Vedi Paolo…

Tratto da Esilio e Castigo, retroscena di una estradizione, La città del sole, 2005

 

I passati rivoluzionari faticano a diventare storia. Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria. Non un passato che torna ma un futuro che manca

 

Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillamte successo operativo dopo l’attentato mortale contro un collaboratore del governo. Marco Biagi era stato ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un Paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi.

Capitolo V

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Additare al pubblico una figura da crocifiggere, un capro espiatorio su cui riversare la brigatista_persichetti_260802colpa, è parso nel settembre 2002, la soluzione più comoda, l’espediente più facile. E maledetti allora quelli che non si fossero allineati e che da sempre rompevano le righe, come Erri De Luca che conosceva molto bene i fuoriusciti. In una «Lettera a un detenuto politico nuovo di zecca», pubblicata sul Manifesto del 5 settembre, scriveva: «Vedi Paolo, questi poteri hanno bisogno di te[…] di lotta armata si sa tutto, ma si finge di non sapere ancora fino in fondo, per mantenere il fascino in un’opera al nero che ancora sobbolle[…] Tu quarantenne sei quanto di meglio offre il mercato. Sei la selvaggina allevata nella semiprigionia dell’esilio francese[…] Di recente mi hanno chiesto con sincero stupore come mai avevo scritto la prefazione al libro di Scalzone e tuo, Il Nemico inconfessabile. Oggi le parole, i libri tornano ad avere il rispettabile peso del sospetto, e una prefazione può già fornire il brivido del reato associativo. Oggi mi sento associato ai residui penali degli anni Settanta e Ottanta molto più di prima e molto più di una prefazione».

Lo «stupore» a cui accennava De Luca virò presto all’odio. Un illividito Mario Pirani, dal giornale faro di ogni emergenza, sputò fiele. «Ex-BR e ‘cretini’ di ieri e di oggi», titolava un suo fondo apparso sulla Repubblica del 9 settembre. L’articolo era una filippica contro il ritorno dei «pessimi maestri dediti ad inquinare la capacità di giudizio di larghe schiere delle nuove generazioni». Esulcerato per un editoriale di Le Monde uscito in quei giorni e schierato in difesa della dottrina Mitterand, nel quale si ricordava che «la classe politica italiana era ricorsa ad una serie di leggi eccezionali che limitavano gravemente le libertà costituzionali», Pirani rispondeva ai giornalisti d’Oltralpe citando il titolo di un articolo, «Le crétin Kanapa», scritto da Togliatti negli anni Cinquanta per sbarazzarsi dei continui attacchi che dall’Humanité gli lanciava un esponente del PCF francese, adepto dell’ortodossia staliniana, tale Jean Kanapa per l’appunto. In verità, Togliatti non fece altro che scopiazzare la formula, divenuta famosa in Francia, con la quale tempo prima Jean-Paul Sartre aveva liquidato il suo ex-allievo trasformatosi in un pedante adepto dello zdanovismo: «Le seul cretin, c’est Kanapa!». Con tutta evidenza sbagliavano entrambi per difetto, perché di cretini ce ne sono stati almeno due. I lettori non avranno certo difficoltà a capire dove si annida tuttora il secondo.

La cosa non sfuggì alla polizia di prevenzione che inviò l’articolo di De Luca alla digos romana. Quest’ultima lo segnalò addirittura al procuratore capo Italo Ormanni e al suo sostituto Salvatore Vitello. Ma il grottesco non aveva ancora raggiunto il culmine. La risposta che Persichetti invia a De Luca dalle pagine dello stesso quotidiano, il 13 settembre, suscita allarme al Viminale. Era la prima sortita pubblica dopo l’estradizione, per questo attorno alle sue parole c’era molta attenzione. Decisiva in proposito è la fotocopia di quella lettera presente negli atti dell’inchiesta preliminare. Vi si scorgono le sottolineature del funzionario addetto alla rassegna stampa. Nessuno dei passaggi dedicati alle «professioni e carriere dell’emergenza» sfugge al suo tratto di penna. Ma lasciamo la parola a Persichetti che dopo una premessa arriva al punto:

«Hai ragione Erri, hanno bisogno delle nostre apparenze. Hanno bisogno dei nostri corpi per calzarci addosso i panni dei responsabili di sostituzione che hanno ritagliato per noi. Siamo alle conseguenze del dopo 11 settembre[…], il nemico si è fatto impalpabile, agita ombre, scuote paure, per questo il ricorso a capri espiatori può avere una funzione rassicurante. Dopo Napoli e Genova, dopo Bolzaneto e la Diaz, i vertici della polizia sono stati travolti dal discredito. Le polemiche sulle scorte mancate hanno bruciato un ministro degli Interni e trasformato questori e dirigenti dell’antiterrorismo da inquirenti in indagati. Sotto schiaffo le professioni della specialità e le carriere dell’emergenza hanno dovuto reagire. Da questa bassa cucina è nata la mia estradizione.
Caro Erri, non provo dolore; ancora meno rancore. Osservo i loro gesti come guardassi dei minerali. In fondo hanno bisogno di noi come il vampiro ha bisogno della sua vittima, come il drogato del buco. Ma dalla loro parte c’è solo la forza triste della dipendenza priva d’ogni autonomia e potenza. Senza il collo della sua vittima il vampiro muore. C’è uno scarto che ci rende superiori. Noi non abbiamo bisogno di loro, dobbiamo solo scrollarceli di dosso. Ho letto su un giornale che il capo delle guardie pretoriane avrebbe telefonato per annunciare la mia cattura addirittura nel pieno d’una festa. Pare che abbiano immediatamente brindato e cantato. Sembrava una scena da basso impero, di quelle descritte nel Satyricon. Prima di congedarmi e tornare all’allegro brusio della mia cella affollata, vorrei dire ai potenti e potentati di turno[1]: stiamo tornando uno a uno[2] ma non è il caso di rallegrarvene troppo. Non scenderemo muti nel gorgo, siatene inquieti. La storia sta di nuovo accelerando.»

E qui accade qualcosa di molto particolare che mostra come i piccoli Fouché[3] del Viminale, che stavano spulciando quel testo con la lente d’ingrandimento, concepiscono il loro ruolo all’interno di quello che dovrebbe essere uno Stato di diritto. Stizziti dall’impietoso ritratto che usciva da quella prosa sferzante, vi ravvisano un imperdonabile peccato di superbia, un crimine di lesa maestà, un vero e proprio delitto linguistico. Per questo l’allora dirigente della digos romana, Franco Gabrielli, viene incaricato di segnalare alla procura il passaggio finale della lettera che, nessuno si avvede, è palesemente ispirato a una poesia di Cesare Pavese e non a un comunicato delle br. Parafrasi invertita di «scenderemo nel gorgo muti»[4], verso che il poeta aveva scritto in uno dei suoi momenti di disperazione.

In quel delirante frangente l’assenza di rassegnazione viene letta come una minaccia, un messaggio obliquo, un avvertimento mafioso, un invito alla vendetta lanciato a supposti complici, insomma un’ammissione indiretta della propria colpevolezza. Qualcosa di simile alla “prova diabolica” tanto cara al mondo superstizioso dell’inquisizione. Un classico sospetto proiettivo rivelatore non della natura dell’inquisito ma dell’animo torbido di colui che lo lancia, svelando in questo modo ciò che sarebbe stato capace di pensare e dunque di poter fare. Decisamente le frequentazioni letterarie possono rivelarsi pericolose. Il successivo 14 settembre, Persichetti viene impacchettato («preso per il collo» dicono i carcerati) e spedito in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno, dove resterà per cinque mesi. Qui il 14 novembre riceve una strana lettera anonima, o meglio siglata in modo tale da consentire al misterioso mittente di essere identificato, «qualora decidessi di scriverle ancora». L’anonimo si presentava sotto le vesti di una «studentessa romana di medicina», informatissima sul suo passato giudiziario benché dichiarasse d’aver avuto solo «14 anni» all’epoca in cui egli incappava nel suo primo arresto (1987). L’autore o l’autrice del testo mostrava di avere buone conoscenze anche su vicende più recenti: «la dottrina Mitterand – affermava – era stata confermata da Jospin all’indomani degli accordi di Shenghen e quindi doveva continuare ad essere rispettata per tutti». Nelle quattro pagine stampate con inchiostro verde s’alternavano toni diversi che miravano a convincere il recluso, sprofondato da alcuni mesi nella solitudine dell’isolamento, a «chiedere la grazia e collaborare con la giustizia». Il testo anonimo interloquiva con una sua intervista rilasciata al quotidiano la Stampa del 25 settembre:

