Secondino una ceppa di c… Alberto Sordi contro Geolier

Amici napoletani mi hanno spiegato che il nome d’arte Geolier preso da un noto cantante di successo sia frutto di una scelta identitaria legata ad una sottolineata rivendicazione del suo quartiere di origine, il rione Gescal di Secondigliano. Nei giorni scorsi alcuni giornalisti si sono affrettati a spiegare che il termine francese «Geolier» vorrebbe dire in italiano «secondino», termine con il quale a Napoli verrebbero chiamati gli abitanti di Secondigliano, sia per la presenza del carcere che per l’alta densità di popolazione del quartiere incarcerata. Non so quanto sia vero o quanto sia accettata una etichetta del genere, ma facciamo che sia così.

In realtà in italiano il termine geolier si traduce con carceriere. La parola viene da «geôle», dal francese arcaico «gaiole» derivato dal basso latino «caveola», diminutivo del latino classico «cavea», che indica una cavità, caverna e al tempo stesso gabbia. La geôle era la vecchia segreta, la cella riposta nei sotterranei per intenderci e il geolier il carceriere del luogo.
Secondino invece è un termine gergale, dispreggiativo, che indicava in origine «i secondi del capo carcere», in sostanza le guardie carcerarie che dovevano ubbidire al loro superiore in grado, dei sottomessi agli occhi dei detenuti. Termine «in origine lombardo, passato poi in veneto e quindi nella lingua nazionale durante il XIX secolo». Impiegato dai reclusi soprattutto in risposta alla pretesa delle guardie carcerarie di essere chiamate «superiori».
L’equivalente francese, non letterale ma di senso, del termine secondino è «maton» che deriva dall’argot «mater» ovvero guardare, dunque colui che guarda, il guardone.

Tutto questo per dire che se il nostro cantante voleva chiamarsi secondino, avrebbe dovuto impiegare il termine maton, largamente in uso nel francese attuale, e non geolier.

Il détournement, posto che questo fosse il vero obiettivo, non mi sembra granché riuscito.

Torno a dire, e concludo, che quello che a me un po’ sconcerta è la naturalezza con cui si sceglie di assumere questo nome, carceriere o secondino che dir si voglia, senza percepirne il disvalore profondo e che nei quartieri difficili, almeno un tempo, equivaleva all’infamia. 
Se ciò non è più, si tratta di un fatto socialmente e culturalmente rilevante, pregnante di significato, che introduce una cesura tanto più se avviene proprio in quei quartieri difficili, che contano un gran numero di persone detenute, di familiari con detenuti, dove quasi tutti hanno un amico o conoscente incarcerato o che è passato per la detenzione, dove il carcere è purtroppo un orizzonte quotidiano, un percorso inevitabile della propria esistenza che incombe in ogni momento.

Resisto al rischio di trarre conclusioni troppo affrettate intorno ad un fenomeno di costume che però non sottovaluterei affatto.
 Concludo solo ricordando che tra l’Alberto Sordi interprete di Detenuto in attesa di giudizio, con la regia di Nanni Loy, soggetto e sceneggiatura di personaggi del calibro di Rodolfo Sonego, Sergio Amidei e Emilio Sanna, e il povero Geolier, non c’è misura o scelta possibile. Sarà un segno dei tempi, sarà quel che sarà, ma è così.


– Scusi secondino!

– Secondino una ceppa di cazzo. Superiore!

– Superiore? Superiore a chi? Superiore a cosa? Superiore a me?


Vincenzo Ruggiero, l’anticriminologia come sapere

La morte di Vincenzo Ruggiero, «anticriminologo» come amava definirsi, lascia un vuoto importante. La collaborazione col bollettino Senza galere e la rivista Controinformazione l’avevano spinto a lasciare l’Italia e approdare a Londra, per tenersi alla larga dalle inchieste giudiziarie che a metà degli anni 70 colpirono anche gli organi legali di informazione e dibattito, ritenuti dai magistrati «strutture di cerniera» tra le formazioni armate e il resto del movimento rivoluzionario di quegli anni. 
A Londra era approdato alla Middlesex University come professore di sociologia. Con Ermanno Gallo, anche lui tra i redattori incarcerati di Controinformazione, aveva dato vita negli anni 80 a un fertile sodalizio intellettuale, con volumi come Gli ostelli dello sciamano, alle radice della tossicomania, edizioni senza galere 1980, Il carcere in Europa, Bertani 1983 e ancora Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, uscito nel 1989 per le edizioni Sonda.


L’avevo conosciuto a Parigi verso la fine degli anni 90 a casa di Roberto Silvi, anche lui esiliato e ormai malato, suo compagno nell’impresa di Senza galere. Quando poteva Vincenzo faceva tappa volentieri a casa di Roberto per ritrovare il suo amico e rivedere gli altri compagni dell’esilio. Era ormai un professore affermato e dell’esilio di quei militanti fuggiti alla repressione dell’emergenza giudiziaria degli anni 70 scrisse con parole da studioso, “Condannati alla normalità”.
Autore di pubblicazioni importanti nelle quali esercitava una critica spietata del pensiero criminologico, ritenuto una disciplina «ormai esausta» e per questo alla disperata ricerca di nuovi temi per rilanciarsi, come la «vittimologia», Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni gruppo Abele 2011. Ha scritto pagine decisive sull’economia come crimine, non sui crimini economici come la vulgata corrente etichetta l’economia illegale, ma sull’economia legale, l’etica degli affari, «le condotte di routine dei mercati che sono suscettibili di ogni tipo di irruzione illegittima». Un filone di pensiero fecondo che produsse numerosi lavori: Economie sporche, Bollati Boringhieri 1996; Dei delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri 1999; I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli 2013; Perché i potenti delinquono, Feltrinelli 2015. Lavori nei quali Ruggiero ribalta completamente lo sguardo sul pensiero economico, dimostrando come ciascuna delle grandi scuole economiche giustifica, se non addirittura incoraggi, i delitti dei potenti che sono il risultato dell’iniziativa economica.
Ricordo con nostalgia le conversazioni avute con lui. Gli avevo chiesto di essere uno dei miei relatori per il dottorato sui «momenti costituenti», grandi assenti nelle teorie politico-giuridiche. Volevo indagare i momenti di rottura e fondazione nei sistemi politici, pensati quasi sempre nella loro condizione di normalità. Una normalità che rifugge l’inizio. Poi quella tesi non c’è più stata, progetto di studi bruscamente interrotto dalla «riconsegna straordinaria» alle autorità italiane.
Uscito dal carcere non ho più avuto modo di incontrarlo, sono riuscito però una volta a chiedergli un articolo per uno speciale, «Cemerto e castigo», uscito su di Liberazione, quotidiano dove lavoravo durante la semilibertà, L’abolizionismo penale è possibile ora e qui.
Uno dei suoi libri che ho apprezzato di più, forse perché letto in una cella del Mammagialla, è stato Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore 2003, dove Ruggiero proponeva una rilettura socio-criminologica dei grandi classici dimostrando che non c’era miglior realtà della finzione: attraverso Baudelaire e London raccontava l’emergere dei mercati illeciti e del consumo delle droghe, in Moby Dick si scoprivano i crimini dell’economia, con Twain la corruzione nella città, in Hugo e Mirabeau la realtà del carcere, in Manzoni la modernità della sofferenza legale, i processi inquisitori…
Un’altro suo lavoro importante è stato La violenza politica, uscito per Laterza nel 2006 e Movimenti nella città, Bollati 2000, che propone una visione urbanistica del conflitto: la città come risultato dell’azione collettiva.
Anche se Vincenzo Ruggiero non c’è più, ci restano i suoi libri, per pensare, agire, costruire. Leggeteli!

La scomparsa di Vincenzo Ruggiero, un ricordo di Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Un nuovo colpo, un altro addìo. Mi sento diminuito dalla perdita di Vincenzo Ruggiero, uomo di critica radicale, puntuale, attiva. Nonché grande amico, e simpaticissimo (che è una preziosa qualità).

Ripercorrere titoli e copertine dei suoi libri, rimette di fronte a un lavoro straordinario, di primissima qualità, a un prezioso tesoro per un’attività teorico-pratica non certo limitata ad un settore specialistico, ad un comparto disciplinare.

