Quando l’obelisco del Duce doveva saltare in aria

5d6F4qkeOr74M_Smx8wHuatwdIQDnkOUROt6lvKmuEjWPYE_W_NdjhpXYJb6QyQHDiVznQOL4Mk3LdmMvHImrapzlSxD6ouCfY5sIb1VW3lO0d46bj53PXleJnuqQJAkZQymHc26Fd8y0vYkuk3K2eogQJq1n1HWzjLxBA9xxCmaUZ8fPqwrNZhEa0WPxj_K--wLa_o3X3HGeQa0QcLts7Il 25 aprile del 1971 l’obelisco inalzato nel 1932 in onore di Benito Mussolini, monumento alla mitologia imperiale del regime fascista e al culto della personalità, eretto all’entrata del Foro Italico (ex Foro Mussolini) a Roma doveva saltare in aria.
A decidere l’azione dalla fortissima portata simbolica era stato il livello occulto di Potere operaio romano guidato da Valerio Morucci. Il progetto – racconta Paolo Lapponi nel libro di Aldo Grandi, Insurrezione armata (Bur Rizzoli, 2005, p. 161) – era pronto in tutti i suoi minimi dettagli: «Due cariche cave disposte a taglio alla base della stele, che sarebbe venuta giù tutta intera sulla corsia stradale tenuta sgombra al momento opportuno da squadre di militanti». A ricordare l’episodio è stato anche lo stesso Morucci in Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme 199, p. 81-82: «Avevo letto da qualche parte che il pezzo superiore dell’obelisco era un monolite fatto arrivare dalle cave di Carrara con il quale si intendeva emulare, nella consumata arte scenografica del regime fascista, le gesta degli antichi romani che avevano portato a Roma obelischi egizi. Poteva bastare una buona carica alla base per farlo venir giù come una pera matura. Però, per essere sicuri, ne preparammo due. Prendemmo delle cassette da frutta, quelle alte e robuste, e le riempimmo di esplosivo da mina, ossia nitrato d’ammonio, meno potente del tritolo ma pur sempre un esplosivo che spalanca le montagne. Saranno stati una quindicina di chili. Abrebbero sentito il botto fino a Napoli. Sul librone che mi aveva regalato Feltrinelli, nella sezione dopo la cannabis, dedicata agli esplosivi, avevo letto che le cariche cave erano più efficaci per arrivare in profondità, e così al centro del nitrato d’ammnio incastrai due coni di rame rovesciati per concentrare l’esplosione. Studiando il piano decidiamo di arrivare all’obelisco passando dietro alla Farnesina e costeggiando lo stadio. Poi bisognava pensare ad interrompere il traffico, perché tutta quella rova che sarebbe crollata poteva ammazzare qualcuno. Prendiamo delle transenne bianche e rosse che alcuni di noi dovevano mettere sul lungotevere per deviare il traffico una volta piazzata la carica». Purtroppo l’operazione non andò in porto «perché a cento metri di distanza, all’Istituto di educazione fisica (Isef), era in corso un’occupazione studentesca. Era troppo rischioso – racconta sempre Lapponi. Aspettammo un giorno o due per vedere se l’occupazione terminava, poi rinunciammo». E così l’obelisco che in pieno terzo millennio proclama «Mussolini Dux», come i tetragoni blocchi di travertino dedicati alle conquiste del regime fascista posti alle sue spalle che – ha scritto Alessandro Portelli sul manifesto del 12 giugno scorso – stanno ancora lì, «come forche caudine (per non dire dei mosaici con l’ossessiva scritta «Duce» che almeno mi metto sotto i piedi)». «L’opera colossale, – declamava Il Popolo d’Italia del 5 novembre 1932 – quella che desta l’ammirazione di chi guarda è il gigantesco monolito eretto nell’Urbe al nome di Mussolini quale segnacolo del rinnovamento nazionale da lui voluto ed attuato. Il candido blocco di marmo strappato ai fianchi delle montagne Apuane, ha attraversato il mare, ha risalito il fiume, ed ora è volto verso il cielo».
L’idea dell’obelisco era venuta al ras del fascismo carrarese Renato Ricci, dal 1927 presidente dell’Opera Nazionale Balilla (ONB), l’organizzazione fascista della gioventù. Ricci aveva impostato un imponente programma di costruzione di infrastrutture, Case del Balilla, palestre, impianti sportivi, convitti. Tra esse spiccava a Roma il Foro Mussolini, vasto complesso di impianti sportivi iniziato nel 1928 sotto la guida dell’architetto carrarese Enrico Del Debbio. In esso avrebbe dovuto campeggiare l’obelisco destinato a celebrare a imperitura memoria il capo del fascismo. L’obelisco, simbolo del «fascismo di pietra», diventava protagonista della storia ideologica di un regime che nel culto della personalità del suo capo cercava il momento di una compattezza totalitaria (per una storia dell’obelisco vedi qui).