«Lei, in quell’intervista, criticava anche le leggi del pentitismo e della dissociazione. Però sedire qualcosa che non disse all’epoca del suo arresto può aiutarla ad uscire dal carcere quanto prima, perché non farlo? La libertà dovrebbe essere una priorità assoluta per un detenuto. Tradire qualche compagno, o, meglio ancora i mandanti di quell’omicidio (facendo così cosa gradita alla vedova Giorgieri), non sarebbe un vero tradimento ma un passo verso il reingresso nella società civile. Per lei gli anni da brigatista sono un periodo finito, nel senso che poi non si è più dedicato ad azioni terroristiche, ma questo non basta. Non basta cambiare rotta, bisogna chiudere i conti col passato, rivelandolo integralmente e soprattutto bisogna condannarlo, ammettere d’aver sbagliato. Mi rendo conto che cambiare strada sia una condanna implicita di quella che si percorreva precedentemente, ma queste cose si devono fare in modo esplicito per essere creduti fino in fondo. Non bastano le interviste a testimoniare di avere una nuova vita, di essere persone nuove, ci vogliono fatti concreti. Sempre in quell’intervista, lei auspicava un’amnistia per tutti voi ex-brigatisti. Io non so se questo è giusto, ma comunque lei sa perfettamente che il suo è un auspicio utopistico. Non ci sarà mai l’amnistia. L’Italia è un paese in cui i terroristi rossi finiscono in galera e ci rimangono e quelli neri o vengono processati dopo vent’anni oppure si godono la vita in Giappone[5]. Le questure, infatti, hanno sempre protetto quelli che seminano il terrore in nome di ideali non comunisti. La cosa è indicativa dello strapotere che le varie armi hanno ed hanno sempre avuto nel nostro Paese. In nome di tutto ciò, pertanto, io la invito, Persichetti, a sfruttare tutte le possibilità che la nostra legislazione le concede per uscire dal carcere al più presto.»

Strano paese l’Italia dove le studentesse di medicina portano lunghi baffi e parlano la lingua dei commissari di polizia. Eccentriche anche quelle domande tanto insistenti su un processo che, essendosi concluso con delle condanne, a rigor di logica avrebbe dovuto definire in modo soddisfacente la verità giudiziaria. Non era certo responsabilità degli imputati, se le motivazioni della sentenza d’appello, che aveva capovolto il giudizio ben più mite emesso dalla corte d’assise di primo grado, erano risultate talmente fragili e poco approfondite, come non mancarono di osservare gli stessi magistrati di Cassazione. Nove persone furono condannate per complicità nell’attentato Giorgieri. Tre di loro si trovavano già in carcere al momento dell’accaduto, detenute da circa due mesi. Altre due, Daniele Mennella e Claudio Nasti, collaboratori di giustizia, vennero lautamente ricompensate per le accuse infarcite di de relato, supposizioni personali, imprecisioni e falsi riconoscimenti, rivolte ai coimputati[6]. I pentiti, tra arresti domiciliari, accesso ai benefici e alle misure alternative, scontarono pochi mesi di carcere. Curioso appariva allora quell’invito a confessare retroscena e circostanze che, a norma di legge, avrebbero dovuto costituire il presupposto della condanna. «Se vuoi uscire devi confessare, fornendo in questo modo quelle prove in grado di legittimare la sentenza per cui sei stato condannato». Più o meno era questo il succo del ragionamento, o forse sarebbe meglio dire il patto infimo, che l’anonimo proponeva nella sua lettera. L’abominio totalitario invadeva quella cella sporca e spartana, una sentina della terra piena di graffiti lasciati da chi in quel luogo era stato sottoposto a lunghe quarantene per spurgare ataviche dipendenze con le droghe, oppure aveva scontato ruvide punizioni. Allungato sulla branda ripiegò i fogli anonimi e riprese in mano il libro che aveva ricevuto proprio in quei giorni. S’immerse di nuovo nella lettura di quelle pagine che descrivevano l‘angosciosa fuga di un uomo braccato dalla feroce soldatesca dei principi luterani che avevano represso nel sangue la rivolta dei contadini anabattisti di Münzer, alla quale anch’egli aveva partecipato. Allora s’accorse di una frase che prima aveva trascurato: «Cercano i reduci. Annientarli, spingerli a confessare ciò che non hanno neanche avuto il tempo di pensare».[7]


[1]D’improvviso il testo si riempie di sottolineature orizzontali e verticali.

[2] I giornali avevano pubblicato una lista di 12 estradandi dalla Francia pronti per la consegna.

[3] «De la merde dans un bas de soie», diceva di lui Napoleone che non per questo disdegnava d’impiegarlo per ogni vil bisogna.

[4] Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1961.

[5] Il riferimento è a Delfo Zorzi, processato e assolto dall’accusa di aver deposto la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana, a Milano. Zorzi da decenni vive in Giappone, dove ha acquisito la nazionalità e avviato una fiorente attività economica.

[6] Come avvenne anche nei confronti dello stesso Persichetti: «L’elemento accusatorio potrebbe essere costituito dalle dichiarazioni di Mennella – scrivevano i giudici della corte d’assise nella loro sentenza – ma a ben vedere, le affermazioni del predetto “collaboratore” non sono costanti[…] Nell’interrogatorio del 31 maggio 1987 (due giorni dopo l’arresto), il Mennella non ha fatto riferimento al Persichetti. Nello stesso giorno, sottoposto ad ulteriore interrogatorio non ha riconosciuto il Persichetti in una foto mostratagli che effigiava, invece, proprio il Persichetti. Ha dichiarato, inoltre, di avere incontrato Locusta a Corso Vittorio insieme ad un altro giovane che non conosceva. Nell’interrogatorio del 2 giugno 1987 ha ribadito di avere incontrato Locusta a Corso Vittorio, non parlando di Persichetti come accompagnatore del Locusta. Ha poi rettificato per quanto riguarda la foto n° 4, dicendo anche di conoscere Persichetti perché partecipante all’inchiesta Giorgieri. Nell’interrogatorio del 5 giugno 1987 ha raccontato degli incontri con la Gioia dopo l’omicidio Giorgieri, non facendo riferimento al Persichetti. Al dibattimento ha dichiarato di aver conosciuto solo di vista il Persichetti nel marzo 1987 e di non averlo più visto. Quest’ultima affermazione è in contrasto con l’altra secondo la quale l’avrebbe incontrato a Corso Vittorio con Locusta. È probabile che per le contraddizioni sopra evidenziate, il Mennella non ricordi esattamente sulla posizione di Persichetti anche per aver detto che lo stesso Persichetti si faceva chiamare col nome di battaglia “Eugenio” e per averlo subito negato su precisa contestazione del Persichetti». (pp. 361-362 della sentenza della 3a corte d’assise di Roma, 14 dicembre 1989).

[7] Luther Blisset, Q, Einaudi 2000.