E certo, il rigore della ricerca, la costruzione di questa “anti-criminologia come sapere” con un sí ampio respiro, l’esser stato osservatore sistematico della composizione dei movimenti di lotta del “proletariato extra-legale”, non hanno impedito ad Enzo la levità della festa, l’allegria nelle relazioni umane, la fedeltà a tutte le amicizie tessute nella complicità di un percorso di rivoltoso, sovversivo, cominciata negli ‘anni verdi’, prima di maturare negli anni adolescenti, e mai dismessa. Siamo oggi nell’emozione di questo lutto, e inviamo un abbraccio tenero a Cynthia da Ste Lucia, Barbados, ed alla prole.

Oreste, con Lucia &C

«Il Tipografo», Le torture della repubblica in un film di Stefano Pasetto

«Il Tipografo», il lungometraggio realizzato da Stefano Pasetto che racconta le torture praticate contro le persone arrestate per fatti di lotta armata tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, in particolare la storia di Enrico Triaca arrestato il 1978 maggio 1978 perché gestiva una tipografia delle Brigate rosse, vince il premio Miglior Lungometraggio Italiano Visioni dal Mondo 2022 con la motivazione: «è un’opera molto interessante sia come testimonianza che come occasione di riflessione su un periodo complesso della nostra storia recente anche perché quanto accaduto viene presentato con una molteplicità di testimonianze non necessariamente univoche».
Una scelta coraggiosa quella della giuria che non ha avuto paura di porre all’attenzione pubblica un tema da sempre occultato, quello della tortura. Recentemente anche Sky ha messo in onda una docuserie di quattro puntate sul sequestro Dozier in cui si ricostruisce senza censure l’attività svolta tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 da un apparato del Ministero dell’Interno specializzato nella pratica del waterboarding per estorcere dichiarazioni agli arrestati. Un segnale importante che si spera spinga a fare piena luce su quegli anni sfatando la narrazione ufficiale che racconta l’insorgenza politica e sociale di quel periodo sconfitta solo con gli strumenti dello Stato di diritto.

https://www.rai.it/raicinema/news/2022/09/I-vincitori-dell8-Festival-Internazionale-del-Documentario-Visioni-dal-Mondo-c9c1a341-e7b4-4368-ab96-3c7bee2ff0bf.html?fbclid=IwAR1igkb2pVuSigiuzEOKaZFdIXIFljfr1CY-TUyCazl1al7LN9wt4Rulrd4

“Carcere, ostriche e champagne”, la vita a 5 stelle dei detenuti italiani

La permanenza in carcere di un detenuto costa all’amministrazione circa 137 euro al giorno, ma solo 20 euro vengono destinati al suo mantenimento (vitto alloggio e trattamento), il resto serve per coprire le spese della custodia e dell’amministrazione civile. La colazione costa all’erario €. 0,27, il pranzo €. 1,09, la cena €. 1,37, per un totale di €. 2,73, interamente rimborsati allo Stato dallo stesso detenuto. A queste si aggiungono le spese per il corredo, pari a €. 0,89 giornaliere, per un totale di €. 3,62. Gli altri 16 e rotti euro vanno per il trattamento. Quando la Francia della terza repubblica progettava il suo nuovo sistema penitenziario, il padre della sociologia Émile Durkheim dava consigli affinché le condizioni di vita del detenuto non si allontanassero molto dalla durezza spartana della vita di strada condotta da un normale clochard. È passato molto più di un secolo da allora, ma la mentalità dei funzionari della punizione dell’amministrazione penitenziaria non è cambiata

massama
di Cesare Battisti, Carcere di Oristano, 30 luglio 2020

Essere perseguitato da un povero di spirito come Salvini mette più tristezza che rabbia. Tristezza per quelle persone, disgraziatamente troppe, che gioiscono delle abili bassezze di un uomo che, sfortunatamente per la Repubblica, siede tra i banchi del Senato. Tristezza ancora per l’ignoranza generalizzata circa le reali condizioni di vita del detenuto. Per gli scempi del giustizialismo ipocrita e degli scellerati che spopolano sugli schermi televisivi o sulle pagine di alcuni giornali nazionali. Si dovrebbe stare attenti alle parole che si dicono, parlano i saggi, perché esse uccidono. E allora non basterà più essere dal lato buono delle sbarre per ritenersi in salvo dal massacro. Ci pensino coloro che, anche se giustamente saturi di inganni e colmi d’insoddisfazione, trovano facile adottare il linguaggio improprio dei soliti sciacalli a caccia di voti. E’ triste constatare come sia diffusa l’espressione dell’hotel a 5 stelle per i detenuti: «lo ha detto la televisione, perbacco, deve essere vero». C’è da augurare a costoro di non avere la sfortuna di capitare in galera. Tempi tristi, dove le disinformazioni aggrediscono in tal modo da venire assorbite prima ancora che il senso critico abbia il tempo di reagire. Succede che non basta più lasciare il detenuto in carcere a marcire, bisogna anche togliergli il diritto di parola. Non si sa mai, potrebbe avere qualcosa di importante da esternare o un sentimento da esprimere. Gli si tappa la bocca e il cuore, mentre si lasciano blaterare coloro che del carcere ne hanno fatto una miniera d’oro.

Niente di nuovo a Ovest, la fabbrica di delinquenza c’è sempre stata, ed oggi produce a pieno ritmo. E chi si riempie le tasche sono spesso i primi a gridare al ladro. Non è una novità, lo dovremmo sapere tutti come vanno le cose nel paese dei faccendieri. Eppure sentiamo gente onesta che lavora, quelli da sempre ingannati dal potere, gridare al lupo insieme agli ingannatori. Che ne è della buona saggezza popolare? E’ finito il tempo in cui si diceva che quando tutti sono contro uno, vale la pena sentire le ragioni di chi è rimasto solo. Possibile che siamo entrati a marcia indietro nell’epoca in cui è d’obbligo prendersela sempre con i più sfigati? E’ così difficile da capire il perché anche un Papa è costretto a ricordarci che siamo tutti sulla stessa barca? Oppure queste parole perderebbero valore, se a ripeterle fosse il prossimo emigrante a morire in mare, o un detenuto condannato alla gogna popolare? Nel contempo, anche persone insospettabili si mettono a fare eco a falsi profeti che venderebbero il paese pur di restare in sella alla politica predatoria.

Ma torniamo alla questione carceraria, quella trasformata in laboratorio di raggiri da politicanti mascalzoni e mercanti di parole. Se non sono i richiami alla compassione, chissà che non siano i numeri ad essere ascoltati.

I dati che seguono sono del Decreto Ministeriale del 07 agosto 2015: un detenuto costa allo Stato circa €. 137,00 al giorno. Questa spesa però, non serve a coprire solamente le esigenze personali del detenuto. Oltre l’80% di questi €. 137,00 è destinato a spese per personale civile e polizia penitenziaria. Le spese inerenti ad ogni detenuto sono in pratica meno di €. 20,00. Questi venti euro dovrebbero coprire le spese di igiene, lavanderia, sanità, vitto, area trattamentale , corredo e una voce non ben specificata di mantenimento. Non abbiamo percentuali relative ad ognuna di queste voci, salvo per il vitto e il corredo, così ripartite: colazione €. 0,27, pranzo €. 1,09, cena €. 1,37, per un totale di €. 2,73, interamente rimborsati allo Stato dallo stesso detenuto. Per il corredo, risulterebbe una spesa di €. 0,89 al giorno, ci si chiede a cosa si riferisce questa voce poiché di vestiario dell’Amministrazione non c’è traccia. Gli €. 2,73 per il vitto giornaliero si commentano da soli, sono una vergogna. Senza contare il contorsionismo dell’Impresa rifornitrice e delle Amministrazioni locali per abbattere ancor più i costi, servendosi di prodotti spesso destinati ai rifiuti e, comunque, preparando meno della metà di pasti, sapendo che i detenuti si arrangeranno col solito piatto di pasta, comprato al sopravitto fornito dalla stessa impresa. I prezzi del quale sono notevolmente superiori alla media nazionale. Non si sa quanti di quei meno di €. 20,00 siano destinati all’igiene. Per dare un’idea, in questo carcere il detenuto riceve una volta al mese: quattro rotoli di carta igienica, una saponetta, uno straccio e un litro di disinfettante diluito. Ma veniamo alla voce che dovrebbe costituire l’asse portante, la missione (sic) per eccellenza di tutto il sistema penitenziario: l’area trattamentale. Abbiamo detto che degli €. 137,00 al giorno stanziati dallo Stato, solo meno di €. 20,00 sono destinati al detenuto. Ma quanti di questi quasi €. 20,00 sono destinati all’obiettivo imprescindibile di un sistema che si dice rieducativo? Non lo sa nessuno. Oppure, tutti i fattori che dovrebbero intervenire nella complessità del sistema di rieducazione e al reinserimento del detenuto nella società sono talmente sparsi e indefiniti da rendere impossibile un calcolo preciso. Faremo prima a dire che, salvo rari Istituti che si sono notoriamente distinti nel compimento della loro missione, l’area trattamentale nel carcere esiste appena sulla carta come forma di appannaggio. Il detenuto è lasciato in balia di se stesso o affidato alla Polizia Penitenziaria, il cui compito, non è colpa loro, è quello di sorvegliare e punire. Questo è solo un aspetto, il più ovvio della squallida situazione che regna nelle carceri italiane.