L’ira iconoclasta dei movimenti antirazzisti
L’abbattimento a Bristol, vicino Londra, nel corso di una manifestazione antirazzista della statua del trafficante di schiavi Edward Colston e la rimozione, sotto la spinta dei movimenti afroamericani, di quelle erette in onore di generali e uomini politici del Sud schiavista, come quelle del generale sudista Robert E. Lee nel centro di Charleston o Richmond, negli Stati Uniti, dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto, ha scatenato da noi molte discussioni sulla liceità di queste azioni ritenute eccessive, un’offesa alla memoria del passato, un’indebita censura della storia. Si è tornati a parlare anche della statua milanese di Indro Montanelli presa di mira nuovamente dopo il raid del 2019. Il giornalista, voce della destra storica italiana, nazionalista, fascista, colonialista, poi negli anni della Repubblica esponente della destra più conservatrice e reazionaria, personaggio dalle sette vite, frondista di professione, grande opportunista sempre pronto a tenere un piede in due scarpe, scaltro nel cambiare casacca all’avvicinarsi di ogni cambio di regime e mantenere immutata la sua poltrona al sole che raccontò di aver acquistato durante la campagna coloniale in Etiopia del regime fascista una giovane schiava per soddisfare le sue esigenze sessuali.
A queste anime belle, a questi nuovi guardiani della memoria, ha risposto Alessandro Portelli spiegando che la memoria non è un semplice deposito del tempo passato, «ma una forza attiva nel presente». Un monumento esiste perché chi l’ha eretto intendeva lanciare e lasciare un messaggio. Il significato politico-ideologico del Foro Mussolini, per esempio, fu spiegato in modo esemplare dallo stesso Ricci: «Dal punto di vista storico-politico, un monumento che riallacciandosi alla tradizione imperiale romana, vuole eternare nei secoli il ricordo della nuova civiltà fascista, legandola al nome del suo Condottiero»(1). Come giustamente ha chiosato Portelli «Queste icone, lungi dallo svolgere una funzione di storia e memoria, impongono una sola memoria su tutte le altre, congelano la storia in un passato monumentale e negano tutta la storia che è venuta dopo».

(1) Opera Balilla, Il Foro Mussolini (prefazione di Renato Ricci), Bompiani, Milano 1937, p. 5.

 

Foibe, le vittime forti cancellano quelle deboli

Con la proclamazione della giornate in ricordo delle foibe e delle vittime del terrorismo il conflitto tra storia e memoria ha raggiunto un punto estremo. Il sopravanzare della seconda sulla prima, la costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, ha visto emergere una nuova figura di testimone, fuoriuscita dal processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario

Italiani brutta gente. Ritrovato a Rodi l’archivio segreto realizzato dai Carabinieri durante la dominazione coloniale nel Dodecaneso. 90 mila dossier per 130 mila abitanti

Dalla Cirenaica a Nassiriya le proiezioni italiane all’estero sono state sempre accompagnate dalla litania degli «italiani brava gente». La scoperta di un archivio dei Carabinieri Reali – Ufficio speciale (una sorta di Ros attuale) di stanza a Rodi durante la dominazione italiana dell’arcipelago del Dodecaneso, rimasto segreto fino ad oggi, porta l’ennesimo colpo a questa retorica del “colonialismo buono”. Un controllo capillare e oppressivo, un abitante su quattro schedato: erano queste le basi del consenso e le forme di civiltà che la “grande proletaria”, evocata da Pascoli, dispensava nelle sue colonie. Lo storico Marco Clementi, che ha contribuito a riportare alla luce queste carte segrete, ci racconta quel che ha potuto leggere fino ad ora