Per approfondire
Il Patto dei bravi
24 agosto 2002
Erri De Luca, la fiamma fredda del rancore
La polizia del pensiero
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
Vendetta giudiziaria o soluzione politica?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien
Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi
Paolo Giovagnoli, quando il pm faceva le autoriduzioni
Paolo Giovagnoli, lo smemorato di Bologna
Negato il permesso all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

 

 

 

 

 

«Notizie su Euridice». La storia degli anni 70 in forma di poesia

Poche parole per dire molto. Il mito di Euridice reiventato come metafora del decennio 70. E’ l’immagine scelta da Erri De Luca per narrare il tentativo rivoluzionario che ha chiuso il 900 italiano. Carico di densità poetica, il testo ha rappresentato una vera e propria sfida poiché destinato ad apparire sull’agenda 2014 di Magistratura democratica. Non a caso – hanno ammesso i curatori nell’introduzione al brano – «Dopo aver ricevuto e letto questo contributo è stata forte la tentazione di non pubblicarlo perché alcuni passaggi si prestano a interpretazioni ambigue che non vogliamo in alcun modo avallare. Ma povero è il gruppo che censura uno scritto così bello anche se altrettanto controverso». Decisione finale che ha mandato su tutte le furie Giancarlo Caselli. Il procuratore di Torino ha colto a pretesto l’episodio per dare le dimissioni lo scorso novembre dall’organo sindacale di cui è stato per decenni uno dei membri di spicco, anticipando di poco la sua dipartita definitiva dalla magistratura per raggiunti limiti di età.
Caselli si era già scontrato questa estate con De Luca e Vattimo, dopo che questi avevano sostenuto il movimento No tav di fronte alla contestazione da parte della procura piemontese di reati come “l’attentato contro lo Stato” e il ricorso all’aggravante della “finalità di terrorismo”.
De Luca aveva rivendicato, e Vattimo appoggiato, le azioni di sabotaggio dei cantieri e contro l’occupazione militare della Valle Susa. Per tutta risposta Caselli aveva lanciato un appello alla cultura italiana affinché si mobilitasse a sostegno delle indagini della sua procura e contro il «laboratorio di violenza politica» che – a detta sempre della procura da lui guidata – sarebbe rappresentato dal movimento No tav, visto come un pericoloso modello di sperimentazione politica sovversiva capace di forti potenzialità espansive.
Ovviamente gli intellettuali si sono ben guardati dal calarsi in trincea. Solo alcuni ex militanti di Lc sono scesi nella mischia cercando di regolare i conti con De Luca, sostenuti dai soliti grandi organi di stampa, Repubblica, Corriere e gazzette giustizialiste. Da qui la ferocia repressiva contro la carica simbolica che agli occhi di Caselli incarna la vertenza No tav. Una manifesta proiezione della vicenda degli anni 70 su contesti e dinamiche sociali profondamente diversi, solo che stavolta non è più il progetto rivoluzionario il nemico da combattere ma la possibilità stessa di opporsi, la libertà di dire no, di esprimere dissenso.


Notizie su Euridice di Erri De Luca

Euridice alla lettera significa trovare giustizia. Orfeo va oltre il confine dei vivi per riportarla in terra. Ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla. Intorno bolliva il 1900, secolo che spostava i rapporti di forza tra oppressori e oppressi con le rivoluzioni. Orfeo scende impugnando il suo strumento e il suo canto solista. La mia generazione e scesa in coro dentro la rivolta di piazza. Non dichiaro qui le sue ragioni: per gli sconfitti nelle aule dei tribunali speciali quelle ragioni erano delle circostanze aggravanti, usate contro di loro.
C’è nella formazione di un carattere rivoluzionario il lievito delle commozioni. Il loro accumulo forma una valanga. Rivoluzionario non è un ribelle, che sfoga un suo temperamento, è invece un’alleanza stretta con uguali con lo scopo di ottenere giustizia, liberare Euridice.
Innamorati di lei, accettammo l’urto frontale con i poteri costituiti. Nel parlamento italiano che allora ospitava il più forte partito comunista di occidente, nessuno di loro era con noi. Fummo liberi da ipoteche, tutori, padri adottivi. Andammo da soli, però in massa, sulle piste di Euridice. Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali. Ognuno era colpevole di tutto. Il nostro Orfeo collettivo e stato il più imprigionato per motivi
politici di tutta la storia d’Italia, molto di più della generazione passata nelle carceri fasciste.
Il nostro Orfeo ha scontato i sotterranei, per molti un viaggio di sola andata. La nostra variante al mito: la nostra Euridice usciva alla luce dentro qualche vittoria presa di forza all’aria aperta e pubblica, ma Orfeo finiva ostaggio.
Cos’altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana. Cambiammo allora i connotati del nostro paese, nelle fabbriche, nelle prigioni, nei ranghi dell’esercito, nella aule scolastiche e delle università. Perfino allo stadio i tifosi imitavano gli slogan, i ritmi scanditi dentro le nostre manifestazioni. L’Orfeo che siamo stati fu contagioso, riempì di sé il decennio settanta. Chi lo nomina sotto la voce “sessantotto” vuole abrogare una dozzina di anni dal calendario. Si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. Una parte di noi si specializzò in agguati e in clandestinità. Ci furono azioni micidiali e clamorose ma senza futuro. Quella parte di Orfeo credette di essere seguito da Euridice, ma quando si voltò nel buio delle celle dell’isolamento, lei non c’era.
Ho conosciuto questa versione di quei due e del loro rapporto, li ho incontrati all’aperto nelle strade. Povera è una generazione nuova che non s’innamora di Euridice e non la va a cercare anche all’inferno.

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La polemica sul sabotaggio, quando la memoria aiuta

Guido Crainz, già esponente di Lotta continua negli anni 70 ed oggi docente di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Teramo, saggista e articolista di Repubblica, corre in soccorso del procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli dopo l’appello lanciato agli intellettuali perché si schierassero in difesa delle inchieste dalla procura torinese e dell’accusa di terrorismo lanciata contro i No tav. Lo fa mistificando la storia del sabotaggio, contapponendola ad altre pratiche di lotta, come se fosse separata e non parallela ad altri repertori d’azione. Nulla dice delle accuse esorbitanti mosse dalla procura che individuano condotte terroristiche nella semplice difesa di un territorio. Gli risponde Erri De Luca chiamato in causa nella parte finale dell’articolo. Un non detto soggiace all’intera polemica: la ruggine tra due pezzi della storia di Lotta continua, tra due modi di averla elaborata che si sono contrapposti duramente durante gli anni dell’inchiesta e del processo Calabresi

 

Sabotaggio, quando la memoria aiuta

di Erri de Luca
il manifesto, 15 settembre 2013

Una pratica diffusa che negli anni ’70 produsse bonifiche di ambienti malsani e contratti favorevoli. Uno storico ufficiale, stipendiato per trasmettere storia, che trascura i fatti a beneficio di una sua tesi, commette omissione in atti di suo ufficio. Stabilito questo, non sono uno fabbricastorico ma ho il vantaggio di avere buona memoria. Negli anni ’70 ho fatto parte di una organizzazione rivoluzionaria di nome Lotta Continua che interveniva attivamente nelle lotte di fabbrica, sotto la guida di intellettuali e di operai. Nacque e si ramificò negli impianti industriali del nord. Un paio di strofe di canzoni politiche di allora: «Sabotar la produzione, non c’è altra soluzione» (Canzoniere del Potere Operaio di Pisa). «Pensa un po’, pensa un po’: avvitare due bulloni e il terzo no». Nelle officine di quegli anni si cominciarono a praticare forme di sabotaggio della produzione che rafforzarono enormemente il potere contrattuale degli operai: il salto della scocca, gli scioperi a gatto selvaggio. Il salto della scocca era un’operazione di montaggio non effettuata del singolo pezzo in transito sulla postazione di lavoro. Faceva impazzire i reparti di lavorazione a valle. Sciopero a gatto selvaggio: senza preavviso interrompeva brevemente e a casaccio le lavorazioni di piccole unità, imballando tutta la linea di produzione a monte e a valle. Erano forme di lotta che costavano poco agli operai e molto al padronato. Sono stato operaio in quei capannoni, ho visto, ho praticato. Da quelle interruzioni partivano i cortei interni dentro la fabbrica che andavano a bloccare anche i reparti che continuavano a lavorare. Il chiasso delle officine veniva sovrastato dal frastuono di un corteo di operai che s’ingrossava a torrente finendo in un’assemblea spontanea. Gli operai prendevano così la parola e non la restituivano. I grandi impianti a catena di montaggio erano efficienti ma fragili di fronte a queste nuove forme di lotta. Questa pratica diffusa era un dichiarato sabotaggio della produzione e procurò la grande ondata di lotte operaie degli anni ’70 , vincenti e di massa. Successe così in Italia il più forte decennio di riscatto della manodopera industriale di tutto l’occidente. Quelle lotte massicce per quantità e compattezza produssero contratti di lavoro favorevoli, imponendo aumenti in paga base uguali per tutti, bonifiche di ambienti lavorativi malsani come i reparti di verniciatura. Di recente scioperi a gatto selvaggio sono stati indetti e praticati dai sindacati metalmeccanici degli stabilimenti Indesit di Melano e Albacina. Basta un po’ di memoria di testimone per mettere la parola sabotaggio dentro la più certa tradizione di lotta operaia. Uno storico che si permette di ignorarla è un rinnegato della sua professione.