Abbandonati dalla società civile disinformata, vittime della vendetta e della incapacità dello Stato di amministrare giustizie e democrazia, i detenuti si ripiegano su se stessi per sopravvivere alla pena impietosa e agli improperi. Si organizzano tra loro, affinché anche i più sventurati abbiano di che sfamarsi e resistere alle deficienze del sistema. E alla corruzione generalizzata, che alimenta l’animosità di chi sta pagando per tutti ed è pubblicamente insultato. Il detenuto cerca riparo nei codici ancestrali, perché non gli è dato conoscere strumenti diversi per affrontare con dignità la vita. La popolazione detenuta soffre in silenzio, mentre i fabbricanti di opinione pubblica brandiscono figure terrificanti. Grandi nemici della società, dicono con la bava alla bocca, grazie ai quali si giustificherebbero anche le torture. Sono sempre gli stessi ad essere mostrati alla folla inferocita. Si amplifica il loro ruolo criminale dando fiato agli sciacalli di ogni colore, che hanno rimosso il tempo in cui banchettavano tutti assieme allo stesso tavolo.

Questo è il mondo marcio del detenuto, altro che hotel a cinque stelle! Dire che neanche le bestie sono trattate allo stesso modo sarebbe fare un torto all’orso M49 che proprio in questi giorni sta passando in mezzo alle forche umane.

Da dove ripartire… c’è bisogno di un movimento antipenale

La Costituzione italiana è stata scritta da fior fior di pregiudicati,
ex galeotti, ex latitanti ed ex sorvegliati speciali con tanto di confino.
Tra questi pregiudicati si contano ben due presidenti della Repubblica

 

L’estenuante richiamo al principio di legalità presente nel dibattito pubblico impone un bilancio ed una decostruzione del concetto. Da tangentopoli in poi, oltre a non aver impedito ma in qualche modo favorito l’ascesa del berlusconismo, la legalità è servita da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. I suoi effetti nel campo politico-giudiziario sono stati gli stessi dell’ultraliberismo in materia economico-sociale: un contesto dove i forti sono diventati ancora più forti e i deboli più fragili. Cominciamo col dire che la violazione della legalità in determinati contesti storico-politici oltre ad essere un dovere, rappresenta un valore, una prassi da apprendere. Le lotte sociali e politiche, per esempio, hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. La legalità è la risultante degli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Non a caso quando ancora i regimi politici attuali non si percepivano come la «fine della storia», ed il conflitto era percepito come un fattore fisiologico con cui governi e le società in qualche modo dovevano misurarsi, le amnistie erano ritenute strumenti della politica penale necessari ad aggiornare i livelli di giuridicità: quella normale discordanza di tempi presente in ogni mutamento effettivo o tentato. Ragion per cui, sul versante opposto, le organizzazioni del movimento operaio, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno sempre fatto ricorso alla rivendicazione di amnistie per tutelare le proprie lotte, salvaguardare i propri militanti e le proprie componenti sociali salvaguardando la loro capacità di riprodurle in futuro.
Questa concezione storicamente relativa della legalità è andata persa negli ultimi decenni a vantaggio di una sua sacralizzazione che l’ha eletta a feticcio di una modello di giustizia e statualità profondamente ipocrita, ingiusto e spietato con gli ultimi.
Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento di mettere in campo un movimento antipenale.

Il carattere esemplare dell’abolizione del 41 bis
Partiamo da un punto che recentemente è stato oggetto di accese discussioni: l’abolizione del 41 bis, ferro di lancia del pacchetto giustizia presente nel programma elettorale di una formazione politica, “Potere al popolo”, insieme all’abolizione dell’ergastolo, all’amnistia e indulto per i reati sociali e il sovraffollamento delle carceri, la radicale riforma del codice Rocco, l’abolizione della legislazione speciale e dei Daspo urbani (per una visone completa leggi il punto 15 del programma).
Formula, la cui nitidezza – va ricordato per completezza d’informazione – è stata attenuata nel corso della campagna elettorale con una postilla che prevede «al suo posto misure di controllo, per i reati di stampo mafioso, allo stesso tempo efficaci ed umane, che non permettano la continuità di rapporto con l’esterno». Una rettifica che spiega le molte difficoltà, reticenze e resistenze presenti nella cultura politica diffusa tra dirigenti, militanti, simpatizzanti e potenziali elettori della sinistra, per altro spesso ignari del fatto che il sistema carcerario prevede già, in automatico, regimi differenziali ristrettivi di Alta sicurezza per i reati di criminalità organizzata.
Il 41 bis, l’ergastolo, le norme ostative contenute nell’ordinamento penitenziario, che vanno ad aggiungersi alla vecchia legislazione speciale varata alla fine degli anni 70 e prima metà degli 80, sono un combinato disposto che serve a tenere in piedi un modello giudiziario e carcerario d’emergenza. O si ha il coraggio di prendere di petto questo dispositivo multiplo, senza se e senza ma, per farlo saltare e riaprire una nuova stagione, con tutte le implicazioni che ciò comporta a livello di cultura politica, di critica dell’ideologia malsana della legalità, del populismo penale, dell’emergenza giudiziaria, penitenziaria e poliziesca, oppure la partita nemmeno inizia. Questo deve essere chiaro. Non ci sono mezze misure.
Bisogna spiegare con chiarezza alcune verità: il 41 bis non serve a interrompere la comunicazione con l’esterno delle élites mafiose. I suoi compiti principali sono altri: legittimare la funzione del carcere come strumento per estorcere informazioni o indurre a comportamenti di abiura. La formulazione finale adottata nel 2003 stabilisce questo: se ne esce solo se si da prova di una totale acquiescenza con i voleri delle autorità, non certo se si dimostra che non sussistono più rischi di legami con l’esterno. Circostanza, quest’ultima, che ormai non è più demandata all’autorità giudiziaria proponente la misura restrittiva ma, con un paradossale capovolgimento dell’onere della prova, al detenuto ricorrente. Inevitabilmente questa filosofia ricade sull’intero sistema penitenziario, ispirando inevitabilmente tutti gli altri regimi detentivi, come la presenza dell’ergastolo serve da parametro per l’erogazione delle altre pene.
Altra funzione secondaria è quella di pena di morte differita, utilizzata come vendetta privata voluta dalla corporazione giudiziaria contro gli autori non collaboranti degli omicidi di Falcone e Borsellino.

