Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

Il segreto di Guido Rossa

L’appartenenza all’apparato riservato del Pci e il lavoro informativo all’interno della fabbrica

Il 24 gennaio 1979 Guido Rossa, militante del Pci e sindacalista della Fiom-Cgil all’interno degli stabilimenti dell’Italsider di Genova-Cornigliano, rimase ucciso in un’azione della colonna genovese delle Brigate rosse che inizialmente prevedeva soltanto il suo ferimento. Tre mesi prima della sua uccisione, il 25 ottobre 1978, Rossa aveva denunciato un operaio dell’Italsider, Francesco Berardi, scoperto mentre diffondeva all’interno della fabbrica volantini della Brigate rosse (leggi qui il verbale della denuncia).
Rossa era una figura importante all’interno della fabbrica, portavoce della linea ufficiale del Pci all’interno dell’azienda, svolgeva per conto del suo partito anche un incarico molto speciale. Ecco il ritratto che ne fece un suo compagno di lavoro:
«In fabbrica rappresentava il potere sindacale. Di indole schiva e modesta, non voleva apparire uomo di comando, pur esercitandolo con molta fermezza e autorità. Era conosciuto molto dagli addetti ai lavori, i dipendenti politicizzati e sindacalizzati, ma non dalla massa delle maestranze, stando poco in mostra. Non prendeva mai la parola nelle assemblee generali. Ma dentro il Consiglio di fabbrica, tra i delegati, era un numero Uno; dettava legge, incuteva quasi soggezione ai delegati che lo consideravano portatore del verbo di Enrico Berlinguer e Luciano Lama. Il reparto dove Rossa svolgeva il suo lavoro, l’officina di manutenzione, era la Stalingrado dello stabilimento. Il reparto più rosso, dominatondagli attivisti del Pci. Come una nicchia protetta, nel suo seno, in un sottoscala stava il piccolo laboratorio di riparazione degli strumenti di precisione. Lì, Guido Rossa operava con molta libertà».1

I taccuini
Nel libro che ricostruisce la storia di suo padre, Sabina Rossa racconta una scoperta importante: il ritrovamento di alcuni taccuini che un suo compagno di lavoro e di sindacato aveva conservato per anni: «Ecco, sono tutte cose di Guido. Ero presente nello spogliatoio della fabbrica il giorno in cui, subito dopo l’attentato, la polizia aprì il suo armadietto. Trovarono questi documenti, avevo paura che andassero perduti e li presi in custodia. Li ho conservati fino ad oggi, per quasi trent’anni. Ma adesso è giusto che li abbia tu».2
I notes erano cinque, enormi – scrive Sabina Rossa – «E sulla copertina di ognuno era segnato un anno: sul primo il 1974, sull’ultimo 1978. Per cinque anni, anno per anno, con la sua grafia pulita e ordinata, papà aveva annotato con estrema precisione tutti i fatti sindacali dell’Italsider, con tanto di tabelle zeppe di dati ed elenchi di nomi… […] Per cinque anni aveva annotato, quasi giorno per giorno, con maniacale pignoleria, ogni cosa che avesse a che fare con l’attività sindacale all’interno della fabbrica. Organici. Livelli di avanzamento e anzianità. Qualifiche. Mansioni. Orari di lavoro. Paga. Nuovi assunti, loro provenienza e inquadramento. Ferie. Assenze giornaliere e richieste di rimpiazzo… In cinque anni papà aveva ricostruito il quadro della situazione, dipendente per dipendente. E di ognuno conosceva anche numeri di matricola e di patente, e di alcuni persino l’esito di «visite psicoterapeutiche». Non c’era nulla che fosse sfuggito alla sua attenzione. Ho pensato – prosegue ancora Sabina Rossa – che forse quei notes potevano essere riletti anche da un altro punto di vista. Non dovevo cercare grandi rivelazioni che sarebbe stato impossibile trovare fra quegli appunti. Ma dovevo capire perché mio padre aveva fatto quel lavoro, per cinque anni, con pazienza certosina e metodo scientifico».3