Sabotaggio, le forme illegali di opposizione. Quando le proteste diventano violenza

Guido Crainz
la Repubblica, 12 Settembre 2013

Forse, davanti alle polemiche di questi giorni sulle proteste contro la Tav, occorre superare il fastidio per il riemergere di retoriche e stilemi che credevamo sepolti con gli anni Settanta. Forse occorre ritornare ancora su discrimini fondanti: su ciò che divide la battaglia quotidiana per consolidare i diritti e la democrazia dalle derive che possono indebolirla o insidiarla. A un primo sguardo è certo facile tracciare il confine fra le forme illegali e violente di lotta e quelle pacifiche e lecite: anche quelle più “estreme”, come gli scioperi della fame portati quasi oltre il limite o quelle forme di dissenso in climi ostili che espongono a ritorsioni – esse sì – violente (come avvenne nelle lotte per i diritti civili nel sud degli Stati Uniti e in molti altri casi). Sarebbe salutare, anche, che fossero molto più diffuse le ricerche sulle potenzialità di forme non violente di lotta anche di fronte a dittature feroci: ha iniziato a farlo molti anni fa Jacques Sémelin per l’Europa occupata dalla Germania nazista (Senz’armi di fronte a Hitler), da noi lo ha fatto anche di recente Anna Bravo muovendosi fra Italia e Tibet, India e Kossovo (La conta dei salvati): e sottolineando la forza dissacratrice dell’ironia, la sua capacità di accendere la potenzialità realmente eversive della fantasia, non dei roghi.
Con altrettanta evidenza, inoltre, la parola sabotaggio evoca sconfitta, debolezza o addirittura impossibilità di esistere del movimento collettivo. Così fu nelle campagne italiane di fine Ottocento ai primi albori del nostro movimento sindacale (che spesso ha nelle campagne appunto la sua origine): erano segnale di debolezza o di impotenza gli incendi dei fienili o il danneggiamento notturno dei raccolti. E lo fu anche il loro isolato riemergere, sconfessato dalle organizzazioni sindacali, all’indomani delle sconfitte del secondo dopoguerra, nel clima della guerra fredda. Per molti versi inoltre il passaggio a forme violente è la negazione, non la prosecuzione della mobilitazione e della presa di coscienza. Agli inizi degli anni settanta, ad esempio, la autoriduzione collettiva del pagamento delle bollette di luce, gas o telefoni fu ampiamente organizzata da comitati di quartieri, organizzazioni sindacali, gruppi di base: alla fine del decennio la possibilità stessa di riprendere quelle forme di lotta fu stroncata dalla pratica leninista di autoriduzione violenta, spinta sino all’esproprio, praticata dai gruppi dell’ “autonomia operaia” (gli stessi che stritolarono le potenzialità dell’ala creativa del movimento del ’77).
Altre osservazioni possono riguardare poi il rozzo pedagogismo giacobino dell'”atto esemplare”: vi è al fondo la sottovalutazione se non il dispregio della capacità di azione autonoma dei cittadini e – sotto altre spoglie – il vecchio mito della avanguardia. A ciò si aggiunse negli anni settanta un altra tragica distorsione. Com’è del tutto ovvio il problema delle forme di lotta si pone in forme radicalmente diverse nelle democrazie o nei regimi totalitari (per non parlare, di nuovo, dell’Europa occupata della seconda guerra mondiale, quando la lotta armata fu integrata dalle forme più diverse di sabotaggio: un modo per estendere, non per restringere la partecipazione alla Resistenza). Il dramma degli anni di piombo iniziò proprio dalla negazione, tendenziale o drastica che fosse, di questa distinzione: in Germania come in Italia nell’ideologia e nella propaganda delle nascenti organizzazioni terroristiche fu centrale l’idea di vivere ormai in uno stato autoritario, se non totalitario, o avviato ad esserlo (intrecciata, naturalmente, al mito della rivoluzione). Da questa convinzione inizia il percorso che porta Giangiacomo Feltrinelli sino al traliccio di Segrate, e anche di questo parla un documento delle future Brigate rosse redatto all’indomani della strage di piazza Fontana.
A ciò si intrecciarono vie in qualche modo “intermedie”: all’inizio del decennio, nel clima della strategia della tensione e in presenza di una gestione rigida (e talora irresponsabile) dell’ordine pubblico, divieti ingiustificati alle manifestazioni favorirono chi tendeva ad “innalzare il livello dello scontro” trasformando i cortei in atti di guerra. Di qui una crescente “militarizzazione” dei servizi d’ordine di taluni gruppi extraparlamentari: e da qui verranno alla fine del decennio, nel declinare delle speranze di trasformazione, non pochi disperati e giovani flussi verso le organizzazioni terroristiche.
È sufficiente evocare quel clima per capire quanto ne siamo abissalmente lontani ma in questa nostra tragedia è iscritto anche l’antidoto più forte, solidamente basato su due cardini. In primo luogo la capacità di alimentare speranza, di contrapporre alle possibili derive la forza e la fiducia nel futuro delle pacifiche mobilitazioni collettive. E al tempo stesso il rispetto intransigente della democrazia, la fermezza nel denunciare ogni abuso anche minimo che possa incrinare la fiducia nello Stato democratico: quel che è successo nel 2001 al G8 di Genova nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto è stato molto più devastante di mille proclami eversivi. Per il resto, a leggere alcune dichiarazioni incendiarie dei giorni scorsi – talora non prive dei toni dannunziani de Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri (1978) – vengono solo in mente alcuni versi ironici di Jacques Prévert: «Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi…».

Per approfondire
Gli angeli e la storia, scritture e riscritture: auando Sofri celebrava l’incompatibilità di Lotta continua con la violenza politica
Emile Pouget e la storia del sabotaggio

La rivendicazione di Erri De Luca “Sì, ho partecipato anch’io ai sabotaggi dei No Tav”

Quando le parole non bastano. Dopo le dichiarazioni all’Huffington Post e l’intervista di ieri al manifesto, Erri De Luca non demorde e difende la resistenza popolare contro i cantieri della tav in val Susa. «Anch’io ho fatto blocchi stradali», dichiara

Paolo Griseri
la Repubblica 8 Settembre 2013

TORINO — «Un intellettuale deve essere coerente e mettere in pratica ciò che sostiene». Per questo «anch’io ho partecipato a forme di sabotaggio in val di Susa». Così lo scrittore Erri De Luca, in questi giorni al centro delle polemiche, spiega le sue affermazioni sugli attacchi ai cantieri della Tav.

De Luca, può un intellettuale disinteressarsi delle conseguenze delle parole che pronuncia?
«La mia risposta è no. Se poi l’intellettuale è uno scrittore, è bene che conosca il significato delle parole: è il suo mestiere.
Direi di più: l’intellettuale non dovrebbe mai smentire quel che ha detto e scritto ».

Potrebbe cambiare idea per convinzione..
«Certo. Ma io conosco un criterio abbastanza semplice per capire se qualcuno cambia idea per convinzione o per opportunismo. Se uno trae vantaggio da quel cambio di opinione, lo fa quasi sempre per opportunismo. Io cerco sempre di fare le cose che dico, di farle concretamente, intendo. Perché credo che la scrittura non sia sufficiente a esaurire il mio impegno civile».

Esiste dunque una responsabilità dell’intellettuale per quel che dice?
«Certamente, soprattutto in alcune circostanze. Nei regimi dittatoriali dove la parola è impedita, lì una piccola voce pubblica può essere decisiva. Penso alla metafora del ciabattino. Che cosa può fare un ciabattino che sa fare bene le scarpe? Può impegnarsi, al di là del suo lavoro, per far sì che tutti possano avere scarpe. Ecco, l’impegno e la responsabilità dell’intellettuale è simile: occuparsi della libertà di parola per tutti».

In Italia siamo in un regime?
«Certamente no. Da noi la libertà di parola esiste, parlano tutti, parlano tanti. Da noi non è un problema di quantità di parole, semmai di qualità».

