amicizia travolta dal rapimento, intervista di A. Picariello a Tullio Ancora e Enrico, perché senza scorta, cit. p. 111.
3 Audizione di Nicola Rana, CM2 Martedì 16 febbraio 2016.
4 «Se Moro ti incontrava alle dieci di sera eri fottuto perché ti teneva a discorrere fino a mezzanotte pur di non tornare a casa presto. Lui tornava a casa all’una e si faceva un uovo al tegamino», in L’uomo che non c’è, intervista di Claudio Sabelli Fioretti a Francesco Cossiga, Aliberti editore 2007. Anche Nicola Rana in CM2, audizione del 16 febbraio 2016, fece un accenno ai problemi familiari: «Quel giorno, il 15 marzo, era accaduta soltanto una cosa che teneva la preoccupazione di Moro. C’era stata una lite.[…]  Il presidente Moro era preoccupato per alcune questioni familiari, per un litigio che era intercorso proprio quella giornata tra la signora Chiavarelli e la figlia Anna. C’era stato un fortissimo litigio».
5 Parlamentare e membro della Direzione del Pci, esperto di politica economica, incaricato dal segretario del Pci E. Berlinguer di tenere i contatti con l’entourage di Moro.
6 La scena è raccontata in questo modo da G. Fiori in, Vita di Enrico Berlinguer, cit. pp. 352-353.
7 L. Barca, «Gli incontri segreti con Moro», in Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, 1985, p.107.
8 Commissione Moro 1, audizione di Enrico Berlinguer, vol. 5, p. 350.
9 FG, APC, microfilm 7805, verbale Direzione del 16 marzo 1978, numero 8, fogli 3-4.
10 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 14.
11 M. Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Anabasi, Milano (prima edizione) 1994, pp. 144-146.
12 Ibid.
13 Giuseppe Fiori riassume così il bilancio del Pci sull’accordo di programma a cui aveva preso parte in cambio della propria «non sfiducia»: «Una scatola vuota; peggio un recipiente dove la Dc mette poco del pattuito e parecchie sue convenienze. In Parlamento rimanda, sabota, snatura punti del programma sui quali s’era raggiunta l’intesa dopo trattative estenuanti: la riforma sanitaria, l’equo canone, i patti agrari, il sindacato di polizia, i nuovi poteri degli enti locali. I singoli ministri agiscono senza considerazione alcuna per i partiti dalla cui astensione derivano il potere, e lo si vede nelle nomine pubbliche, spesso scandalose, sempre di bottega»; G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 341. Opinione condivisa anche da Francesco Barbagallo che scrive: «Il Pci usciva molto provato dalla esperienza governativa del 1977. In mancanza di provvedimenti riformatori sul terreno dello sviluppo, del Mezzogiorno, dell’occupazione e dell’organizzazione del lavoro, era diventato bersaglio della protesta giovanile, del disagio operaio, della delusione degli strati intermedi e intellettuali»; F. Barbagallo, «Il Pci dal sequestro di Moro alla morte di Berlinguer», in L’Italia Repubblicana nella crisi degli anni 70. Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa e G. Monina, Rubettino, Soveria Mandelli 2003, p. 80.
14 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 34. Egli cita in particolare una nota riservata di Luciano Barca a Berlinguer e Chiaromonte del 5 aprile 1978 in FG, APC, microfilm 7804, f. 0016.
15 «la Repubblica», 12 marzo 1978.
16 «l’Unità», colloquio con Alessandro Natta, Mettere a frutto le maggiori possibilità di rinnovamento, 12 marzo1978.
17 Il primo all’Industria, il secondo alle Partecipazioni statali.
18 G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica. Cronache, ricordi e riflessioni sul triennio 1976-1979, Editori riuniti, Roma 1986, p. 100. L’espediente dei «tecnici indipendenti» doveva celare, in realtà, il coinvolgimento nel governo di ministri graditi al Pci.
19 A rivelare la circostanza è l’ambasciatore statunitense Gardner che riporta il contenuto di un colloquio con Amintore Fanfani del 18 dicembre 1977, R.N. Gardner, Mission Italy, cit., p. 179.
20 «l’Unità», 12 marzo 1978.
21 E. Scalfari, La firma di Natta non vale una messa, «la Repubblica», 16 marzo 1978.
22 G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 352.
23 C. Valentini, Berlinguer, Editori riuniti, Roma 1997, p. 285.
24 G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 352.
25 L’episodio sembra trovare, tuttavia, una smentita indiretta nelle parole di Moro presenti nella sua ultima lettera a Zaccagnini del 5 maggio 1978, non consegnata, dove scrive: «Essendoci lasciati in ottima intesa la sera del martedì», intendendo il giorno prima di mercoledì 16 marzo.
26 Teologo, consigliere di Berlinguer per gli affari religiosi, predispose il testo della lettera ai cattolici Italiani, inviata il 7 ottobre del 1977 al vescovo di Ivrea, Monsignor Bettazzi. La testimonianza di Gennari su Zaccagnini è apparsa su «La Stampa», 15 luglio 2012.
27 U. Finetti, Caso Moro, trent’anni di mistificazioni, in «Critica sociale», 13 marzo 2008.
28 «la Repubblica», 16 marzo 1978 (edizione ordinaria).

Per saperne di più
Diario del sequestro Moro