Intelligences di fabbrica, Guido Rossa e la struttura riservata del Pci
Proseguendo il suo coraggioso lavoro di scoperta della attività riservate del padre, Sabina Rossa incontra prima il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo che ebbe un ruolo importante nei nuclei speciali creati dal generale Alberto Dalla Chiesa di cui fu uno stretto collaboratore:
«Dalla Chiesa – spiega il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo».4
La successiva testimonianza di Bisso, raccolta sempre da Sabina Rossa, è rivelatrice della speciale missione che Guido Rossa conduceva in fabbrica:
«[…] Quell’esperienza si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».5

Note
1 Intervento di Pierluigi Baglioni, impiegato dell’Italsider, in Guido Rossa mio padre, Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Bur, pp.149-150, 2006.
2 Ivi, p. 145.
3 Ivi, pp. 145-148.
4 Ivi, p. 141.
5 Ivi, pp. 158-159.

Non ci sono più diritti ma premi

L’intervento – il “premio” progressivamente sostituisce tutto ciò che fino a ieri intendevamo come “diritto”. Dove c’è premio, c’è punizione per chi non lo merita: il “pentito” esce, e spesso riprende a compiere reati, il non-pentito vive il carcere ostativo… Ma lo scopo di questa strategia non è quello di far diminuire i reati né quello di punire i rei… La premialità infatti instaura un regime totalitario che pretende il controllo sistematico e capillare degli individui al di là dei loro comportamenti, fino a colpire la loro realtà interiore. Non vuole cittadini “perbene” ma nuovi sudditi

di Vincenzo Guagliardo, maggio 2013

Nel nostro comune immaginario, la tortura si concentra in episodi eccezionali, in particolari circostanze, per una durata di tempo “relativamente” limitata al fine di estorcere una confessione, ma soprattutto – in realtà – per spezzare un individuo, annichilendo la sua volontà, distruggendo cioè gli animi prima ancora che i corpi. Oggi questi confini che abbiamo posto nella nostra mente si fanno sempre più labili. L’indifferenza con cui, per esempio, si continua ad accettare il “sovraffollamento” carcerario nasconde una realtà torturante, volta a distruggere l’individuo dal punto di vista psicofisico, ed è una realtà che sta diventando sistema: applicato a migliaia di persone come condizione di vita quotidiana prolungata. Ma c’è di più. Per esempio: i molti che scontano l’ergastolo con il cosiddetto reato “ostativo”. Costoro non possono usufruire di alcun beneficio previsto dall’ordinamento penitenziario e perciò, in teoria, possono solo aspettare la morte in carcere. In teoria, perché il “trucco” c’è: se “collaborano”, questa condanna a morte a secco e diluita nel tempo viene ritirata… In pratica, queste persone possono uscire da lì solo se accettano di mandare un’altra persona al loro posto!
Ebbene, molti di questi ergastolani non lo hanno fatto. Qualcuno ha detto che non lo fanno per non esporre i loro cari a rappresaglia. A prescindere dal fatto che preoccuparsi della sorte altrui è una scelta rispettabile che nulla toglie all’orrore del ricatto posto loro, c’è da dire che non è solo così perché non può essere solo così. E basta leggere i loro appelli, le loro lettere e testimonianze per rendersene conto. Il fatto stesso di accettare di morire in carcere se non cambia questa legge ricattatoria è oggi una delle più alte espressioni di una resistenza per la libertà di coscienza di tutti e per la dignità d’ognuno, offese da un sistema penale “impazzito” e accettato con il silenzio generale. Le condizioni estreme possono distruggere un individuo, ma possono anche suscitare una dolorosa presa di coscienza alla quale è prezioso rispondere, scoprendo gli orizzonti di una non-collaborazione che non avevamo preso in considerazione e rendendoci così i ciechi complici di una nuova Inquisizione.