Può fare un esempio?
«Penso ad alcuni leader politici. Persone che hanno un grande carisma perché hanno fondato un partito e sono particolarmente ascoltati. Un leader che ha questo ruolo e che istiga all’uso di armi, parla di fucili da imbracciare… Ecco quel leader, a mio avviso, ha una responsabilità innanzitutto nei confronti dei suoi seguaci che possono essere indotti da quelle parole a metterle in pratica. Ma a quelle parole nessuno reagisce, come se fossero normali, facessero parte della fisiologica dialettica politica».

Ci stiamo abituando, mitridatizzando?
«No. Perché se quelle stesse parole non le dice un leader ma un comune cittadino, ecco che scattano le sanzioni. E questo è paradossale perché dalle labbra di un politico pendono milioni di persone. Da quelle di uno come me non pende nessuno».

Parlando degli attacchi ai cantieri Tav, lei ha detto di comprendere alcuni atti di sabotaggio. Ritiene di avere una responsabilità per quel termine?
«Il termine sabotaggio fa parte di una lunghissima tradizione di lotte del movimento operaio e sindacale. Ho fatto una constatazione: in una valle che vive in stato d’assedio e militarizzata per difendere un’opera inutile e dannosa, e dove non ci sono altri modi per farsi ascoltare, si ricorre al sabotaggio. Io non uso le parole a caso. Le parole hanno un peso. Per esempio: il più importante premio letterario di questo Paese è stato vinto da un libro che si intitola: Resistere non serve a niente (di Walter Siti, vincitore dello Strega, ndr). Ecco, io non avrei mai pensato di intitolare un libro così».

Quali altre parole la convincono di più?
«Quelle del mio amico bosniaco, Izet Sarajlic, un poeta che ho conosciuto durante gli anni della guerra quando facevo l’autista dei convogli di aiuti. Lui diceva di essere responsabile della felicità perché con le sue poesie di amore si erano celebrate nozze e dunque era responsabile anche della infelicità. Perciò rimase a Sarajevo a condividere la malora del suo popolo. Da lui ho imparato che un intellettuale deve stare dove la vita è offesa».

Un senatore del Pdl, Giuseppe Esposito, ha scelto il termine boicottaggio. Ha invitato a boicottare l’acquisto dei suoi libri. Che cosa gli risponde?
«Penso che inviti a boicottare un prodotto che non conosce».

Crede che non ci siano lettori del Pdl che acquistano i suoi libri?
«Certo che ce ne sono. Ma non credo che tra questi ci sia quel parlamentare».

Esposito sostiene di non comprendere come una persona della sua sensibilità possa ignorare la sofferenza dei lavoratori del cantiere che subiscono gli attacchi. Come fa a ignorare?
«Io non ignoro, ma inviterei a contestualizzare. E il contesto è quello di una valle che lotta da vent’anni con tutte le sue forze per impedire uno stupro alla sua integrità, subendo uno stato di assedio, esercito compreso».

Lei ha detto che ritiene importante per un intellettuale mettere in pratica quel che dice. Ha fatto questo in val di Susa?
«Certo che l’ho fatto. Ho partecipato ai blocchi dell’autostrada insieme a maestri elementari, vigili urbani, madri di famiglia. Il blocco stradale è certamente un atto di ostruzionismo. Diciamo che è una forma di sabotaggio alla libera circolazione».

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Erri De Luca, «Cattivo maestro io? Sì, inservibile ai poteri»

L’intervista ad Erri De Luca, «Sabotare la Tav in Val di Susa è giusto e necessario»

di Eleonora Martini
il manifesto, 6 settembre 2013

«Sabotare la Tav in Val di Susa è giusto e necessario». Lo scrittore Erri De Luca non arretra di un passo davanti alle minacce di denuncia da parte della società Ltf che realizzerà il corridoio Torino-Lione. Sabotatore e ben contento. Rivoluzionario? «Non c’è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere: bisogna semplicemente impedire quell’opera». Cattivo maestro? «Mi assegnano un titolo professionale che non ho conseguito: non ho fatto l’università e dunque non ho potuto aspirare alla docenza. Però ad essere cattivo per quei poteri costituiti, io ci sto: intendo essere cattivo, anzi inservibile, alle ragioni di quei poteri costituiti che assediano la Val di Susa». Armi? «Finora sono bastate e basteranno pezzi di resistenza ordinaria, acquistabili in ferramenta».
Non è contrario a tutte le “grandi opere”, Erri De Luca, che a ogni definizione, scrittore o ex dirigente di Lotta continua che sia, sta un po’ stretto. È contrario – anzi «resistente» e non certo «dal salotto di casa» – solo e soltanto a quel buco nella montagna che «stupra la terra, l’aria e l’acqua» di quella valle.

Arriva la notizia che la società Ltf, incaricata della realizzazione del tratto ad alta velocità della Torino-Lione presenterà nei prossimi giorni una denuncia contro di lei per aver sostenuto che «i sabotaggi sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile». Sconvolto?
Non sono pratico di procedure, ma l’annuncio della denuncia è un cosa ridicola, come si fossero sbagliati: invece che all’ufficio legale si sono rivolti all’ufficio stampa. A me non è arrivato nulla, tranne gli annunci pubblicitari. Roba della peggiore Italia, quella delle minacce a chiacchiere. Aspetto di avere le carte in mano per sapere di cosa in tratta.

Siamo nel pieno processo di demonizzazione del movimento?
Processo di diffamazione, piuttosto, che usa le fandonie sul rischio terrorismo per passare a un livello di repressione più alto. In quella valle c’è già uno stato di assedio, con l’esercito e i posti di blocco, ma evidentemente non bastano più e dunque inventano la fandonia del terrorismo per aumentare la militarizzazione. Esibiscono il sequestro di materiali da ferramenta – chiodi, tronchesi, guanti – e non la gran quantità di computer sequestrati alle persone della Val di Susa. Il computer è sacro, non si può toccare, ma intanto lo sequestrano. Come da noi, negli anni ’70, quando ci sequestravano il ciclostile pensando così di ammutolirci.

Riesce a vedere delle similitudini con quei movimenti?
No, solo dalla parte della magistratura che ha un desiderio di ritrovarsi nelle stesse condizioni di allora. Ma in realtà quella lotta dei valsusini è una lotta civile che utilizza materiale da ferramenta per tagliare simbolicamente una rete abusiva. Perché tali sono, quelle recinzioni.

In molti hanno solidarizzato con lei e con il movimento NoTav «fondato sui principi di nonviolenza e resistenza». Ma a volte il limite tra resistenza, rivoluzione e violenza è molto sottile. E c’è sempre qualcuno che potrebbe fraintendere, non crede?
Non c’è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere bisogna semplicemente impedire quell’opera.

Costi quel che costi?
Sta già costando tanto alle persone di quella valle e quello che senti dire da loro è che non molleranno, non gliela daranno vinta perché non hanno una valle di ricambio. E’ la più forte, unanime e continua resistenza civile degli ultimi 20 anni. Il più alto esempio di democrazia dal basso: vengono a studiarlo da altri paesi del mondo.

Si potrebbe obiettare con la sindrome Nimby, non nel mio giardino.
Per niente. A casa mia si possono fare delle opere molto utili. Per esempio adesso in Sicilia stanno perforando una montagna vicino Caltanissetta e nessuno dice niente perché è un’opera utile evidentemente. Lì invece si tratta di un’opera inutile oltre che nociva, e lo si vedeva da molti anni, già da quando facevano i calcoli sbagliati sulla previsione di incremento del traffico.

Come per il corridoio Genova-Rotterdam, assai più utile e sostenibile, con il traforo del San Gottardo già ultimato e con la Svizzera che preme sull’Italia per completare il percorso. Dunque non tutte le grandi opere sono da avversare.
Delle grandi o piccole opere non mi interessa. Sono stato convocato da una popolazione che si sta battendo contro lo stupro e la riduzione in servitù della loro valle. Un’opera è sostenibile se è appoggiata dalle popolazioni. Io sostengo le loro ragioni. E da militante, non è che lo faccio dal mio domicilio. Si vuol parlare di violenza? L’occupazione militare, quella è violenza.