Marco Clementi
L’Huffington Post
  8 dicembre 2013

archivio dodecaneso italianoRodi, Gruppo Carabinieri Reali – Ufficio Centrale Speciale. Dietro questa sigla si nascose per più di dieci anni, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza, che riuscì a mettere sotto controllo praticamente l’intero Dodecaneso.
Su una popolazione di 130.000 abitanti furono raccolti circa 90.000 dossier, conservati oggi in un archivio unico e per il momento non accessibile agli studiosi, ma che si spera in un paio d’anni potrà fornire materiale in grado di aiutare a rileggere la presenza italiana nel Dodecaneso (1912-1947) e offrire nuovi spunti per la comprensione del fascismo.
Eirini Toliou, la direttrice del locale Archivio di Stato che ha acquisito i fascicoli, sostiene che fu Mussolini a volere questo stretto controllo. Probabilmente, nonostante un governo non disprezzabile, l’Italia non era stata in grado di ottenere la piena fiducia dei dodecanesini. Il luogo, inoltre, meta turistica di prestigio, si prestava allo spionaggio di stranieri residenti o di passaggio, provenienti dal Levante o dall’Europa, alleati o possibili nemici.
Scheda del nominato: così era chiamata la cartella contenente cognome e nome della persona controllata, paternità e maternità, data e luogo di nascita e residenza. In basso il numero di pratica, ossia il dossier, con l’indicazione dell’anno in cui era stato creato. Da quel momento, tutte le successive informazioni venivano allegate nella cartella originale. Persone normali si è detto, come Nichitas Zavolas, nato a Pigadia il 15 marzo 1897, o Teorodo Costantinidi fu Costantino, medico condotto, sul quale il 17 febbraio 1939 i carabinieri scrivono: “In passato fu un fervente irredentista ed era tenuto in molta considerazione dalla popolazione per l’opera che svolgeva a favore dell’unione di queste Isole alla Grecia”. Da diversi anni però (siamo nel 1939) “si disinteressa di politica ed affianca le autorità italiane dando a vedere di essere un leale collaboratore […]. Non è di razza ebraica”.
Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Gli ebrei e gli irredentisti sono tenuti sotto controllo. Si capisce. Ma anche gli amici, come il maggiore della polizia tedesca Rodolfo Kaufmann, numero di protocollo 1229 categoria 2=10=15=1938, o il presidente della compagnia di bandiera “Ala Littoria”, Umberto Klinger, l’onorevole Klinger, che partecipò all’impresa di Fiume e durante la seconda guerra mondiale diresse il 114º Gruppo Autonomo di Bombardamento, protocollo 4950 categoria 2.11.1698-1937. Con lui, i passeggeri dei voli per Rodi, tutti regolarmente segnalati.
Poi i nemici, certo, come Kermeth Arthur Noel Anderson, maggiore comandante le truppe inglesi in Palestina, protocollo 6880 categ. 2.10.41=1933, o il deputato “irakiano” Yassin Taymore (167:1.1-102:1939) e la certissima “agente servizio informazioni cecoslovacco” Margaret Kis, agganciata nel 1936.
Scoppia la guerra e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la cui giurisdizione non era stata estesa alle Isole Egee, diventa a Rodi il “Tribunale speciale per la difesa del Possedimento”, e condanna all’ergastolo Giorgio Chirmicali per aver “portato armi contro lo Stato italiano”. Prigioniero a Taranto, non può neanche ricevere un pacco dal padre Elias. Sono i Carabinieri dell’Ufficio Centrale Speciale a sconsigliarlo il 29 gennaio 1943, considerando il detenuto “non meritevole di alcuna agevolazione” a causa della gravità del crimine commesso.
L’epoca è complessa. Migliaia di ebrei fuggono dall’Europa, ma milioni restano. Alcuni vanno in Francia, altri negli Stati Uniti. Quelli cosiddetti “revisionisti”, convinti che la terra promessa sia la Palestina, si imbarcano come possono diretti verso Haifa. Le navi inglesi bloccano le rotte, affondano navi e carrette del mare entrano nelle acque del Dodecaneso, fanno naufragio. Il Possedimento accoglie i naufraghi. Alcuni ripartono subito, ma altri restano più a lungo, in improvvisati campi profughi. E sono messi sotto controllo. Nel frattempo l’Italia ha occupato la Grecia. I carabinieri collaborano con l’ufficio informazioni del Comando superiore delle Forze Armate dell’Egeo, si passano notizie e dati. Rosa Spiegel, di Bratislava, così come Eugene Reimann, non riceveranno mai alcune lettere inviate dalla loro città natale. Interviene la censura militare, blocca la corrispondenza, traduce e gira ai carabinieri, che aprono nuovi fascicoli. Sono decisi, fermi, ma alla fine trattano bene i profughi. Che nel 1942 vengono trasferiti in Italia, a Ferramonti, in Calabria, e il 16 settembre 1943 saranno i primi ebrei europei ad essere liberati dagli Alleati.
Qualche settimana fa lavoravo al “Titolario”, il vecchio indice dell’archivio amministrativo che fecero gli italiani nel 1942. Tra le tante voci, mi restava come sospesa la classe G del titolo IV: “tipografia, macchine tipografiche, gestione”. Una classe per la tipografia? Che senso ha, quando cose apparentemente più importanti come la costruzione di acquedotti o caserme sono una sottoclasse? Solo osservando le “schede del nominato”, ho capito l’importanza e la necessità di una voce separata dalle altre spese. La tipografia stampava le schede, a Rodi, in segreto. Gestire il potere, allora, osservare senza essere visti, significava avere anche il controllo totale di quelle macchine.

Dal blog dell’autore
Ansa med nel Dodecaneso
U
ntold story italian regime spied
Il Corriere della sera e cefalonia

Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

Gli scherzi della geopolitica – Abdullah Öcalan, il leader del Pkk imprigionato da 14 anni nell’isola carcere di Imrali, spiazza tutti. In occasione della festa kurda del Newroz (Norouz in persiano: نوروز ;  Nevruz in turco), l’equinozio di primavera festeggiato secondo l’antica tradizione zoorastiana, il dirigente del Partito dei lavoratori del Kurdistan ha lanciato un importante appello che chiede di mettere fine alla lotta armata in favore di una nuova strategia che per la lotta verso l’autodeterminiazione del popolo kurdo rappresenta una rivoluzione nella rivoluzione: abbandonare la vecchia prospettiva nazionalista che puntava alla rivendicazione monoetnica del “uno Stato un popolo” per passare ad una visione multiculturale, multinazionale e multietnica ispirata al confederalismo democratico.
Una svolta che in futuro potrebbe fare da battistarda anche per la soluzione del conflitto in terra Palestinese depotenziando l’attuale mina confessionale.
La sortita di Öcalan ha avuto una lunga gestazione con mesi di incontri e trattative riservate con i suoi carcerieri, gli emissari del governo turco, e scambio di messaggi con i vari dirigenti della diaspora kurda, incidenti di percorso ed episodi ancora non chiariti come l’uccisione, lo scorso gennaio, di tre esponenti della comunità kurda in esilio a Parigi, tra cui Sakine Cansiz, 55 ans, fondatrice del Pkk.

Soprattutto la mossa di “Apo”, spiegano gli analisti di geopolitica, trae alimento dal potenziale rischio di destabilizazzione che le “primavere arabe” e la crisi siriana hanno provocato sulla Turchia, socchiudendo come mai era accaduto prima d’ora una formidabile finestra d’opportunità per le sorti del popolo kurdo che ha visto così approssimarsi l’occasione irripetibile di dare vita ad una propria “estate di libertà”.
Dopo aver strumentalizzato per anni la questione kurda in funzione antiturca, il regime di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente siriano), che per anni aveva dato ospitalità e sostegno logistico e finanziario al Pkk, sia per una logica di campo (la Siria era un alleato improprio dell’Urss mentre la Turchia appartiene alla Nato) che per questioni strategiche regionali, legate alla gestione delle riserve idriche dell’Eufrate e del Tigri, i cui corsi nascono in Turchia e confluiscono in Siria, i due Paesi giunsero ad un compromesso sancito nel 1998 con gli accordi di Adana. Quel patto segnò la fine dell’appoggio di Damasco al Pkk e l’espulsione di Öcalan dal Paese. Dopo una breve permanenza nella Federazione russa, l’arrivo improvvissato in Italia dove gli venne negato l’asilo politico, il presidente del Pkk fu rapito in Kenya e condotto nelle carceri turche.
Dopo l’esplosione della guerra civile siriana, nel corso dell’estate 2012 le truppe di  Bachar Al-Assad hanno evacuato il nord del Paese lasciando territorio libero alle milizie armate del Pkk. Situazione che ha fortemente allarmato la Turchia per il timore che ciò potesse dare luogo alla nascita, di fatto, di una zona autonoma d’influenza kurda nel nord della Siria, sponsorizzata sia dall’Iran che dalla fazione lealista di Damasco. Da qui le trattative accelerate con il prigioniero Öcalan che non si è lasciato sfuggire l’occasione, tuttavia inquadrandola non in un semplice soluzione tattica del momento ma all’interno di una innovativa proposta di ampio respiro strategico, come spiega il testo di Michele Vollaro, che proponiamo qui sotto (dal blog baruda.net)


Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

di Michele Vollaro

«La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini».

Una dichiarazione storica che potrebbe chiudere il trentennale conflitto che oppone il Partito dei lavoratori kurdi (PKK) e lo Stato turco. Un annuncio clamoroso destinato a mettere fine alla lotta armata che ha causato oltre 40.000 vittime. Così è stato definito da più parti il messaggio di Abdullah Ocalan, letto a Diyarbakir il 21 marzo durante la celebrazione del Newroz. Un messaggio che gli abitanti del Kurdistan, forzati da decenni alle politiche assimilazioniste delle autorità turche, hanno accolto con gioia e trepidazione, convinti ormai anch’essi da tempo della necessità di trovare una strada alternativa alla lotta armata per vedere riconosciuti i propri diritti e, ancor di più, condizioni di vita dignitose, in una società come quella kurda caratterizzata da marginalità, oppressione, povertà e disoccupazione. In poche parole dall’assenza assoluta di una qualsiasi prospettiva per riuscire anche solo ad immaginare di realizzare le proprie aspirazioni personali, siano esse la possibilità di scegliere un lavoro, di viaggiare liberamente o anche semplicemente di parlare la propria lingua madre. Chi ben conosce questa situazione e la storia recente del Kurdistan ha giustamente salutato il messaggio di Ocalan come un fondamentale punto fermo per un dialogo che può cambiare definitivamente le condizioni di vita nella regione.

L’inganno geopolitico
Qualcun altro, invece, ha visto in questo messaggio la definitiva abdicazione del popolo kurdo ai propri diritti e alla propria autodeterminazione, interpretando la scelta del fondatore del PKK come una capitolazione a più forti interessi internazionali. Un presunto accordo dettato da ipotetici interessi geopolitici per non danneggiare la ‘crociata’ imperialista a sud del confine turco, dove le potenze occidentali starebbero complottando il rovesciamento di un regime nemico, quello siriano, amato e sostenuto dalla propria popolazione. Il popolo kurdo avrebbe quindi venduto la propria anima al diavolo per ottenere chissà quale vantaggio ai danni di quello siriano. Non credo valga nemmeno la pena soffermarsi ad evidenziare l’assurdità di quest’interpretazione, che sembra uscita più da un tabellone da gioco di Risiko dove ognuno guarda alle proprie immaginifiche bandierine anziché essere fondata su condizioni di fatto.

Una rivoluzione di paradigma: dallo Stato-nazione al confederalismo democratico
Ben più interessante e produttivo sarebbe in realtà concentrare l’attenzione su un paio di osservazioni. Alcune, che potrebbero essere utili a comprendere meglio cosa accade o potrebbe accadere in Kurdistan e in generale all’interno della Turchia, da tempo immemore considerata la porta o il ponte tra Oriente ed Occidente e quindi già solo per questo degne di un necessario approfondimento, ma ancora più fondamentali per la “rivoluzione” (qualcuno probabilmente storcerà il naso a leggere questo termine) non solo sociale e politica, ma anche e soprattutto di categorie interpretative che il Medio Oriente vive ed ha vissuto negli ultimi anni. Altre, più vicine invece a precedenti diversi, anche della storia italiana, accomunabili alla vicenda di Ocalan per certe somiglianze che potrebbero consentire di guardare ad eventi, usi e giudizi già espressi nel passato recente.
Cominciamo dal locale e particolare, che interessa come accennato lo stravolgimento di categorie tradizionali. Il discorso di Ocalan può essere riassunto nella frase “Siamo ora giunti al punto in cui le armi devono tacere e lasciare che parlino le idee e la politica”. Al di là delle notizie di cronaca sull’inizio o meno di un cessate-il-fuoco da parte delle fazioni armate e dell’avvio di un processo di pace tra PKK e Stato turco, è stato notato in modo più che corretto che questo indica un mutamento di strategia. Anche se non è proprio una novità: sono anni che l’agenda politica kurda è incentrata sul principio della “autodeterminazione democratica”, un concetto promosso allo stesso tempo da Adbullah Ocalan e dal Partito della pace e della democrazia (BDP) dove l’affermazione dell’identità del popolo kurdo e la democratizzazione dell’intera Turchia diventano le due facce della stessa medaglia. Ma questo è giusto un dettaglio o anche solo una puntualizzazione da addetti ai lavori. Si potrebbe osservare infatti che nonostante le numerose tregue dichiarate in passato dal PKK, per un motivo o per un altro, le armi non sono state ancora abbandonate dai guerriglieri e questa è stata infatti la risposta del ministro turco dell’Interno, Muammer Güler, che pur concedendo ad Ocalan di aver usato un linguaggio di pace ha aggiunto che “ci vorrà tempo per vedere se le parole saranno seguite dai fatti”.
Lo stesso Ocalan ha detto che “Oggi comincia una nuova era. Il periodo della lotta armata sta finendo, e si apre la porta alla politica democratica. Stiamo iniziando un processo incentrato sugli aspetti politici, sociali ed economici; cresce la comprensione basata sui diritti democratici, la libertà e l’uguaglianza”. In questo, si evidenzia come il discorso era sì rivolto ai guerriglieri kurdi affinché depongano le armi, ma al tempo stesso è anche una sfida al governo turco.
“Negli ultimi duecento anni le conquiste militari, gli interventi imperialisti occidentali, così come la repressione e le politiche di rifiuto hanno provato a sottomettere le comunità arabe, turche, persiane e curde al potere degli stati nazionali, ai loro confini immaginari e ai loro problemi artificiali – prosegue ancora Ocalan – L’era dei regimi di sfruttamento, repressione e negazione è finita. I popoli del Medio Oriente e quelli dell’Asia centrale si stanno risvegliando”. Più avanti aggiunge “Il paradigma modernista che ci ha ignorato, escluso e negato è stato raso al suolo” e “Questa non è la fine, ma un nuovo inizio. Non si tratta di abbandonare la lotta, ma di cominciarne una nuova e diversa. La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini”.