Il mito dell’azione penale e la deriva giustizialista
La crisi terminale della sinistra italiana nasce, tra l’altro, dalla incapacità di ripensare il decennio 90 del secolo scorso (che a sua volta mette radici in quel che accadde negli anni 70, e nel modo in cui si conclusero). Eppure l’intera fisionomia di quel poco che resta della sinistra di oggi nasce da lì, da come il Pci reagì alla caduta del muro cambiando nome e dal quel che accadde subito dopo.
Merita di esser indagata meglio questa significativa rimozione perché gli anni 90 hanno forgiato in buona misura l’identità della sinistra attuale, nelle sue differenti versioni: riformista, radicale, antagonista, di classe, per usare definizioni e autodefinizioni.
L’illusione giustizialista ha cullato la sinistra nell’idea che il fenomeno berlusconiano fosse sorto dal mancato compimento della missione purificatrice di Tangentopoli e non sia stato invece una sua diretta conseguenza. Lo tsunami giudiziario, che ha investito il sistema politico-istituzionale nel corso della prima metà degli anni novanta non ha lavato la politica e ancora meno moralizzato la cosa pubblica. In realtà, travolgendo le figure tradizionali (i «corpi intermedi» come si usa dire) della mediazione, istituzionale e politica, fuoriusciti dal dopoguerra, ha semplificato le linee di comando, ridotto le zone intermedie, portando a compimento l’instaurazione del meccanismo maggioritario, marginalizzando i gruppi sociali più deboli e favorendo l’accesso diretto alla politica dei nuovi quadri direttamente espressi dal mercato, dalla società commerciale, dalle aziende, dai meetup.
La  rivoluzione conservatrice avviata negli anni 80 ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e il partito impresa ha trovato la strada spianata verso la sua ascesa al governo. A questo risultato hanno contribuito l’ideologia della repressione emancipatrice, il mito dell’azione penale, la «teoria dell’interferenza», divenuta patrimonio di larghi settori della magistratura. Come era prevedibile fin dall’inizio «Mani pulite» non ha eliminato i meccanismi della corruzione, ha semplicemente liquidato per via giudiziaria una parte del vecchio ceto politico della Prima repubblica la cui attività regolatrice costituiva oramai un intralcio troppo costoso rispetto ai nuovi parametri della competitività internazionale. La sua funzione è stata eminentemente politica, un vero capolavoro: realizzare un Termidoro evitando la presa della Bastiglia. Reazione preventiva ad una rivoluzione mai avvenuta.
Così il giudiziario, da strumento di tutela reciproca tra classi dominanti, si è trasformato per un certo periodo in luogo di conflitto anche tra élites, ricorrendo a pratiche tradizionalmente riservate alle sole classi pericolose o ai nemici interni.

«Siamo tutti sbirri»
Lentamente l’oppio giudiziario ha contaminato buona parte delle culture presenti nella sinistra, mutandone profondamente l’universo simbolico, insieme a quello dei movimenti, ed ai vari repertori che giustificavano l’azione collettiva.
L’ambizioso progetto che un tempo animava i propositi di cambiare il mondo è reclinato verso la modesta pretesa di giudicarlo. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta, del risentimento e del vittimismo, la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto.
La politica ha mutato attori, tecniche e contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata prima nelle corbeilles e poi nelle procure, infine nei meetup. Chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile e chi ha continuato a farlo ha finito per vestire i panni della nuova icona del male, il black bloc, il terrorista urbano.

Non c’è tema di classe che possa decollare senza critica del penale
L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.
La fonte della legittimità proviene dalla legalità o dal suffragio, arrivarono a chiedersi alcuni pasdaran della soluzione penale (Flores D’arcais su MicroMega).
Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate.

 

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Quel sorriso che li seppellirà

DoinaDopo nove anni passati all’interno di uno spazio recluso fatto di cemento e acciaio un corpo che torna ad avere dei momenti di libertà risente emozioni intense. Poter nuovamente camminare a piedi nudi sull’erba, sentire sulla propria pelle le carezze della sabbia, guardare l’orizzonte fino a quella linea che si confonde con il cielo, sentire la brezza del vento che arriva dal mare, provoca una gioia profonda, brividi e commozione. E lì che ti accorgi che le cose più belle sono quelle più semplici, come il contatto diretto con gli elementi della natura. C’era questa gioia nel sorriso di Doina Matei ritratto nella foto che gli è stata rubata sul suo profilo facebook. Un momento di felicità che è proprio della nostra specie vivente: qualsiasi essere umano avrebbe sorriso dopo anni di cattività. Lo fanno tutti gli altri mammiferi: avete mai visto immagini di animali rimessi in libertà dopo anni di prigionia in recinti o stalle? Corrono e giocano scalciando in preda ad una euforia incontenibile. Questa qualità della nostra specie è stata rimproverata a Doina Matei. La sua colpa? Essersi dimostrata umana sorridendo di fronte al mare. Chi lo ha fatto evidentemente umano non è, ma non può essere nemmeno considerato una bestia, anche loro avrebbero gioito. E poiché anche il modo vegetale reagisce agli elementi della natura, a questi moralisti da strapazzo non resta altro che condividere la coscienza minerale di un fossile.

La vicenda giudiziaria di Doina Matei è partita male fin dall’inizio. 16 anni di reclusione per un omicidio preterintenzionale è una sanzione abnorme, pari al doppio di quelle più alte comminante per questo tipo di reato. Pene del genere vengono attribuite per omicidi volontari le cui circostanze portano i giudici ad applicare solo il minimo della sanzione prevista con il riconoscimento delle attenuanti o il ricorso al rito abbreviato. A Doina invece sono state applicate solo aggravanti in un contesto di allarme politico, dove il tema della immigrazione veniva sovrapposto a quello della sicurezza urbana avviando le prime campagne d’odio razzista. L’episodio tragico e banale al tempo stesso scaturisce da un litigio dentro un vagone della metropolitana a causa della calca. Una serie di spinte scatena un alterco con un’altra ragazza, Vanessa Russo, di poco più grande. Scrivono alcune cronache dell’epoca che sarebbe volato anche un sonoro ceffone, forse preso da Doina fisicamente più gracile, che reagisce con un gesto inconsulto. Quel giorno minacciava di piovere e la giovanissima rumena, già madre di due bambini e che viveva prostituendosi, aveva portato con sé l’ombrello: prima tragica fatalità. Doina lo impugna nella parte alta dell’asta e con un gesto dal basso verso l’alto raggiunge al volto l’altra ragazza. La punta dell’ombrello entra nell’occhio e va in profondità tranciando l’aorta. Vanessa morirà di emorragia. Doina, che era in compagnia di una sua amica minorenne, si allontana nella confusione della folla, probabilmente inconsapevole delle conseguenze mortali di quel colpo. D’altronde a riprovarci altre cento volte difficilmente sarebbe riuscita a raggiungere ancora quel punto. Il suo volto, rimasto impresso nelle telecamere interne della metro, permetterà agli inquirenti di rintracciarla ed arrestarla rapidamente.
Nonostante le circostanze che hanno portato alla morte di Vanessa Russo siano frutto di una maledetta catena sfortunata di eventi, Doina viene incriminata fin da subito per omicidio volontario. Alla fine il giudice riconosce la natura preterintenzionale dell’omicidio ma infligge una condanna molto pesante. Un compromesso che salva il processo dalla cassazione.
Che si tratti di un giudizio sommario nel quale Doina è stata inchiodata a recitare la parte del mostro, lo prova un altro episodio accaduto sempre a Roma tre anni più tardi: un giovane, stavolta romano, dopo un litigio ai tornelli all’interno della metropolitana di Anagnina colpisce con un pugno una infermiera di nazionalità rumena, Maricica Hahaianu, madre di un bambino. Dopo un coma di una settimana la donna muore. Nonostante il ragazzo abbia tentato immediatamente la fuga (verrà bloccato da un testimone) si vedrà riconoscere le attenuanti generiche (era incensurato) ed una condanna sostanziosa ad 8 anni. Dopo averne scontati 4, e maturati 5 per la buona condotta, rientra legittimamente nei termini di legge per l’affidamento in prova che ottiene senza suscitare polemiche da parte dei moralisti a geometria variabile.
Una disparità di trattamento che trova spiegazione solo nella logica discriminatoria che ha subito Doina Matei, a causa delle sue origini e della sua condizione sociale di giovane sbandata.