Ma da dove viene questo “impazzimento”? Intanto – direbbe Shakespeare – bisogna notare che in questa follia c’è del metodo. Proviene dall’alto, a partire dallo stesso potere legislativo, e non dalla cattiveria del singolo che poi vi potrà trovare il suo spazio congeniale. C’è infatti sempre meno ipocrisia nella pioggia di provvedimenti vari e leggi che creano questo inferno delle anime, che investe, prima ancora del carcere, già il processo, per esempio con l’istituto del patteggiamento: cioè con la riduzione delle aule di giustizia a un mercato. Al centro di questa nuova logica che prima si nascondeva nel buio più profondo delle carceri, o nelle tecniche di tortura, nascoste dietro situazioni “particolari”, si affaccia come sappiamo dagli anni ’80, cambiando il volto delle stesse leggi, il “premio” che progressivamente sostituisce tutto ciò che fino a ieri intendevamo come “diritto”. E’ evidente in lingua italiana che se ti dico che una cosa può spettarti solo come premio, è perché non ti spetta più come diritto. E se non ci stai,… ti distruggo. Perché dove c’è premio, c’è punizione per chi non lo merita: il “pentito” esce, e spesso riprende a compiere reati, il non-pentito vive il carcere ostativo… Ma lo scopo di questa strategia, d’altronde, non è quello di far diminuire i reati né quello di punire i rei…
La premialità infatti instaura così facendo un regime totalitario che pretende il controllo sistematico e capillare degli individui al di là dei loro comportamenti, fino a colpire la loro realtà interiore. Non vuole cittadini “perbene” ma nuovi sudditi. Questa pretesa, perciò, crea inevitabilmente anche il suo contrario al momento della sua applicazione: l’arbitrio. Una prassi penale fuori dal diritto. Ed è qui che non possiamo più stupirci quando si affacciano personaggi come la defunta suicida direttrice di carcere Armida Miserere. Aveva fama tra i reclusi di non essere a posto. I reclusi avevano torto. Veniva persino mandata in missione quando c’era da mettere “a posto” qualche carcere e nella sua lettera di addio al mondo accenna di aver fatto parte di quella nuova struttura di intelligence (ossia di spionaggio) realizzata nelle… carceri (!) quand’era ministro della giustizia il “comunista” Diliberto. Miserere forse non ha più retto questo ruolo – in tal caso ciò vada a suo merito –, ma è stata lo stesso un’avanguardia che oggi è sempre meno sola.
Oggi hanno fatto un film con la Miserere come eroina, interpretata da Valeria Golino.
L’ipocrisia del potere, in fondo, era una mezza virtù. Quando fingi di onorare certi princìpi mentre vuoi fare l’opposto, sei comunque costretto a mascherarti, e quindi a limitarti. L’ipocrisia è un freno a quell’arbitrio totale che è il frutto inevitabile dei sogni di controllo totalitario. Oggi il “liberismo” penale non è più ipocrita. Ha finalmente portato alla luce del sole il nucleo da sempre nascosto del sistema penale nei suoi angoli più bui o nelle sale di tortura. Ora, chi ha occhi per vedere, può capire e riflettere.