Basta con i nazionalismi
L’oggetto della polemica è l’ideologia politica che è all’origine di molta parte dei problemi dell’ultimo secolo, quel nazionalismo che insieme alla sua creatura principe, lo Stato-nazione, sono ormai da oltre un decennio indicati come profondamente in crisi, ma sembrano restare pur sempre la risposta più immediata e semplice come misure di reazione agli stravolgimenti in corso. Restando in Medio Oriente basti pensare alle spinte centrifughe in Libia o in Iraq dopo la fine dei precedenti regimi, dove ognuno degli interessi dominanti localmente punta alla creazione di una propria entità statuale sostenendo la necessità di un territorio pacificato sulla base della propria univocità sia essa “etnica” o di qualsivoglia altro titolo; un altro esempio emblematico è anche la sciagurata scelta dell’opzione di “due popoli, due Stati” per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Il dibattito sul tema del nazionalismo non è di certo un argomento nuovo intorno alla questione kurda. Senza andare troppo indietro, già a partire almeno dal 2005 Ocalan si era interrogato sui legami tra etnicità e nazionalismo indicando proprio nella creazione degli Stati-nazione in Medio Oriente l’origine della crisi attuale della regione (Abdullah Ocalan, Democratic Confederalism, 2011). Servirebbe lo spazio di almeno un libro per ripercorrere l’archeologia del dispositivo statuale moderno, ma ciò porterebbe il discorso troppo lontano. Nondimeno sarebbe senz’altro sano ed essenziale ragionare sulla necessità di individuare nuovi percorsi che leggano la realtà del mondo contemporaneo per mezzo di una lente o un’idea cosmopolita.
Riguardo alla situazione kurda, va dato atto ad Ocalan di essere stato abile in questi ultimi anni ad argomentare e proporre le proprie idee per un nuovo modello di società, che includesse nuove istituzioni per funzionare e un nuovo vocabolario per definire concetti ed idee necessari a descrivere ed immaginare quello che si propone di essere appunto non soltanto un classico processo di pace, ma piuttosto un cantiere per una nuova costruzione sociale.

La “pazzia” di Öcalan
Un’ultima osservazione che mi preme sottolineare è quella sul contesto in cui sono maturate le ultime dichiarazioni del leader kurdo. Ocalan si trova dal 1999 nel complesso carcerario di Imrali, in una struttura di massima sicurezza svuotata di tutti gli altri detenuti per poter “ospitare” unicamente il fondatore del PKK, che quindi può vedere soltanto i suoi avvocati e i suoi carcerieri. Questa situazione ha portato più volte qualcuno a sostenere che Ocalan avrebbe perso il contatto con il movimento da lui guidato e sarebbe anzi manipolato per sostenere gli interessi dello Stato turco e i presunti suoi alleati nella partita geopolitica.
Riprendo qui l’introduzione di un libro dello storico Massimo Mastrogregori. “Ci sono autorità, più o meno visibili, che sollecitano e ascoltano la voce del prigioniero. Il quale cerca, ancora una volta, di vincere la partita politica in corso e di agire più liberamente che può, anche nel fondo della prigione, in nome di ciò in cui ha sempre creduto. E sa che cercando di vincere, ancora una volta, avrà fatto qualcosa di utile anche se perde”. Queste parole, che sembrano calzare alla perfezione per il caso di Ocalan, sono invece scritte per raccontare la storia parallela di altri due prigionieri, apparentemente diverse ed opposte per le loro esperienze personali e separate da cinquant’anni di distanza, quella di Antonio Gramsci e di Aldo Moro (Massimo Mastrogregori, I due prigionieri, 2008). Lo storico italiano osserva come analogie e comparazioni tra due storie così diverse possano aiutare a vedere cose nuove, rivelando connessioni nascoste e parallelismi a partire dall’esperienza carceraria e dall’uso fatto o meno e dai giudizi espressi sulla voce che esce dalla prigione. Mi soffermerò solo brevemente su questo aspetto. In occasione del sequestro Moro, in una maniera che effettivamente lascia un po’pensare, l’intera comunità mediatica italiana, quasi tutti coloro che parlando pubblicamente trovano uno spazio, la cui parola è riprodotta sui giornali, i politici e i grandi giornalisti, si accordano sul fatto che la voce che sta parlando non appartiene a Moro. Sempre Mastrogregori sottolinea la rapidità con cui si sia “compattato” questo schieramento che sostiene l’inautenticità degli scritti di Moro durante la sua prigionia. “Moro perde il dominio sulla sua firma, ciò che Moro firma non vale; sono scritti originali, autentici, non che ci sia il dubbio che la grafia non sia la sua (all’inizio c’è anche quello); ma anche quando si scopre che la grafia è effettivamente la sua, le condizioni in cui quel testo viene elaborato portano alla conclusione univoca che non è Moro che sta parlando. Si presuppone che le BR dettino e che Moro scriva, con una serie di gradi diversi, con distinguo, eccetera. Le eccezioni a questa posizione sono veramente pochissime. Ciò aveva una conseguenza che, nel tempo, verrà tratta, che Moro aveva perso la capacità di intendere e di volere, era regredito alla condizione di bambino e cose del genere, che era drogato”.
Il tema del discorso che proviene dal fondo della prigione, della voce di chi è incarcerato è interessante perché si oppone nel modo più assoluto ai discorsi che solitamente ottengono la più grande circolazione e visibilità, cioè quelli che provengono da una posizione autorevole e sopraelevata, come potrebbe essere un professore dalla sua cattedra o un giornalista da un quotidiano. Il prigioniero è il caso limite opposto, quello che dice non ha l’autorità che viene da qualche piedistallo. Ma se decide di scrivere, lo fa per riguadagnare, in qualche modo, con vari sistemi, quel margine di libertà che chi lo domina gli ha sottratto. Perché un prigioniero scrive? Anche per riguadagnare uno spazio di libertà.