C’è una ulteriore circostanza che è passata inosservata in questi giorni. Una volta diffusa la notizia sulla semilibertà ottenuta da Doina, dopo ben oltre la metà della pena (9 anni scontati ed 11 maturati con la buona condotta), qualcuno ha ossessivamente iniziato la caccia sul web per trovare tracce della giovane donna fino a rubare la foto postata sul suo profilo fb. Immagine poi finita su un quotidiano romano che ha scatenato la polemica. E’ lecito che una immagine privata sia stata rubata e pubblicata su un giornale? E le ingiurie e le minacce ricevute da Doina sulla sua bacheca non sono un reato come prescrive il codice penale? Non solo Doina non è stata tutelata, come avrebbe avuto diritto, ma è stata penalizzata con la sospensione della semilibertà decisa da un giudice di sorveglianza che – sembra – gli ha rimproverato di frequentare i social network esponendosi mediaticamente. Divieto fino ad oggi inesistente nei trattamenti (una specie di contratto) che si firmano all’avvio della semilibertà. Alcune Direzioni carcerarie in passato vietavano o limitavano l’uso dei portatili per i semiliberi, fin quando gli è stato fatto notare che i cellulari sono vere e proprie spie elettroniche che permettono un controllo senza precedenti degli spostamenti e comportamenti del detenuto. Insomma il rimprovero del magistrato di sorveglianza non solo è privo di fondamento ma non ha tenuto conto del fatto che la parte lesa in questa vicenda e proprio Doina.
I famigliari di Vanessa Russo hanno invocato la pena di morte e protestato contro la foto che ritraeva Doina sorridente. Nessuno di noi può sapere come reagirebbe di fronte ad una scomparsa così tragica e insensata della propria figlia. Ma esiste una prova del nove: a parti rovesciate avrebbero invocato al pena di morte? Questo è il punto: la giustizia non è un fatto privato di una parte. Processo e esecuzione penale non possono essere lasciate in balia del vittimismo. Ma ancora una volta il peggio viene da chi cavalca dolore ed emozioni anche quando raggiungono dimensioni patologiche.
Il carcere non redime, indurisce ed inasprisce. Ma in taluni casi, quando a finirvi sono persone senza legame sociale, che vivono ai margini, può diventare paradossalmente una occasione. Parlo ovviamente di chi si trova a scontarlo in sezioni di media sicurezza, dove è permesso con maggiore facilità di incontrare operatori esterni, docenti, gente di cultura, teatro, persone ricche di esperienze che possono dare molto. Chi, tra i detenuti sa approfittare di questi incontri, che mai la vita precedente gli avrebbe procurato, può senza dubbio trarne profitto: acquisire fiducia, scoprire di avere potenzialità prima inespresse. Ogni esperienza anche negativa alla fine può essere maestra di vita.
Per questo mi auguro che Doina Matei non molli ma continui a sorridere. Quel suo sorriso ci serve contro i fautori dell’odio. Perché un giorno li seppellirà.

Nella desolata vastità della cella

La sapienza della cella

Vorresti conoscere te stesso e (forse ancor più) la tua reale situazione? C’è per questo una buona pietra di paragone. Considera quale tra le migliaia di definizioni dell’uomo ti appaia immediatamente evidente.
Mi metto dunque a pensare nella mia cella, e mi appare immediatamente lampante che l’uomo è nudo. Massimamente nudo è l’uomo che vien posto svestito di fronte a un uomo vestisto; disarmato di fronte a uno armato; impotente, di fronte a uno potente. Tutto ciò lo sapevano già Adamo ed Eva alla cacciata dal paradiso.
Subito si solleva una questione: da chi deve cominciare la definizione di uomo, dall’uomo nudo o dall’uomo vestito? Dall’armato o dal disarmato? Dall’impotente o dal potente? Nei paradisi dell’odierno aldiqua gli uomini vanno dattorno vestiti di colpo mi è chiaro che io invece sono nudo.

Nelle desolate vastità di un’angusta cella.

Ex Captivitate Salus
Carl Schmitt

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Cronache carcerarie

 

L’accusa di terrorismo, uno strumento repressivo in perenne estensione [Prima parte]

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento del Prison Break Project sulla storia del concetto di terrorismo, accusa (la finalità terroristica) rivolta contro quattro compagni e compagne NoTav, incarcerati in regime di alta sorveglianza dallo scorso 8 dicembre 2013.
La volontà – spiegano gli autori del testo – è quella di contribuire al dibattito pubblico e di movimento sul tema della repressione, a partire dalle sollecitazioni che l’attualità giudiziaria impone su chi partecipa alle lotte in Italia”.
Il testo sarà diviso in tre spezzoni per agevolarne la lettura e per accompagnare simbolicamente le scadenze di questo mese di mobilitazione per la liberazione di compagni e compagne e contro la criminalizzazione della lotta notav.
La prima parte è stata pubblicata su diversi blog e siti il 5 maggio scorso (noi lo facciamo in ritardo e ce ne scusiamo), le altre date previste sono quelle del 12 e 19 maggio prossimi. L’obiettivo è quello di mostrare un piccolo, e speriamo utile, segno tangibile di solidarietà alle lotte contro le dinamiche repressive.

Ben venga questa discussione. Che si apra il dibattito dunque anche se riteniamo non debba limitarsi soltanto alla conoscenza degli strumenti e delle tecniche repressive messe in campo dagli apparati statali ma debba andare oltre, cercando le strade per contrastare i processi repressivi, il loro continuo aggiornamento.
La sfera del giuridico non esprime solo tecnica ma uno degli aspetti più profondi del politico: la continua ridefinizione dei confini del lecito e dell’illecito, della legittimità e dell’illegittimità, quella sorta di pendolo che è la legalità.
La sfera del giuridico è un terreno di conflitto dove però ad essere attrezzata è solo una delle parti. L’altra, i movimenti, chi lotta, il più delle volte recita il ruolo passivo di chi prende colpi senza sapere bene cosa fare, oppure attestandosi su una linea di condotta che non va oltre la resistenza, la capacità di incassare. Tenere botta è importante ma l’avversario si mette in difficoltà schivando i suoi colpi e si stende portando i propri. Dinamismo, movimento, velocità, riflessi, contro staticità. Non ci si può esimere dal costruire un intervento politico sulla giuridicità.
Questa estate si era aperta una discussione attorno ad una proposta definita “amnistia sociale”, era un tentativo di definire un orizzonte prim’ancora che una soluzione concreta: elaborare una strategia che individuasse il nodo centrale dello scontro che veniva costituendosi, ovvero l’attacco alla legittimità stessa di un dissenso fattivo, alla possibilità che dei movimenti potessero esistere e mettersi di traverso, inceppando un sistema sempre più oligarchigo. Diventare il volano di un fronte da allargare per scardinare le ultradecennali stratificazioni dell’emergenza.
Nel fratempo quel dibattito si è arenato mentre le dinamiche repressive oltre ad essersi inasprite hanno allargato il loro fronte in Val Susa come a Roma e i movimenti si sono trovati in grosse difficoltà, senza strumenti, senza aver mai intaccato di un millimetro le strategie repressive che mirano ad isolarli e sconfiggerli.
Forse è il caso di ripensarci!

5 maggio 2014. Terrorizzare e reprimere. Parte 1 di 3

Terrorizzare e reprimere.
Il terrorismo come strumento repressivo in perenne estensione

“When government fears the people, there is liberty. When the people fear the government, there is tyranny”
Thomas Jefferson

Non siamo in grado di trattare con esaustività un tema vasto e controverso come quello del terrorismo.
Ci interessa piuttosto seguire a volo d’uccello la parabola storica della nozione di terrorismo, per mostrare come essa, nata per indicare i più gravi atti di violenza politica indiscriminata, stia finendo per abbracciare virtualmente ogni atto di insubordinazione all’ordine costituito.
Diventa preminente l’esigenza, che impregna tutto il lavoro di Prison Break Project, di non appiattire il discorso critico solo sul piano ostile e ostico del diritto. Perciò, pur nell’inevitabile incompletezza della nostra disamina, anteponiamo all’analisi delle definizioni giuridiche internazionali ed italiane del terrorismo un’approssimativa indagine “filologica” del concetto nel suo manifestarsi storico.
Tra i due piani c’è ovviamente una relazione, dato che persino le parole più falsificate e asservite dal potere devono la loro efficacia persuasiva e di governo alla loro capacità di rinviare a-, a risuonare con-, esperienze collettive che al potere pre-esistono o che comunque hanno una loro, relativamente autonoma, dimensione di realtà.
L’esperienza cui il concetto di terrorismo non può non rimandare è il terrore, esperienza per sua natura soggettiva (ciò che terrorizza te non è detto che terrorizzi me), ma che assume la valenza politico-giuridica che qui rileva solo in quanto si imprime su un soggetto collettivo (il terrore deve comunque colpire un “noi”).
La natura intrinsecamente politica del concetto di terrorismo sta dunque, in ultima analisi, nella decisione su quale sia il soggetto collettivo che si assume colpito dal terrore.

terrorismOrigine, evoluzioni e deformazioni di un concetto ambiguo

La maggiore difficoltà che si frappone all’analisi del fenomeno terroristico risiede nella sua ambiguità, nel senso che la qualificazione di un’azione o di una pluralità di azioni come terroristiche non è frutto di un giudizio di valore assoluto ma relativo. In altri termini, un comportamento che è valutato come terroristico dai suoi destinatari, riceve invece una diversa qualificazione dai suoi autori”.