Interventi dello stesso autore
A dieci anni di distanza torna nelle librerie di sconfitta in sconfitta di Vincenzo Guagliardo
Servitù volontaria e lealizzazione delle coscienze la non collaborazione come nuovo orizzonte di libertà
Partire dal’labolizione dell’ergastolo per fermare l’escalation della società penale
La rivoluzione abolizionista e il rinnegato Christie
Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale
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Servitù volontaria e lealizzazione delle coscienze, la non-collaborazione come nuovo orizzonte di libertà

Dibattito – Alla stregua di quanto avvenne ai primordi della società capitalista durante l’accumulazione originaria, quando vi fu una formattazione coatta della forza-lavoro attraverso un disciplinamento feroce dei corpi, oggi assistiamo a qualcosa di analogo difronte ai meccanismi sempre più profondi di lealizzazione delle coscienze richiesti dall’ideologia d’impresa. La non-collaborazione opposta alla servitù volontaria diventa allora uno dei nuovo orizzonti di libertà. «Non possiamo più di tanto illuderci – spiega Guagliardo – su un ritorno del welfare state. Dal terreno rivendicativo bisognerà passare a quello ricostruttivo. Alle società di mutuo soccorso»

di Vincenzo Guagliardo, maggio 2013

London-WorkhouseRispetto a quanto scrissi anni fa in “Di sconfitta in sconfitta“, i temi allora affrontati in un ambito piuttosto particolare oggi andrebbero riaffrontati all’interno di un’immensa montagna dov’è facile smarrirsi. I dispositivi per lealizzare le coscienze, ormai ben al di là del sistema penale o delle dinamiche delle sconfitte rivoluzionarie da me analizzate oltre dieci anni fa, sono diventati tout-court la politica principale per il nuovo proletariato, il ricatto che in questa crisi ormai permanente e niente affatto ciclica del capitalismo, riguarda tutto il mondo del lavoro o della ricerca di un posto di lavoro. Questo ricatto è anzi la nuova scuola di formazione della forza-lavoro attuale, una sorta di nuova Inquisizione sociale globale. Ogni lavoratore, o quasi, deve diventare il guardiano di se stesso come quei prigionieri che devono volontariamente rientrare in carcere alla sera dopo una giornata di lavoro svolta fuori.
Mi sembra che, anche se in modo diverso ovviamente, molto più sofisticato, stiamo ritornando alle origini del capitalismo, quelle della nascita di una forza-lavoro necessaria al suo avvento. Ogni precedente figura proletaria venne allora vista come sospetta, levatrice o fabbro o contadino o vagabondo che fosse. Recuperando i dispositivi inquisitoriali già messi in campo nei secoli precedenti contro i cosiddetti eretici, cioè contro i rivoluzionari di quei tempi, chi non si adeguava alle nuove condizioni di lavoro era un sospetto, sospettato cioè di avere stabilito un patto eretico – col diavolo –, e pertanto, rivelava sicuramente nei suoi comportamenti di essere un perverso – ossia sodomita – e ebreo – cioè deicida. Quei pigri indios d’America – si ricorderà – furono perciò proprio accusati di essere ebrei (cioè discendenti degli ebrei colà trasferiti per provvedimento divino!), sodomiti e perciò indiavolati da inviare in miniera. Questa politica di formazione di una forza-lavoro recalcitrante costò in pochi decenni la vita al 90% della popolazione (69 milioni). Il meccanismo inquisitoriale obbliga infatti alla delazione del vicino, scatena percio come prima cosa il rito della ricerca capro espiatorio. Ma attenzione: il processo inquisitoriale non conosce presunti innocenti, bensì, in un’originale versione del peccato originale, solo presunti colpevoli. Per chi poi si ostina quindi a non voler imparare a “stare al proprio posto” scatta un secondo rito, la caccia all’uomo: escludente e annientante. Ti escludo ammazzandoti, in modo possibilmente feroce e spettacolare, per meglio includere gli altri. E questo fu il prezzo dell’accumulazione originaria capitalistica dove cito solo l’esempio significativo degli indios, tanto per non dilungarci a parlare anche dell’Europa. L’intera vicenda è ancora conosciuta sotto il nome assai riduttivo di “caccia alle streghe” (a prescindere dal sesso delle vittime, ovviamente).
La crisi attuale è sempre un problema di accumulazione del capitale. Non si risolve mai e scatena sempre guai. Sempre più grossi. Oggi diventa sempre più “distruttiva” e sempre meno “produttiva”. Quali altre zone non capitalistiche si possono mai conquistare con una guerra purificatrice per creare nuovi mercati che favoriscano l’accumulazione come successe con la conquista dell’America e i vari stermini coloniali? Siamo alla saturazione. Vedo oggi attraverso le tante “piccole” guerre o le grandi operazioni finanziarie, coadiuvate da uno stato nazione–commissario di polizia e dalla legislazione supina del “sistema dei partiti” (di destra e sinistra) non più un rilancio possibile di forze produttive ma la loro distruzione in un immenso trasferimento di redditi dai più poveri ai più ricchi che garantisce il profitto e lo aumenta pure, ma non risolve affatto le difficoltà di accumulazione del capitale. Il suo tasso cala lo stesso.
tableau1Il risultato è che la crisi “permanente” liberista è distruttiva d’ogni tessuto sociale (per non dire del pianeta) in una spasmodica riformazione della forza-lavoro che si fondi su una servitù volontaria assoluta (e un sovrappiù di umanità). Non-collaborazione o servitù volontaria assoluta sono i due poli su cui si confronteranno oppressi e oppressori.
Insomma, anche noi allora oggi dobbiamo, per certi versi, come il capitalismo, tornare alle origini: quelle del movimento operaio. Se la riformazione coatta della forza-lavoro distrugge la comunità umana, compito della politica (rivoluzionaria) è quello di ricostruirla. Ciò che prima veniva dato spontaneamente e su cui si costruiva poi la politica degli oppressi oggi è sottosopra. Non possiamo più di tanto illuderci su un ritorno del welfare state. Dal terreno rivendicativo bisognerà passare a quello ricostruttivo. Alle società di mutuo soccorso o, di contro, alle distinzioni tra buoni e cattivi e a tutto quello che ne consegue. Cambiano gli orizzonti dell’agire, ed è su questo che vorrei invitare ognuno a riflettere.