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Elogio del sabotaggio in valle

Tav. Erri De Luca, “Va sabotata, è l’unico modo che c’è per fermarla. Il procuratore Caselli esagera”

Laura Eduati
L’Huffington Post, lunedì 2 Settembre 2013

“La Tav va sabotata”. Lo scrittore Erri De Luca, raggiunto al telefono dall’HuffPost, commenta con scarne parole l’accusa che il procuratore Giancarlo Caselli lancia nei confronti degli intellettuali che a sinistra “sottovalutano pericolosamente l’allarme terrorismo” in Val di Susa.
Caselli non fa i nomi dei “conniventi” ma nell’ elenco, è chiaro, figurano il filosofo Gianni Vattimo e De Luca, che hanno manifestato pubblicamente il supporto agli attivisti No Tav finiti in carcere per sabotaggio. Pochi giorni or sono Vattimo è finito nelle attenzioni della Procura torinese per i suoi stretti legami con le frange più dure del movimento, mentre lo scittore ha firmato un intervento durissimo nel volume appena uscito “Nemico pubblico. Oltre il tunnel dei media: una storia NoTav”, ebook dedicato alla lotta valligiana scritto con la giornalista Chiara Sasso, WuMing1 e Ascanio Celestini.
Ieri altri due ragazzi appartenenti ai No Tav sono stati arrestati mentre trasportavano in
macchina molotov, maschere antigas, fionde, cesoie, chiodi a quattro punte e altro materiale destinato, secondo gli investigatori, a danneggiare i cantieri dell’Alta Velocità. È proprio questo ultimo episodio a spingere Caselli contro i cosiddetti cattivi maestri. De Luca ha letto le dichiarazioni del magistrato ma non si scompone. Non è un uomo loquace, risponde con fermezza e senza appello.

Erri De Luca, ha ragione il procuratore capo di Torino quando paventa il terrorismo No Tav?
Caselli esagera.

Forse esagera, ma in macchina i due ragazzi arrestati avevano caricato molotov…
(sorride ironicamente) …Sì, pericoloso materiale da ferramenta. Proprio quello che
normalmente viene dato in dotazione ai terroristi. Mi spiego meglio: la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo.

Dunque sabotaggi e vandalismi sono leciti?
Sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile.

Sono leciti anche quando colpiscono aziende che lavorano per l’Alta Velocità come quella di Bussoleno, chiusa per i continui danneggiamenti? Non si rischia un conflitto tra lavoratori e valligiani?
La Tav non si farà. È molto semplice.

La posizione è chiara. Ma è antitetica a quella presa dal governo.
Non è una decisione politica, bensì una decisione presa dalle banche e da coloro che devono lucrare a danno della vita e della salute di una intera valle. La politica ha semplicemente e servilmente dato il via libera.

Di questo passo, afferma Caselli, arriveremo al terrorismo. Lei invece quale soluzione propone?
Non so cosa potrà succedere. Mi arrogo però una profezia: la Tav non verrà mai costruita. Ora l’intera valle è militarizzata, l’esercito presidia i cantieri mentre i residenti devono esibire i documenti se vogliono andare a lavorare la vigna. Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa.

Politicamente come si risolve?
Arriverà un governo che prenderà atto dell’evidenza: la valle non vuole i cantieri. E finalmente darà l’ordine alle truppe di tornare a casa.

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Per Carlo Giovanardi Stefano Cucchi era morto di freddo, la risposta di Erri de Luca

flagellazione-caravaggio

«Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perchè pesava 42 chili. La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente… E poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato… Certo, bisogna vedere come i medici l’hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così»

Carlo Giovanardi, Sottosegretario con delega per la lotta alla droga, “co-ideatore” della legge Fini-Giovanardi senza la quale Stefano Cucchi sarebbe ancora vivo

Erri de Luca risponde alla sua insopportabile dichiarazione con queste righe apparse su Liberazione 11 novembre 2009

Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l’aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.

Link
Caso Cucchi: Carlo Giovanardi, lo spacciatore di odio
Cronache carcerarie

Erri De Luca, la fiamma fredda del rancore

Tratto dalla prefazione a, Esilio e Castigo, retroscena di una estradizione, Paolo Persichetti, La città del sole edizioni, 2005

di Erri De Luca

A un prigioniero,
Regalerei un binocolo, un atlante,
un altoparlante,
una bussola, una canna da pesca, un portachiavi,
un cane, la figura di un tango,
un’edizione della Costituzione,
diritti e doni persi dai rinchiusi.

È fatta di piccoli pezzi la libertà, di biglie colorate, di una gonna increspata da un valzer, di riposare gli occhi davanti alla prateria del mare. La cella addosso a Paolo Persichetti è saldata con la fiamma fredda del rancore. Prima il raggiro, la truffa di una finta accusa per poterlo estradare, e la complicità dei funzionari che si sono prestati a trafugare un corpo in libertà per consegnarlo ai carcerieri. Poi la penitenza di scontare pene per le rivolte politiche del 1900, quelle scoppiate assai prima della già remote guerre di Bosnia, Kossovo, Afganistan.

Rancori: in Italia non si perdona l’azione di chi andò allo sbaraglio senza alcun tornaconto personale. Chiamano volentieri terrorismo qualunque azione non abbia un riscontro economico. Da noi si perdona tutto, purché commesso per arricchimento. Per i Cecchi-Gori, i Tanzi sono concessi gli arresti domiciliari, qualche settimana di convalescenza. Incomprensibile e perciò imperdonabile è la generazione politica della quale Paolo Persichetti è stato uno degli ultimi iscritti, il più giovane dei noialtri di allora. Li chiamano irriducibili: ma a cosa? La loro vita non è stata riducibile, riconducibile a un principio di interesse personale. Questa deviazione dalla regola è oggi l’offesa maggiore che si può fare a un paese che ha scelto di farsi governare dall’uomo che meglio ha saputo farsi i suoi affari personali.

Paolo Persichetti e gli altri, gli ultimi compagni di pene infinite sono semplicemente l’antigene, l’opposto. Essi hanno trascurato i propri interessi, le sorti personali in nome di tutt’altro. Se oggi penso alla decaduta parola comunismo, ho in mente solo questo: il tutt’altro.

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Vedi Paolo…

Tratto da Esilio e Castigo, retroscena di una estradizione, La città del sole, 2005

I passati rivoluzionari faticano a diventare storia.
Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono
schiudersi le porte dell'inferno che risucchia brandelli di vita,
trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d'epoche finite che
rimangono ostaggio dell'uso politico della memoria.
Non un passato che torna ma un futuro che manca

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Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillamte successo operativo dopo l’attentato mortale contro un collaboratore del governo. Marco Biagi era stato ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un Paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi.

Capitolo V

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Additare al pubblico una figura da crocifiggere, un capro espiatorio su cui riversare la brigatista_persichetti_260802colpa, è parso nel settembre 2002, la soluzione più comoda, l’espediente più facile. E maledetti allora quelli che non si fossero allineati e che da sempre rompevano le righe, come Erri De Luca che conosceva molto bene i fuoriusciti. In una «Lettera a un detenuto politico nuovo di zecca», pubblicata sul Manifesto del 5 settembre, scriveva: «Vedi Paolo, questi poteri hanno bisogno di te[…] di lotta armata si sa tutto, ma si finge di non sapere ancora fino in fondo, per mantenere il fascino in un’opera al nero che ancora sobbolle[…] Tu quarantenne sei quanto di meglio offre il mercato. Sei la selvaggina allevata nella semiprigionia dell’esilio francese[…] Di recente mi hanno chiesto con sincero stupore come mai avevo scritto la prefazione al libro di Scalzone e tuo, Il Nemico inconfessabile. Oggi le parole, i libri tornano ad avere il rispettabile peso del sospetto, e una prefazione può già fornire il brivido del reato associativo. Oggi mi sento associato ai residui penali degli anni Settanta e Ottanta molto più di prima e molto più di una prefazione».