Queste parole non sono state pronunciate da un legale di soggetti accusati di terrorismo o da qualche scomodo intellettuale radicale. Sono invece tratte da uno scritto1 di Emilio Alessandrini, Pietro Calogero e Pier Luigi Vigna, magistrati titolari di diverse inchieste per terrorismo negli anni ‘70.
Se persino chi ha elargito anni e anni di carcere sulla base della nozione di terrorismo ne ha denunciato l’ambiguità, è chiaro che diventa tanto difficile quanto necessario il tentativo di restituire un minimo di contenuto semantico al concetto.
Nel senso comune del termine, il terrorismo denota una delle modalità più efferate e indiscriminate in cui si può esprimere la violenza politica. Le diverse definizioni accademiche 2 si imperniano intorno ad un minimo comune denominatore che valorizza l’etimologia del termine: terrorismo significa terrorizzare la popolazione attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico o ideologico.
Da questo nucleo semantico tanto vago quanto intrinsecamente carico di disvalore discende la relativa ambiguità e soggettività del concetto, il quale si presta dunque facilmente ad essere strumento di condanna e demonizzazione dell’avversario politico 3.

Nonostante i suoi limiti, tuttavia, questa definizione è un imprescindibile riferimento sia per poter operare una ricostruzione storica del fenomeno che per conquistarsi un minimo di autonomia di giudizio in relazione agli avvenimenti attuali. Un’autonomia di giudizio che serva, se non a valutare quali prassi contemporanee possano essere definite terroristiche, quantomeno a riconoscere con sicurezza ciò che terrorismo non è.
Già da un punto di vista filologico, lo slogan di movimento “terrorista è lo stato” coglie nel segno. Il termine viene coniato a partire dall’esperienza del “Regime del Terrore”, instauratosi nella Francia rivoluzionaria del 1793, a forza di teste ghigliottinate secondo le decisioni sommarie del Comitato di Salute Pubblica 4, organo del governo rivoluzionario giacobino.
I neologismi francesi terrorisme e terroriser, creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col significato – tuttora attestato nei vocabolari – di “azione del potere politico di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza” 5.

Un primo capovolgimento semantico avviene con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono dello stigma legato all’impiego del termine “terrorismo” contro quelle popolazioni asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di sterminio e depredazione delle risorse.
In alcuni casi l’accusa di terrorismo aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne per la popolazione “Herero” trucidata dall’esercito tedesco 6. Contro gli Herero, accusati di terrorismo, furono usati metodi terroristici da manuale: sterminio per fame, avvelenamento dei pozzi, campi di concentramento e terribili esperimenti medici. Secondo il rapporto ONU “Whitaker” del 1995 il genocidio ridusse la popolazione da 80.000 a 15.000 “rifugiati affamati”.
Sorte analoga spettò ai Mau Mau massacrati dagli inglesi. Col pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso sistematico dell’elettro-choc 7.
D’altronde anche il colonialismo italiano non fu da meno nel dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come nei Balcani 8.

Nel corso del Novecento c’è un’altra esperienza in cui il terrorismo assume un ruolo importante. All’indomani della rivoluzione d’ottobre e nel vivo della fase del “comunismo di guerra”, Lev Trockij scrive Terrorismo e Comunismo 9 in cui spiega l’importanza strategica del terrore rivoluzionario, il quale nella sua visione si riallaccia al terrore giacobino e si contrappone al terrorismo controrivoluzionario del regime zarista.
Non ci interessa qui verificare se le valutazioni di Trockij fossero corrette o meno. Non si può cionondimeno ignorare come queste teorizzazioni e pratiche di certo non servirono a porre un argine all’avvento, una quindicina di anni dopo, del Terrore staliniano, chiara forma di terrorismo di stato.
Con quest’ultimo termine si intende il periodo delle purghe staliniane – iniziate nel 1934 dopo l’assassinio del dirigente bolscevico Kirov – che permise l’ampliamento dei poteri della polizia politica (Nkvd) e di varare una legislazione d’emergenza che fu il supporto dei grandi processi pubblici contro i vecchi capi bolscevichi. L’ironia della Storia vuole che proprio Trockij e i suoi seguaci furono tra le vittime di questi processi con l’accusa di terrorismo 10. Ecco dunque un’altra volta il rovesciamento di senso: il terrore stalinista che accusa di terrorismo i suoi oppositori.

E che dire invece dei regimi “democratici” contemporanei? A proposito delle pratiche terroristiche da loro utilizzate ci limitiamo a ricordarne la più compiuta espressione: la guerra. Infatti, se torniamo a considerare la definizione di terrorismo vista all’inizio (terrorizzare la popolazione con una violenza indiscriminata per raggiungere un fine politico) ci rendiamo conto che la guerra, in particolare quella moderna basata sui bombardamenti aerei, vi rientra in pieno.
Il massimo e apocalittico esempio di questo tipo di terrorismo è il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki 11. Tuttavia anche un semplice cacciabombardiere novecentesco che getta “a spaglio” le sue bombe sopra una città non fa altro che seminare terrore e morte in maniera indiscriminata.
Ci ricorda Vladimiro Giacchè come questa inconfutabile valutazione si attagli anche alle contemporanee “guerre chirurgiche”. Questo tipo di bombardamento provoca i cosiddetti “effetti collaterali”, ossia i previsti e voluti massacri di civili. In realtà, l’idea della guerra chirurgica non è certo nuova. Essa era teorizzata già negli anni `20 come “un’operazione chirurgica di aggiustamento internazionale senza quasi spargimento di sangue” mediante l’uso dell’aeronautica militare che “punterà ad abbattere il morale della popolazione”, ossia, ancora una volta, a seminare il terrore 12. In questo quadro, la nuova politica tecnocratica della cosiddetta “guerra dei droni” è l’ennesima innovazione nel campo delle possibilità terroristiche del potere costituito e degli stati 13.