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Il paradigma del capro espiatorio e la nuova filosofia penale nell’ultimo libro di Vincenzo Guagliardo

Partire dall’abolizione dell’ergastolo per fermare l’escalation della società penale

Oggi è ancora difficile far capire che se si rischia da 1 a… 20 anni per una quantità “non giusta” di possesso di cannabis, è perché c’è ancora l’ergastolo. Insomma l’ergastolo suscita una sorta di effetto traino che giustifica e sospinge verso l’alto il resto delle pene comminate. Adotta il logo della campagna Liberi dallergastolo

di Vincenzo Guagliardo

336-280L’abolizione dell’ergastolo venne evocata alcuni anni fa dal post-fascista Gianfranco Fini. L’uscita inconsueta dell’allora leader di An non ebbe però una grande eco e nel frattempo lui stesso l’ha dimenticata, essendo poi diventato democratico tout court.
Ciò tuttavia dimostra in qualche modo che una tale richiesta può giungere da orizzonti politico-culturali diversi: per esempio può affacciarsi come il risultato di una domanda di maggiore efficienza della giustizia penale o, al contrario, come necessità di una sua radicale rimessa in discussione, oppure può semplicemente scaturire da ragioni umanitarie.
In realtà l’ergastolo si è affermato come un sostituto della pena di morte. Non nasce da ragioni umanitarie ma, come per tutte le altre pene detentive, venne introdotto per ragioni di efficienza. Nel Settecento le torture e le esecuzioni, troppe volte promesse, improvvisamente cessarono: ormai erano… troppa carne al fuoco. Perciò non facevano più paura, diceva Beccaria. La detenzione invece avrebbe garantito una pena certa poiché finalmente realizzabile, quindi avrebbe svolto una funzione deterrente; e l’ergastolo avrebbe fatto più paura di una incerta promessa di morte. Avrebbe assegnato al condannato una sorte peggiore della morte. L’ergastolo è nato dunque come nuova “pena capitale”.
E siccome anche nel regno delle pene, come in quello delle nazioni, se non cambiano le cose nella “capitale”, cioè al centro, è poi difficile cambiarle nelle sue province, ecco che questo ignorato centro determina complessi meccanismi che diventano resistenze e boomerang quando si vuole ritoccare il sistema a partire da qualche punto periferico. L’Europa se n’è accorta e in gran parte ne ha preso atto, non attuando più di fatto o abrogando il “fine pena mai” (o meglio “fine pena: 99-99-9999”, come è scritto nei sistemi informatici dell’amministrazione penitenziaria).

L’Italia ancora no. Con i suoi 1415 condannati, l’ergastolo consente di non mettere in discussione aspetti scomodi del passato e di coprire gli interessi presenti che vi si sono costruiti sopra. La presenza di queste persone offre la possibilità di mostrare la faccia severa dello Stato per meglio nasconderne un’altra. Gli ergastolani sono i capri espiatori di un sistema che premia e garantisce una relativa impunità (spesso scandalosa) a un numero sempre maggiore di collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”, e/o ai “colletti bianchi” che, per fare il loro consueto lavoro, né possono, né sanno più, né vogliono distinguere il lecito dall’illegale. D’altra parte gli stessi premi dati prima ai pentiti e le facilitazioni concesse poi ai colletti bianchi, sono venute a far parte di un più vasto sistema di trattamento di natura premiale riservato dalla legge penitenziaria a tutti i detenuti.
Quella premiale è una macchina che trae storicamente origine dalla volontà di non discutere in sede culturale e politica degli aspri conflitti politico-sociali degli anni Settanta, e che i “vincitori” affidarono a 25 mila casi giudiziari di cui rimangono “testimoni” ancora oggi poco più di una cinquantina di ergastolani. Questo sistema divenne legge penitenziaria nel 1986 col nome del senatore Gozzini che ne fu il relatore. Alcuni, in modo troppo affrettato, vi hanno subito visto un primo passo “oltre la pena”. Ma dopo vent’anni questo grande progresso che allora si annunciava come l’alternativa alla pena tradizionale si è mostrato solo un modo per affiancarla. In realtà il sistema penale ha esteso le sue propaggini fuori dal carcere. È aumentato in modo esponenziale il numero di coloro che dipendono da esso anche in stato non detentivo ed è raddoppiato il numero dei reclusi non solo prima ma anche dopo che intervenisse l’indulto.