Lo «stupore» a cui accennava De Luca virò presto all’odio. Un illividito Mario Pirani, dal giornale faro di ogni emergenza, sputò fiele. «Ex-BR e ‘cretini’ di ieri e di oggi», titolava un suo fondo apparso sulla Repubblica del 9 settembre. L’articolo era una filippica contro il ritorno dei «pessimi maestri dediti ad inquinare la capacità di giudizio di larghe schiere delle nuove generazioni». Esulcerato per un editoriale di Le Monde uscito in quei giorni e schierato in difesa della dottrina Mitterrand, nel quale si ricordava che «la classe politica italiana era ricorsa ad una serie di leggi eccezionali che limitavano gravemente le libertà costituzionali», Pirani rispondeva ai giornalisti d’Oltralpe citando il titolo di un articolo, «Le crétin Kanapa», scritto da Togliatti negli anni Cinquanta per sbarazzarsi dei continui attacchi che dall’Humanité gli lanciava un esponente del Pcf francese, adepto dell’ortodossia staliniana, tale Jean Kanapa per l’appunto. In verità, Togliatti non fece altro che scopiazzare la formula, divenuta famosa in Francia, con la quale tempo prima Jean-Paul Sartre aveva liquidato il suo ex-allievo trasformatosi in un pedante adepto dello zdanovismo: «Le seul cretin, c’est Kanapa!». Con tutta evidenza sbagliavano entrambi per difetto, perché di cretini ce ne sono stati almeno due. I lettori non avranno certo difficoltà a capire dove si annida tuttora il secondo.

La cosa non sfuggì alla polizia di prevenzione che inviò l’articolo di De Luca alla Digos romana. Quest’ultima lo segnalò addirittura al procuratore capo Italo Ormanni e al suo sostituto Salvatore Vitello. Ma il grottesco non aveva ancora raggiunto il culmine. La risposta che Persichetti invia a De Luca dalle pagine dello stesso quotidiano, il 13 settembre, suscita allarme al Viminale. Era la prima sortita pubblica dopo l’estradizione, per questo attorno alle sue parole c’era molta attenzione. Decisiva in proposito è la fotocopia di quella lettera presente negli atti dell’inchiesta preliminare. Vi si scorgono le sottolineature del funzionario addetto alla rassegna stampa. Nessuno dei passaggi dedicati alle «professioni e carriere dell’emergenza» sfugge al suo tratto di penna. Ma lasciamo la parola a Persichetti che dopo una premessa arriva al punto:

«Hai ragione Erri, hanno bisogno delle nostre apparenze. Hanno bisogno dei nostri corpi per calzarci addosso i panni dei responsabili di sostituzione che hanno ritagliato per noi. Siamo alle conseguenze del dopo 11 settembre[…], il nemico si è fatto impalpabile, agita ombre, scuote paure, per questo il ricorso a capri espiatori può avere una funzione rassicurante. Dopo Napoli e Genova, dopo Bolzaneto e la Diaz, i vertici della polizia sono stati travolti dal discredito. Le polemiche sulle scorte mancate hanno bruciato un ministro degli Interni e trasformato questori e dirigenti dell’antiterrorismo da inquirenti in indagati. Sotto schiaffo le professioni della specialità e le carriere dell’emergenza hanno dovuto reagire. Da questa bassa cucina è nata la mia estradizione.
Caro Erri, non provo dolore; ancora meno rancore. Osservo i loro gesti come guardassi dei minerali. In fondo hanno bisogno di noi come il vampiro ha bisogno della sua vittima, come il drogato del buco. Ma dalla loro parte c’è solo la forza triste della dipendenza priva d’ogni autonomia e potenza. Senza il collo della sua vittima il vampiro muore. C’è uno scarto che ci rende superiori. Noi non abbiamo bisogno di loro, dobbiamo solo scrollarceli di dosso. Ho letto su un giornale che il capo delle guardie pretoriane avrebbe telefonato per annunciare la mia cattura addirittura nel pieno d’una festa. Pare che abbiano immediatamente brindato e cantato. Sembrava una scena da basso impero, di quelle descritte nel Satyricon. Prima di congedarmi e tornare all’allegro brusio della mia cella affollata, vorrei dire ai potenti e potentati di turno[1]: stiamo tornando uno a uno[2] ma non è il caso di rallegrarvene troppo. Non scenderemo muti nel gorgo, siatene inquieti. La storia sta di nuovo accelerando.»

E qui accade qualcosa di molto particolare che mostra come i piccoli Fouché[3] del Viminale, che stavano spulciando quel testo con la lente d’ingrandimento, concepiscono il loro ruolo all’interno di quello che dovrebbe essere uno Stato di diritto. Stizziti dall’impietoso ritratto che usciva da quella prosa sferzante, vi ravvisano un imperdonabile peccato di superbia, un crimine di lesa maestà, un vero e proprio delitto linguistico. Per questo l’allora dirigente della digos romana, Franco Gabrielli, viene incaricato di segnalare alla procura il passaggio finale della lettera che, nessuno si avvede, è palesemente ispirato a una poesia di Cesare Pavese e non a un comunicato delle br. Parafrasi invertita di «scenderemo nel gorgo muti»[4], verso che il poeta aveva scritto in uno dei suoi momenti di disperazione.

In quel delirante frangente l’assenza di rassegnazione viene letta come una minaccia, un messaggio obliquo, un avvertimento mafioso, un invito alla vendetta lanciato a supposti complici, insomma un’ammissione indiretta della propria colpevolezza. Qualcosa di simile alla “prova diabolica” tanto cara al mondo superstizioso dell’inquisizione. Un classico sospetto proiettivo rivelatore non della natura dell’inquisito ma dell’animo torbido di colui che lo lancia, svelando in questo modo ciò che sarebbe stato capace di pensare e dunque di poter fare. Decisamente le frequentazioni letterarie possono rivelarsi pericolose. Il successivo 14 settembre, Persichetti viene impacchettato («preso per il collo» dicono i carcerati) e spedito in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno, dove resterà per cinque mesi. Qui il 14 novembre riceve una strana lettera anonima, o meglio siglata in modo tale da consentire al misterioso mittente di essere identificato, «qualora decidessi di scriverle ancora». L’anonimo si presentava sotto le vesti di una «studentessa romana di medicina», informatissima sul suo passato giudiziario benché dichiarasse d’aver avuto solo «14 anni» all’epoca in cui egli incappava nel suo primo arresto (1987). L’autore o l’autrice del testo mostrava di avere buone conoscenze anche su vicende più recenti: «la dottrina Mitterand – affermava – era stata confermata da Jospin all’indomani degli accordi di Shenghen e quindi doveva continuare ad essere rispettata per tutti». Nelle quattro pagine stampate con inchiostro verde s’alternavano toni diversi che miravano a convincere il recluso, sprofondato da alcuni mesi nella solitudine dell’isolamento, a «chiedere la grazia e collaborare con la giustizia». Il testo anonimo interloquiva con una sua intervista rilasciata al quotidiano la Stampa del 25 settembre:

«Lei, in quell’intervista, criticava anche le leggi del pentitismo e della dissociazione. Però sedire qualcosa che non disse all’epoca del suo arresto può aiutarla ad uscire dal carcere quanto prima, perché non farlo? La libertà dovrebbe essere una priorità assoluta per un detenuto. Tradire qualche compagno, o, meglio ancora i mandanti di quell’omicidio (facendo così cosa gradita alla vedova Giorgieri), non sarebbe un vero tradimento ma un passo verso il reingresso nella società civile. Per lei gli anni da brigatista sono un periodo finito, nel senso che poi non si è più dedicato ad azioni terroristiche, ma questo non basta. Non basta cambiare rotta, bisogna chiudere i conti col passato, rivelandolo integralmente e soprattutto bisogna condannarlo, ammettere d’aver sbagliato. Mi rendo conto che cambiare strada sia una condanna implicita di quella che si percorreva precedentemente, ma queste cose si devono fare in modo esplicito per essere creduti fino in fondo. Non bastano le interviste a testimoniare di avere una nuova vita, di essere persone nuove, ci vogliono fatti concreti. Sempre in quell’intervista, lei auspicava un’amnistia per tutti voi ex-brigatisti. Io non so se questo è giusto, ma comunque lei sa perfettamente che il suo è un auspicio utopistico. Non ci sarà mai l’amnistia. L’Italia è un paese in cui i terroristi rossi finiscono in galera e ci rimangono e quelli neri o vengono processati dopo vent’anni oppure si godono la vita in Giappone[5]. Le questure, infatti, hanno sempre protetto quelli che seminano il terrore in nome di ideali non comunisti. La cosa è indicativa dello strapotere che le varie armi hanno ed hanno sempre avuto nel nostro Paese. In nome di tutto ciò, pertanto, io la invito, Persichetti, a sfruttare tutte le possibilità che la nostra legislazione le concede per uscire dal carcere al più presto.»