Possiamo, a conclusione di questa panoramica storica, sottolineare un dato di fatto: il terrorismo è un’efferata strategia politico-militare che viene portata avanti anche da singoli e gruppi, ma che in realtà è sistematicamente usata delle organizzazioni statali.
Non vogliamo quindi sostenere che il terrorismo è stato storicamente solo quello di Stato, poiché certamente pratiche terroristiche sono state adottate anche da gruppi e/o individui privi di potere. Attentati esplosivi indiscriminati contro la popolazione civile sono ad esempio stati realizzati da combattenti irlandesi, palestinesi, del risorgimento italiano 14, rivoluzionari e fascisti.
Un discorso a parte meriterebbe invece l’uso che gli Stati hanno fatto dell’accusa di terrorismo su gruppi che usavano la violenza (anche armata) per un fine rivoluzionario che terrorizzava solo i dominanti ma poteva entusiasmare i dominati. Se si condivide infatti l’assunto che la società non è un tutto organico e monolitico, occorre chiedersi quali gruppi sociali siano terrorizzati da una specifica modalità terroristica.
Un bombardamento aereo è certamente un atto idoneo a terrorizzare tutta la popolazione (per quanto quest’ultimo concetto sia un’astrazione). Ma può dirsi lo stesso della gambizzazione di un uomo politico o di un manager?
Secondo noi è tutta questione del punto di vista di classe da cui si guarda la realtà: un regicidio terrorizza regnanti e classi dominanti; una bomba alla stazione terrorizza direttamente chi prende i treni per spostarsi. In questa prospettiva è evidente come la doppiezza del concetto di terrorismo rifletta la contrapposizione ideologica e di classe che può darsi dentro una società.
Il punto che ci preme qui sottolineare è però un altro: quella statale è la forma prototipica di terrorismo, il terrorismo per eccellenza. Il terrorismo è insomma prevalentemente una pratica di governo.
Il terrorismo individuale o di gruppo, al netto di ogni valutazione etica, è un fenomeno incomparabile per micidialità e dimensioni al terrorismo di Stato. Per giungere a questa conclusione non c’è bisogno di “pesare” spietatamente le quantità di vittime dell’uno e dell’altro fenomeno.
È la storia del Novecento a dimostrarlo. I regimi coloniali, i totalitarismi nazifascisti e stalinisti, le guerre mondiali (con la trasformazione della guerra tra eserciti in guerra ai civili), la minaccia atomica, le dittature sudamericane, africane e asiatiche: tutte queste situazioni in cui il terrore e una violenza efferata giocano un ruolo determinante sono “affare di Stato” e non hanno eguali nel terrorismo individuale o di gruppo.
Dietro queste evidenze storiche del carattere principalmente statale del terrorismo vi sono ragioni strutturali: le situazioni in cui avviene una tendenza generale a terrorizzare una popolazione sono appannaggio degli Stati, i quali (servendosi anche dei loro micidiali armamentari bellici e comunicativi) possono ampliarne e declinarne gli effetti, veicolando la propria interpretazione e l’attribuzione dello “scempio” e del “nemico”.
In questa prospettiva suona grottesca la proclamazione di Guerra al Terrorismo lanciata dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Innanzitutto non è possibile dichiarare guerra ad una forma di guerra, poiché, va ribadito, il terrorismo non è un nemico, non è un soggetto, è una strategia.
Inoltre è paradossale che siano gli Stati Occidentali a lanciare una crociata contro una pratica da essi sempre adottata, difesa e foraggiata 15. Ancora più paradossale è che, per l’ennesima volta nella storia, chi dice di combattere il terrorismo utilizzi metodi terroristici, ad esempio bombardando i civili iracheni nella guerra del 2003. Non lascia adito a dubbi il nome del primo attacco aereo su Baghdad: “Shock and Awe”. Tradotto letteralmente: “colpisci e terrorizza”.

Note

1 Questo scritto è stato testualmente citato dall’avv. Pelazza nell’intervista “colpevoli di resistere”, reperibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=03vVyrbmJVU.

2 Per una rassegna di alcune autorevoli definizioni dottrinarie del terrorismo si veda G. Pisapia, “Terrorismo: delitto politico o delitto comune?”, in Giustizia Penale, p. 258 ss., 1975. L’articolo evidenzia anche alcune tipizzazioni che danno conto della complessità del fenomeno: terrorismo di stato (governativo, esterno o “complice”); terrorismo rivoluzionario, subrivoluzionario o repressivo; terrorismo sociale, politico o di diritto comune; terrorismo interno o internazionale; terrorismo diretto e indiretto, eccetera. Cerella fornisce invece una definizione generale del fenomeno in linea con quella da noi riportata, pur dando conto delle difficoltà di un approccio avalutativo quando si intende purificare il concetto di terrorismo dalle sue incrostazioni storiche, A. Cerella, “Terrorismo: storia e analisi di un concetto”, in Trasgressioni, num. 49, pp. 41 e ss., 2010, reperibile su: http://clok.uclan.ac.uk/7969/ /TERRORISMO.%20STORIA%20E%20ANALISI%20DI%20UN%20CONCETTO.pdf.

3 Interessante che il Dictonnary of Politics di Elliott e Summerskill nel 1952 affermi “Terrorista è colui che ricorre alla violenza e al terrore per raggiungere finalità politiche, che frequentemente implicano il sovvertimento dell’ordine stabilito. Il vocabolo è usato anche dai sostenitori di un particolare regime per descrivere e screditare qualsiasi oppositore che ricorra ad atti di violenza. Gli oppositori di un regime, tuttavia, sarebbe meglio definirli partigiani o combattenti della resistenza piuttosto che terroristi” (in Pisapia, 1975, op. cit). Giglioli constata lapidariamente: “Il terrorismo è la violenza degli altri”, D. Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano, 2007, p. 7.

4 Per ciò che concerne il biennio rivoluzionario che la storiografia ufficiale ha etichettato con l’appellativo di “Terrore”, segnaliamo però che la stessa caratterizzazione del periodo come determinato unicamente dalla barbarie giacobina volta ad eliminare fisicamente tutti gli oppositori politici di quello che, in fin dei conti, è un nuovo Stato autoritario, risulta viziata da un certo revisionismo e da un approccio “fintamente” avalutativo della Storia. Questo perché si intende così trasformare quello che è stato, almeno in alcuni suoi aspetti, un tentativo di rivoluzione sociale, pur con tutte le sue contraddittorietà ed i suoi eccessi, in un processo di semplice rivoluzione “borghese”, nella transizione cioè da uno stato autoritario premoderno ad uno democratico borghese. In una concezione di tal genere il “Terrore” non sarebbe altro che un intermezzo dispotico, ad immagine e somiglianza del folle ed incorruttibile Robespierre, nel mezzo di un lineare processo di mutamento di classe dirigente, iniziato con la presa della Bastiglia e terminato con l’avvento e la sconfitta di Napoleone. Non si analizzano cioè le laceranti divisioni in seno al fronte rivoluzionario, che rispecchiavano le differenze politiche dello schieramento, le lotte intestine ed il ruolo da protagonista che gioca la plebe parigina e francese nel tentativo di innalzarsi e liberarsi da schiavitù e sfruttamento. Il filone interpretativo che valorizza questi aspetti concepisce al contrario il 1793 come “punto più alto” della Rivoluzione, poiché vi fu un tentativo di attacco ai privilegi tanto della vecchia classe nobiliare quanto della nuova “borghesia”. Il Terrore, come periodo storico, si sostanzia di tutte queste contraddizioni; l’innamoramento generale per “Madama ghigliottina”, invece, sarà l’aspetto che si ritorcerà contro i rivoluzionari stessi, provocando l’uccisione di Marat, Danton e Robespierre e l’avvento del Termidoro.

5 Mauro Ronco, voce “Terrorismo” in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1986, p. 754.

6 Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il 1904 e il 1907, scrisse: “Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento specifico… L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere qualcosa di nuovo, che resterà”. Maggiori dettagli e riferimenti su: http://claudiocanal.blogspot.it/2010/06/herero.html.

7 Ancora a proposito delle strategie militari del colonialismo inglese Noam Chomsky ricorda che “Winston Churchill autorizzò l’uso delle armi chimiche “a scopo sperimentale contro gli arabi ribelli”, denunciando la “schifiltosità” di coloro che facevano obiezioni “sull’uso dei gas contro tribù incivili”, per la maggior parte curde, da lui invece sostenuto perché “avrebbe seminato un grande terrore”, http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/501_8_2.html.

8 La questione della rimozione delle crudeltà del colonialismo in salsa italica è un tema storico quantomai attuale: essa si scontra con il mito degli italiani brava gente che costituisce il prodromo dell’accusa implicita di terrorismo e barbarie addossata a chi resisteva e attaccava l’esercito coloniale italiano. Su questo tema si possono citare: i lavori di Del Boca (Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2005; A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi, Milano, 2007) e Kersevan (Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Kappa Vu, Udine, 2003; Lager Italiani, Nutrimenti, Roma, 2008) che fanno un bilancio di lunghe ricerche; l’epopea giudiziaria del film Leone del deserto di Moustapha Akkad la cui visione fu proibita per decenni in Italia (analogamente alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo in Francia); le narrazioni romanzate in recenti testi dei Wu Ming (Timira, Point Lenana). Segnaliamo anche quest’articolo sui campi di concentramento per gli sloveni: http://contromaelstrom.com/2014/01/29/memoria-ricordiamo-i-crimini-del-colonialismo-italiano/. Lo riteniamo interessante non solo perché contribuisce a restituire verità e contesto storico alla vicenda delle foibe, ma anche perché segnala il processo del Tribunale Speciale per la difesa dello stato tenutosi nel 1940 contro 60 sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo in quanto partecipanti “ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato” (Marta Verginella, Il confine degli altri, Donzelli editore, 2008, p. 8).