Per saperne di più
Il discorso di Öcalan per il Newroz
Dalla Mesopotamia social forum finito ieri a Giyarbakir

Un’antica ricetta per la memoria condivisa

Uno sguardo retrospettivo sull’impiego della tortura

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Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) è un’ultra centenaria organizzazione non governativa che, analogamente ad altre, si occupa di monitorare le condizioni ed il trattamento di detenuti. Tratta in particolare i prigionieri di guerra, in applicazione del diritto umanitario che deriva dalle Convenzioni di Ginevra del 1949.
Le Convenzioni, da cui il CICR deriva il suo mandato da parte della comunità internazionale, non coprono però solo le persone detenute per un conflitto armato internazionale.
La Croce Rossa Internazionale già in occasione della Comune di Parigi (1872), dell’insurrezione carlista in Spagna (1875) e di quella serba in Erzegovina (1876) cominciò ad intervenire nei conflitti interni, non internazionali.
I suoi primi interventi rispetto ai detenuti politici iniziarono con la rivoluzione russa (1917) e soprattutto con quella ungherese (1919).
Quest’ultimo è considerato (Jacques Moreillon, Le Comité international de la Croix-rouge et la protection de détenus politiques, Lausanne, L’age d’homme, 1973) il primo ‘vero’ caso in questo senso. La presa di potere di Bela Kun trovò infatti scarsissima resistenza e fu quasi incruenta; non si trattava quindi di opera di soccorso alle vittime, altrimenti non curate, di un conflitto interno, ma delle prime visite a detenuti ‘puramente politici’.

È oggi acquisito, per la comunità internazionale, che l’organizzazione può domandare l’accesso a persone detenute per motivi legati a situazioni di violenza di intensità minore di quella di un conflitto armato.

A differenza di organizzazioni che svolgono un’attività analoga, in particolare di Amnesty International, la politica del CICR s’incentra, oltre che sui principi di neutralità, imparzialità ed indipendenza, anche su quello di confidenzialità. Questo implica non solo il poter parlare con i detenuti liberamente, cioè senza le autorità di detenzione, ma soprattutto il fatto di esporre e discutere le osservazioni sulle condizioni di detenzione e sul trattamento dei prigionieri in modo diretto e confidenziale con le sole autorità responsabili.
Nella sua visione strategica, il CICR ritiene che proprio questa confidenzialità gli permetta di ottenere e mantenere l’accesso alle persone detenute (in una settantina di paesi) e di conseguire dei risultati di concreto miglioramento del trattamento e della detenzione, grazie ai suoi soli interventi confidenziali con le autorità.

Il CICR evita dunque ogni presa di posizione nello spazio pubblico, mantenendo segrete le sue osservazioni e proteggendo il proprio lavoro perché resti ‘lontano dai riflettori mediatici’. A differenza appunto di Amnesty International, non lancia denunce o campagne pubbliche, né pubblica tempestivamente i propri rapporti, temendo che possano essere utilizzati per finalità politiche.
Si tratta di una posizione certo criticabile, e che del resto non impedisce le indiscrezioni -tanto più quando una situazione è già posta all’attenzione pubblica ed informazioni analoghe a quelle raccolte dai delegati del CICR possono trovare altri percorsi dalle fonti ai media- ma coerente e rispettabile.

La domanda si pone casomai in senso inverso, ovvero quando un rapporto del CICR viene reso pubblico, perché tanta stampa lo ignora?

Il rapporto del CICR
Recentemente il CICR ha pubblicato il suo rapporto ‘strettamente confidenziale’ fatto nel 2007 alle autorità statunitensi, sulle persone detenute segretamente dalla CIA, e non sembra che i media gli abbiano dedicato molto interesse.
Certo arriva oltre due anni dopo, eppure si tratta con grande probabilità della fonte più attendibile e precisa su una questione tanto controversa ed appunto ‘segreta’ come quella dei prigionieri di Guantanamo Bay. Questione inoltre non secondaria, se già il 22 gennaio 2009 il nuovo Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha firmato diversi decreti, che affermano che l’articolo 3 comune alle Quattro Convenzioni di Ginevra è la norma minima che regola il trattamento di ogni persona detenuta dagli USA nel quadro di un conflitto armato.