Strano paese l’Italia dove le studentesse di medicina portano lunghi baffi e parlano la lingua dei commissari di polizia. Eccentriche anche quelle domande tanto insistenti su un processo che, essendosi concluso con delle condanne, a rigor di logica avrebbe dovuto definire in modo soddisfacente la verità giudiziaria. Non era certo responsabilità degli imputati, se le motivazioni della sentenza d’appello, che aveva capovolto il giudizio ben più mite emesso dalla corte d’assise di primo grado, erano risultate talmente fragili e poco approfondite, come non mancarono di osservare gli stessi magistrati di Cassazione. Nove persone furono condannate per complicità nell’attentato Giorgieri. Tre di loro si trovavano già in carcere al momento dell’accaduto, detenute da circa due mesi. Altre due, Daniele Mennella e Claudio Nasti, collaboratori di giustizia, vennero lautamente ricompensate per le accuse infarcite di de relato, supposizioni personali, imprecisioni e falsi riconoscimenti, rivolte ai coimputati[6]. I pentiti, tra arresti domiciliari, accesso ai benefici e alle misure alternative, scontarono pochi mesi di carcere. Curioso appariva allora quell’invito a confessare retroscena e circostanze che, a norma di legge, avrebbero dovuto costituire il presupposto della condanna. «Se vuoi uscire devi confessare, fornendo in questo modo quelle prove in grado di legittimare la sentenza per cui sei stato condannato». Più o meno era questo il succo del ragionamento, o forse sarebbe meglio dire il patto infimo, che l’anonimo proponeva nella sua lettera. L’abominio totalitario invadeva quella cella sporca e spartana, una sentina della terra piena di graffiti lasciati da chi in quel luogo era stato sottoposto a lunghe quarantene per spurgare ataviche dipendenze con le droghe, oppure aveva scontato ruvide punizioni. Allungato sulla branda ripiegò i fogli anonimi e riprese in mano il libro che aveva ricevuto proprio in quei giorni. S’immerse di nuovo nella lettura di quelle pagine che descrivevano l‘angosciosa fuga di un uomo braccato dalla feroce soldatesca dei principi luterani che avevano represso nel sangue la rivolta dei contadini anabattisti di Münzer, alla quale anch’egli aveva partecipato. Allora s’accorse di una frase che prima aveva trascurato: «Cercano i reduci. Annientarli, spingerli a confessare ciò che non hanno neanche avuto il tempo di pensare».[7]


[1]D’improvviso il testo si riempie di sottolineature orizzontali e verticali.

[2] I giornali avevano pubblicato una lista di 12 estradandi dalla Francia pronti per la consegna.

[3] «De la merde dans un bas de soie», diceva di lui Napoleone che non per questo disdegnava d’impiegarlo per ogni vil bisogna.

[4] Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1961.

[5] Il riferimento è a Delfo Zorzi, processato e assolto dall’accusa di aver deposto la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana, a Milano. Zorzi da decenni vive in Giappone, dove ha acquisito la nazionalità e avviato una fiorente attività economica.

[6] Come avvenne anche nei confronti dello stesso Persichetti: «L’elemento accusatorio potrebbe essere costituito dalle dichiarazioni di Mennella – scrivevano i giudici della corte d’assise nella loro sentenza – ma a ben vedere, le affermazioni del predetto “collaboratore” non sono costanti[…] Nell’interrogatorio del 31 maggio 1987 (due giorni dopo l’arresto), il Mennella non ha fatto riferimento al Persichetti. Nello stesso giorno, sottoposto ad ulteriore interrogatorio non ha riconosciuto il Persichetti in una foto mostratagli che effigiava, invece, proprio il Persichetti. Ha dichiarato, inoltre, di avere incontrato Locusta a Corso Vittorio insieme ad un altro giovane che non conosceva. Nell’interrogatorio del 2 giugno 1987 ha ribadito di avere incontrato Locusta a Corso Vittorio, non parlando di Persichetti come accompagnatore del Locusta. Ha poi rettificato per quanto riguarda la foto n° 4, dicendo anche di conoscere Persichetti perché partecipante all’inchiesta Giorgieri. Nell’interrogatorio del 5 giugno 1987 ha raccontato degli incontri con la Gioia dopo l’omicidio Giorgieri, non facendo riferimento al Persichetti. Al dibattimento ha dichiarato di aver conosciuto solo di vista il Persichetti nel marzo 1987 e di non averlo più visto. Quest’ultima affermazione è in contrasto con l’altra secondo la quale l’avrebbe incontrato a Corso Vittorio con Locusta. È probabile che per le contraddizioni sopra evidenziate, il Mennella non ricordi esattamente sulla posizione di Persichetti anche per aver detto che lo stesso Persichetti si faceva chiamare col nome di battaglia “Eugenio” e per averlo subito negato su precisa contestazione del Persichetti». (pp. 361-362 della sentenza della 3a corte d’assise di Roma, 14 dicembre 1989).

[7] Luther Blisset, Q, Einaudi 2000.


Per approfondire
Il Patto dei bravi
24 agosto 2002
Erri De Luca, la fiamma fredda del rancore
La polizia del pensiero
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
Vendetta giudiziaria o soluzione politica?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien
Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi
Paolo Giovagnoli, quando il pm faceva le autoriduzioni
Paolo Giovagnoli, lo smemorato di Bologna
Negato il permesso all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

Paolo di Tarso che portò l’attacco al cuore dello Stato

Erri De Luca
L’Altro 2 luglio 2009

Nella scrittura sacra si legge di incontri improvvisi con la rivelazione, sconvolgenti da far cadere faccia a terra. Solo nel caso di Saulo di Tarso detto Paolo la caduta ebbe conseguenze cliniche, un ricovero per accecamento. Dal buio di tre giorni, come quello di Giona in corpo al bestione marino, emerge pronto. Ebreo di Tarso, città della Cilicia, predica cristianesimo, variante tutta interna al monoteismo ebraico. Ebreo sarà il primo papa, Pietro, e alcuni successivi. Ebrea è la terra da dove proviene, ebreo il suo messìa iscritto all’anagrafe da suo padre, discendente di David, primo re di Gerusalemme. SanPaolo
Il cristianesimo si fonda su base epistolare. Chi vuole capire come mai una variante dell’ebraismo riuscì a diventare religione dell’impero romano, deve leggere la posta di Paolo. Più che ai quattro vangeli, il cristianesimo deve il suo successo all’impegno militante di Paolo, fondatore e organizzatore delle prime comunità cristiane. Scrive in greco lettere che insegnano regole di condotta e di uniformità. Sua mossa strategica è puntare su Roma, convertirne i cittadini. Diversa dalla spedizione occasionale di Giona, profeta scaraventato a predicare il finimondo a Ninive, Paolo inaugura una lotta di lunga durata nel centro nevralgico del politeismo. Può pure fare fiasco nella scettica Atene, ma non fallisce dentro la tumultuosa capitale del mondo di allora, carnaio di stirpi e di popoli vari. Affronta la prova da prigioniero, è preparato, è stato altre volte detenuto e processato. A Roma è giudicato, insieme alla notizia del Cristo liberatore di oppressi, venuto a proclamare e dare ai vinti la più inaudita precedenza. Le magistrature procedono volentieri contro i reati di opinione. Stanche di avere a che fare con malavita reticente, gustano la variante di interrogare rei confessi, fieri di ammetterlo. Al cristianesimo applicano sentenze da tribunale speciale per reato associativo. Non importa la responsabilità individuale, basta per la condanna la semplice appartenenza, l’atto di fede. Paolo viene condannato e giustiziato a Roma. Il cristianesimo entrò in clandestinità, si praticò criptato e in catacombe. Mise il suo seme nel sottosuolo di Roma e si propagò nell’ombra. Il disegno di un pesce contrassegnava i luoghi di riunione. Meno di tre secoli dopo diventò religione dell’impero, in seguito all’editto di Costantino. La croce, patibolo d’infamia inventato dai romani per esporre i condannati in piena vista, sfrattò dal cielo e dagli stemmi l’aquila imperiale. Paolo aveva vinto. Il suo attacco teologico al cuore dello stato aveva ottenuto il potere politico.