9 Per un’interessante riedizione si veda il testo Zizek presenta Trockij. Terrorismo e comunismo, a cura di Antonio Caronia, editore Mimesis, 2011. Riportiamo un passo dal testo di Trockij: “Chi di principio ripudia il terrorismo – e cioè ripudia le misure di soppressione e di intimidazione nei confronti della controrivoluzione armata – deve rifiutare ogni idea di dittatura politica della classe operaia e rinnegare la sua dittatura rivoluzionaria”. La concezione trotzkista difende tuttavia solo il terrore espresso dalle masse rivoluzionarie organizzate mentre rifiuta il terrorismo individuale o di gruppo in quanto politicamente inefficace. Ciò peraltro a prescindere dall’approvazione morale o dall’umana simpatia che spesso non viene negata da Trockij al gesto individuale, si veda Massari, Marxismo e critica del terrorismo, Newton Compton Editori, 1979, p. 146 e ss.

10 Il primo e probabilmente più famoso è il “processo contro il centro terrorista trotskista-zinovievista”. Fornisce un approfondimento del periodo in questione il trotzkista Vadim Rogovin, 1937: Stalin’s Year of Terror, Mehring Books, 1998. Del testo si trova una traduzione in italiano all’indirizzo:
http://www.marxists.org/italiano/archive/storico/rogovin/1937terrore/1.htm.

11 Sul tema del terrore atomico non si può non rinviare alle bellissime pagine delle “tesi sull’era atomica” e dei “comandamenti sull’era atomica” di Gunther Anders. L’“angoscia atomica” da egli descritta e auspicata è tuttavia un sentimento positivo che nasce dalla consapevolezza della costante possibilità dell’apocalisse atomica e che spinge ad intraprendere le azioni necessarie per far cessare la “situazione atomica”. Si veda Anders, G. Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino, 1961.

12 L’affermazione riportata in virgolettato è dell’inglese J.M. Spaight, teorico della guerra aerea, citata in V. Giacchè, La fabbrica del falso, Derive Approdi, 2008, p. 120.

13 Come ricorda Chamayou in Teoria del drone, Derive Approdi, 2014, il drone diviene un dispositivo flessibile in grado di coniugare in sé l’indicazione dei soggetti terroristi e la loro eliminazione ed è quindi capace di terrorizzare la popolazione potenzialmente solidale ai “sospetti”. In questo caso avviene l’ennesimo aggiornamento tecnologico che massimizza la criminalizzazione dei “barbari terroristi” oltre a permetterne l’eventuale eliminazione fisica senza minimamente coinvolgere i corpi di militari e forze di polizia.

14 Su questo punto torneremo nel prossimo paragrafo.

15 Solo limitandosi all’esempio Usa, la Scuola delle Americhe ha addestrato dal 1946 oltre 60.000 soldati da adoperare, secondo metodi terroristici, contro i movimenti popolari dell’America Latina. Da quella “scuola” uscirono anche le élites dei vari regimi dittatoriali sudamericani, compreso il Cile di Pinochet. Non dimentichiamo poi che lo stesso Bin Laden così come i Talebani, prima di diventare i Nemici Assoluti degli Stati Uniti, fossero da questi finanziati in quanto alleati nello scacchiere internazionale. Altri esempi di “metamorfosi del terrorista” in V. Giacchè, op. cit., pp. 117-119.

Dante e il canto inedito sulla Valle di Susa

Dante in Val susaLasciata alle spalle ogni cosa diletta per scoprire «come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale», l’esule politico Dante Alighieri, in cammino verso la Francia lungo sentieri calpestati secoli più tardi da altri suoi connazionali, s’imbatté in una singolare avventura mentre transitava per la Valle di Susa.
L’episodio rimasto sino ad oggi sconosciuto diede vita ad un canto inedito della Divina commedia che la Casa Editrice Tabor, animata da Daniele Pepino, ha avuto il merito di pubblicare lo scorso dicembre 2013.
Il canto, collocabile secondo l’editore alla fine dell’Inferno, è il risultato di una «sorprendente visione premonitrice» ispirata da una pozione di «spetialissime erbe» che il sommo poeta non esita a descrivere nel dettaglio, assunta nella Sacra di San Michele presso i monaci che gli offrirono riparo e ristoro curandolo dopo l’arresto e le probabili percosse degli armigeri che, al pari di oggi, presidiavano la valle.
Ironia e brio accompagnano il testo. Una menzione speciale per le note a fondo testo.
Il gioco vale davvero la candela.
Consiglio vivamente il libretto (6 euro). Gli studenti lo portino a scuola.
Buona lettura!

La spetialissima pozione
«Eravi nella nomata pozione di certo aliquanta santoreggia, e della artemisia absinta, e poca digitale e laudano in buona mensura; eranvi di poi li fiori di una particulare spezie di canapa, che dicesi venga dalle lontane Indie, ma che bene forte s’accresce anco nello giardino de’ divoti frati, che spesso l’usano per fare dolciumi, manducati li quali spesse volte li fa visita Nostra Signora la Madonna; eravi di poi una radice genziana, et multi pezzi essiccati del fungo, che trovasi nelli boschi attigui, che chiamasi ammannita, et altri funghi di più piccola fatta, che truovano nelle vicinanze delli armenti su le più alte vette, e serbansi nel miele; et essi anco sono di molto aiuto alle lor preci, imperocché ingollata la giusta dose mai fu vana l’attesa di una divina apparizione. E molto altro ancora eravi, che non riconobbi o non sapria nomare»

Il girone infernale dell’economia capitalistica
«Qual è ‘l distinto atroce
che sulle umane genti farà impero
ti si parrà dinnanzi, e quale croce.

Se tu vorrai, potrai per quel sentiero
giungere al loco che darà recetto
al peggior spergio de lo mondo intero.

Si va parando il sito maledetto
in cui si puniranno un dì coloro
che perdean passione ed intelletto.

Tu dei saper che lo disir dell’oro
presto conquisterà l’umani affanni
tanto da ruinar senno e decoro:

una bieca masnada di tiranni
non curerà se per la sua mercede
a la terra imporrà nefasti danni.

Tanta sarà la brama che li fiede
ch’a curar de’ li conti e del successo
si smarriran da che ragion procede,

e verrà dato il nome di progresso
a ciò che forza fornirà, e stromenti
per mantener l’imperio a quel consesso.

Questi s’affermeranno tra le genti
sviluppando la forza produttiva
che le libererà da fame e stenti;

ma, poi che avranno ‘l mondo che languiva
dotato de li mezzi per avere
quell’essenziale a cui la vita ambiva,

non avendo null’altro da offerere,
per conservare lor social postura
stabiliran ciò che si dee volere.

Fabricheranno merci oltre misura;
per mantenere vivo lo mercato
la terra covriran d’ogni lordura.

Tanto il ciclo sarà automatizzato
che l’accumulazion del capitale
doventerà dottrina dello Stato».

Sotto la chioma niente
«Molto, o mio duca, bramerei sapere
perché di tra gli attrezzi da macello»
dimandai «ve n’è uno da barbiere».

E ‘l duca a me «In questo tristo ostello
tra i magistrati ch’avranno confino
un, più che al resto, baderà al capello.

Sarà procuratore di Torino,
sarà a Palermo, sarà in ogni dove
l’imago sua gli segnerà il cammino.

Se un gesto di Colui che tutto move
lo rimenasse alle stagioni sue,
questi andrebbe a ricercare prove

per indagare Giotto e Cimabue
e patteggiare che lo suo sembiante
dovunque ritraessero amendue;

e quando cadrà al diavolo davante
per saldar su la libra li suoi conti
la frangià sarà il pezzo più pesante».