La pena cosiddetta alternativa, in realtà premiale, ha soltanto aumentato la pervasività del potere giudiziario all’interno della società, incrementando l’area penale esterna al carcere. Si è creato così un “eccesso di presenza penale” che molti cominciano a lamentare. Nel frattempo i fautori della tolleranza zero ne hanno ridotto la portata applicativa con una legge che esclude i recidivi (la ex Cirielli), ossia almeno il 70% dei rei… Invece di rivedere i tetti massimali di pena si è preferito aumentarle. Si sono moltiplicati i fatti che costituiscono reato allargando le competenze del diritto penale, salvo diluire le punizioni caso per caso in modo discrezionale.
Si è così venuta a creare una situazione analoga a quella analizzata da Beccaria nel Settecento. Da un lato si difendeva all’epoca la ferocia delle pene (tortura, morte) e si puniva sempre di più su tutto; dall’altro, non potendo più attuarle, si ricorreva a quelle che erano le misure “sostitutive” dell’epoca: deportazioni, esilii…
Il rimedio altro non fu che un’estremizzazione del male finché non s’inceppò a causa della sopravvenuta impossibilità di deportare e realizzare pubbliche esecuzioni, diventate motivo d’indignazione popolare invece che di spettacolo gratuito per folle forcaiole. È così che si fece strada allora l’idea del penitenziario, della reclusione come pena principale e dell’ergastolo come nuova forma di pena capitale.

Oggi è ancora difficile far capire che se si rischia da 1 a… 20 anni per una quantità “non giusta” di possesso di cannabis, è perché c’è ancora l’ergastolo. Insomma l’ergastolo suscita una sorta di effetto traino che giustifica e sospinge verso l’alto il resto delle pene comminate. Il rischio dunque è quello di una esplosione ingovernabile dell’intero sistema penitenziario. Ormai è popolare volere più ergastoli per un alto numero di persone e per una grande varietà di reati, in una spirale che, per le sue motivazioni di fondo, potrebbe trovare pieno sfogo solo nel ritorno della pena di morte.
E di “ritorno” bisogna infatti parlare, cioè di tensione al ritorno verso un’arcaica barbarie precedente alla stessa funzione dello Stato moderno e a ciò che, pur con tutti i suoi limiti, nell’ultimo quarto di millennio è stato definito comunemente “civiltà”.
Quale che sia la prospettiva da cui si guarda al pianeta carcere, quella dei difensori-riformatori del sistema penale o quella abolizionista, la sparizione dell’ergastolo dovrebbe esser vista come un possibile e necessario punto di convergenza. Altrimenti sarà la forza dei fatti a porre tragicamente la questione.

In Inghilterra, nell’Ottocento, l’eccessivo sovraffollamento provocò malattie mortali e contagiose che dal carcere si trasmisero fuori, passando ai giudici per il tramite di un’aula giudiziaria dove gli imputati dovevano essere processati, e da lì alla città…
Non possiamo sapere cosa succederà questa volta…

Link
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Perpetuité

Il paradigma del capro espiatorio e la nuova filosofia penale nell’ultimo libro di Vincenzo Guagliardo