Sulla stampa italiana, l’esistenza del rapporto è stata letteralmente ignorata. La notizia figura solo su una breve di 15 righe su La Stampa del 17.3.2009.
Il rapporto che descrive il trattamento subito dai quattordici detenuti “high value” (categoria inventata di sana pianta per tentare di sottrarli a qualsiasi legge e giurisdizione normale) vale invece la pena di essere letto, lo si può sfogliare e scaricare qui :

Si noterà il linguaggio utilizzato, molto diplomatico, strettamente incentrato sui fatti, tanto che né sentimenti né emozioni traspaiono dalle stesse testimonianze dei torturati, ed assolutamente privo di toni accusatori: eppure fermo nel definire le condizioni ed il trattamento specifico dei detenuti come ‘tortura’ e/o ‘trattamento inumano o degradante’.

Scriveva Christian Rocca, su il Foglio del 30.1.2009, che Guantanamo “è probabilmente la prigione d’alta sicurezza più rispettosa dei diritti umani di sempre…” (sic). Infatti la Croce Rossa Internazionale, “salvo casi isolati di abusi fisici, ha lamentato soltanto l’assenza di status giuridico dei detenuti.”

Quel che il CICR ha invece constatato, figura appunto nel Rapporto (ed è solo ‘un’ rapporto).
Sul menu del trattamento, con le differenze tra un caso e l’altro, figuravano, oltre all’isolamento assoluto e la totale assenza di informazioni e comunicazioni da e verso l’esterno (“incommunicado detention”):

  • il soffocamento con l’acqua
  • lo stress da prolungata posizione in piedi
  • lo sbattimento al muro tirando il collare
  • le botte con pugni, calci, schiaffi
  • il confinamento in una piccola gabbia chiusa
  • la nudità prolungata
  • la privazione di sonno
  • l’esposizione a temperature fredde
  • l’ammanettamento prolungato di mani e/o piedi
  • la minaccia di riprendere il trattamento, e di applicarlo ai famigliari
  • la rasatura forzata di barba e capelli
  • la deprivazione di cibo solido.

Il soffocamento con l’acqua, ora mondialmente famoso come ‘water boarding’, consiste nell’immobilizzare il prigioniero con la schiena a terra, o su un ripiano che permetta di inclinarlo in modo che i piedi siano più in alto della testa, e di versargli ininterrottamente dell’acqua sul viso, coperto da un telo, impedendogli di respirare. Non provoca dolore, se non per il fatto che la reazione del corpo che vuole naturalmente svincolarsi può provocare ferite, ma un senso di soffocamento e di morte, che fa leva sul profondo timore animale di annegare per provocare il panico.
Questo metodo ha il vantaggio, dal punto di vista degli inquirenti, di non lasciare tracce visibili, rispetto alle sue varianti, che consistono nel fare ingurgitare molta acqua, talvolta salata, anche infilando un tubo in bocca.
Il senso di questo trattamento, come di tutti gli altri, sta nel desiderio degli interroganti di ottenere risposte confacenti alla propria prospettiva. ‘Condividi con noi, che siamo i buoni, la tua memoria’, dicono, ‘e raccontaci chi sono i cattivi’.

Uomini della CIA ed ‘esperti’ hanno più volte affermato l’efficacia del trattamento, cui gli interrogati resisterebbero solo per lassi di tempo dell’ordine di secondi.
In un articolo su Il Giornale del 2.10.2009, Fausto Biloslavo vanta la bontà dei sequestri di persona chiamati “extraordinary renditions”, e cita i casi di Khalid Sheikh Mohammed e di Abu Zubaydah, catturati in Pakistan dalla CIA e poi trasferiti in varie prigioni segrete fino a Guantanamo Bay:

La CIA li ha sottoposti a tattiche di interrogatorio che sfiorano la tortura. Alla fine hanno ottenuto informazioni cruciali sia con le buone che con le cattive maniere.

Nel rapporto si può leggere la testimonianza diretta di Khalid Sheikh Mohammed, che racconta di essere stato sottoposto 5 volte al water-boarding in quel periodo (si veda per il seguito il New York Times, che parla di 183 volte) e che conclude (p. 38) :

Durante il periodo più duro del mio interrogatorio ho dato un sacco di false informazioni per soddisfare ciò che credevo gli interroganti volessero sentire perché il maltrattamento terminasse. In seguito dissi loro che i loro metodi erano stupidi e controproduttivi. Sono certo che le false informazioni che sono stato forzato ad inventare per far smettere il maltrattamento gli ha fatto perdere un sacco di tempo ed ha portato a far annunciare diversi allarmi rossi negli Stati Uniti.


La tortura tra storia e oblio

Il water boarding venne introdotto dall’amministrazione di George W. Bush nella sua ‘guerra al terrorismo’, ed accompagnato dalla favola memoriale che si trattava di un metodo appreso dalla Corea del Nord ai tempi della guerra fredda.