Dalla Postfazione di Paolo Persichetti

Una delle originalità di questo libro sta nella capacità di cogliere i processi generali attraverso i cambiamenti intercorsi nel microcosmo carcerario. Ancora una volta gli anni ’70 appaiono un decisivo banco di prova. Se la logica della premialità e della differenziazione, introdotti con i dispositivi legislativi limitati inizialmente ai collaboratori di giustizia e ai dissociati, e successivamente estesi al resto della popolazione carceraria, hanno anticipato e sperimentato con successo l’ingresso della contrattazione individuale e della precarietà nel mercato del lavoro; allo stesso modo il rito del capro espiatorio è diventato il nuovo motore ideologico della società. L’analisi di Guagliardo, che fa del ricorso a questo paradigma l’aspetto centrale della sua riflessione critica, è frutto dell’esperienza diretta vissuta dentro il carcere speciale dove l’effetto combinato di fattori esterni e interni, come la crisi progettuale della lotta armata, le mutazioni sociali e produttive, le tecniche d’isolamento e repressione, sfaldano progressivamente la solidarietà «per dar luogo alla concorrenza tra individui».
È qui che Guagliardo scopre l’inarrestabile scatenamento del processo vittimario descritto in uno dei capitoli più forti (il Quinto). Il rito del capro espiatorio è introiettato dai prigionieri al punto da divenire una forma autofagica della propria esperienza.
Di volta in volta i militanti rinchiusi cominciano ad esportare verso l’organizzazione esterna le responsabilità per le difficoltà incontrate. È una sorta di piano inclinato inarrestabile che si trasforma in una voragine e poi nell’abisso della disfatta etica che ha prodotto le figure del pentito-delatore, dell’abiurante-dissociato e dell’inquisitore-killer, che spesso anticipa e presuppone le prime due. In questo dispositivo il carcere speciale appare un laboratorio all’interno nel quale covano fenomeni che poi si riprodurranno su larga scala all’esterno delle cinte murarie.
Non a caso la dissociazione anticipa un modello culturale che farà strame dentro la sinistra minandone la capacità critica e anticipando la stagione delle grandi ipocrisie pentitorie, dove la categoria del ravvedimento non è più quella che assume su di sé la critica o, se vogliamo restare sul piano del linguaggio teologico, la colpa e l’espiazione, ma al contrario esporta fuori di sé ogni colpa e punizione introducendo la moda dell’autocritica degli altri.
Gli strumenti giudiziari d’eccezione e la cultura inquirente congeniata per combattere la lotta armata tracimeranno al punto da travolgere anche il ceto politico della “Prima Repubblica”, quasi a ricordare l’osservazione di Marx sullo scontro tra classi che può concludersi anche con la rovina reciproca delle parti in lotta.
L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni ’70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che hanno traversato il decennio ’80, e lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “Tangentopoli” nella prima metà degli anni ’90, conferiscono alla magistratura, e in particolare ad alcune procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale della società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi a quelli che erano stati gli attori tradizionali della politica: partiti e movimenti.
Il modello del capro espiatorio svolgerà un ruolo centrale nella vicenda passata alle cronache come la rivoluzione di “Mani pulite”. Le conseguenze, per nulla percepite dagli attori dell’epoca, che spesso pensavano di interpretare una stagione di rinnovamento del Paese, saranno enormi. È da lì che prendono forma e si strutturano le ideologie del rancore e del vittimismo che fomentano le attuali correnti populiste, stravolgendo quell’idea di giustizia che per lungo tempo era stata sospinta da ragioni che disprezzavano gli strumenti della penalità e del carcere in favore della ricerca del bene comune. Se prima si trattava di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi in un miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno ora il traguardo più ambito diventa l’aula processuale, la conquista di un posto in prima fila nei tribunali, un ruolo sui banchi della pubblica accusa o delle parti civili.
Un drastico mutamento di prospettiva che è conseguenza anche della crisi delle grandi narrazioni che descrivevano cammini di liberazione. Di emergenza in emergenza, passando per il terrorismo, le mafie, la corruzione, i migranti, la sicurezza, ha preso corpo un populismo penale che ha pervaso trasversalmente la società sovrapponendosi alle vecchie barriere ideologiche fino a farle scomparire.
La sfera giudiziaria è diventata il perno attorno al quale ruotano i conflitti, si pensa e si parla solo attraverso le lenti dell’ideologia penale anche a causa di un processo d’autoinvestitura politica della magistratura, formulata sulla base di una vera e propria “teoria della supplenza” da parte del potere giudiziario, «in caso di assenza o di carenze del legislativo». Una sovrabbondanza che alla fine, è superfluo ricordarlo, non ha creato più giustizia. Come dicevano già i romani: summum ius, summa iniuria*.
Il mito della giustizia penale ha trasformato la politica nel cimitero della giustizia sociale e l’esaltazione della qualità salvifiche del potere giudiziario ha fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri.

1/continua