L’immagine all’inizio di questo post riproduce la copertina della rivista Life del 22 maggio 1902. Il disegno rappresenta dei militari statunitensi che praticano il water-boarding su di un prigioniero filippino. Sotto la figura c’è scritto “Chorus in background: Those pious americans can’t throw stone at us anymore”.
Il “coro sullo sfondo” è composto dai rappresentanti delle potenze coloniali europee, che cantano “Questi pii yankees non potranno più scagliarci pietre”, cioè rimproverarci l’uso di metodi inumani che sono anche i loro.
Gli Stati Uniti, dopo aver fatto guerra alla Spagna (1898), in nome della libertà e dell’indipendenza delle sue principali colonie, Cuba e le Filippine, si accorsero che l’indipendenza delle Filippine non conveniva agli interessi imperialisti –che vedevano quelle isole come una testa di ponte per i mercati cinesi- e giunsero a chiederne alla Spagna la cessione della sovranità (negoziandola per 20 milioni di dollari).

Il disegno caricaturale della copertina di Life magazine non è inventato, ma ripreso direttamente da una fotografia (qui accanto) del 1901 ripubblicata recentemente dal New Yorker, che ricorda come il dibattito su tortura e contro-insurrezione sia già vecchio di un secolo. La notizia delle atrocità commesse dai militari USA nelle Filippine –incendi di villaggi, uccisione di prigionieri e appunto water-boarding- trovò modo di riflettersi nello spazio pubblico americano all’inizio del 1900.

Del water-boarding, o supplizio dell’acqua, esistono tracce e testimonianze che coprono quasi tutto il globo e praticamente ogni epoca.

Ancora gli americani, a Da Nang, in Vietnam: la fotografia venne pubblicata sulla prima pagina del Washington Post del 21.1.1968. Il militare USA che fa la supervisione della tortura applicata ad un prigioniero di guerra del Vietnam del Nord, venne portato due mesi dopo davanti alla corte marziale.

In Algeria, durante la guerra per l’indipendenza, i militari francesi utilizzarono tra i diversi metodi di tortura anche il water-boarding; ne ha ampiamente testimoniato il giornalista francese Henri Alleg che lo subì nel 1957.

Ben più indietro nel tempo, il supplizio era già praticato –sempre col fine di ottenere una confessione- dall’Inquisizione; in quella spagnola veniva chiamato ‘toca’. L’incisione qui riprodotta è tratta da J. Damhoudère, Praxis Rerum Criminalium, Antwerp, 1556: oltre agli esecutori sono rappresentati il cancelliere che verbalizza ed i tre giudici dell’inquisizione fiamminga, il cui presidente tiene in mano una pertica che ne simbolizza il potere.

Gli esempi, come s’è accennato, sono numerosissimi, e vanno dalla Cambogia dei Khmer Rossi, all’Africa, e all’America latina, dove il metodo del ‘submarino’ è stato applicato nelle ‘guerre sporche’ contro il terrorismo in Uruguay, Argentina, Brasile, Perù, Cile, San Salvador, Guatemala, ecc.

Il tratto comune è che gli interrogati sono eretici, sovversivi o terroristi, e gli interroganti sono uomini (e donne, come si legge nel rapporto CICR) del potere.

È probabilmente per questo che la tortura è riconosciuta come oggetto della storia -l’elaborazione distaccata del passato- ma rifiutata dalla memoria -l’uso del passato a fini politici attuali.

L’oblio generalizzato su questo tema porterebbe a credere che in Italia l’uso del water-boarding sia sconosciuto. Non è così, e non solo perché ogni sbirro al mondo ne conosce l’esistenza. Il metodo ‘della cassetta’ era già praticato dagli Ispettorati di PS sotto il fascismo, e riappare regolarmente:

12 dicembre 1951 

A Lucera, si svolge il processo per i fatti di San Severo del 23 marzo 1950, nei quali la polizia ha ucciso il giovane Di Nunzio e ferito decine di manifestanti. Diversi testimoni dichiarano che i rastrellamenti avvennero prima degli scontri ed alcuni imputati denunciano le torture subite: Pietro Forte denuncia la tortura dell’acqua, praticata con un tubo mentre gli era stato messo uno scarafaggio sul ventre, D’Errico dichiara di essere stato appeso ad un uncino, Matteo De Florio di aver avuto i denti spezzati durante l’interrogatorio a causa delle percosse.
24 febbraio 1979
A Milano, sono scarcerati per mancanza di indizi 3 dei 9 componenti del ‘collettivo autonomo della Barona’ arrestati in relazione all’omicidio Torregiani, Umberto Lucarelli, Roberto Villa, Fabio Zoppi. I tre denunciano subito dopo che Roberto è stato torturato mediante ustioni ai testicoli e picchiato e la stessa sorte è toccata a Sisino Bitti, ricoverato al Niguarda per le botte subite e ad Angelo Franco, costretto a ingerire litri d’acqua e bastonato. Anche Anna Casagrande, arrestata per ‘favoreggiamento’ denuncia di essere stata presa a schiaffi durante gli interrogatori.
11 gennaio 1982
A Roma, dinanzi al sostituto procuratore della repubblica Domenico Sica, il brigatista rosso Ennio Di Rocco denuncia di essere stato torturato da agenti di polizia con il metodo della ‘cassetta’ ed altri ancora. All’inizio dell’interrogatorio, su richiesta del suo avvocato Edoardo Di Giovanni, viene dato atto che “l’imputato è stato condotto con le mani ammanettate dietro la schiena, e che ha il polso sinistro sanguinante”. A conclusione dell’interrogatorio, “i difensori chiedono accertamenti medici urgenti e l’immediato trasferimento in carcere dell’imputato”.
2 agosto 1985 
A Palermo, sulla spiaggia di Sant’Erasmo, è trovato seminudo il cadavere di un uomo che sarà identificato, poche ore più tardi, come Salvatore Marino. L’uomo si era presentato spontaneamente in Questura, il giorno precedente, accompagnato dal proprio avvocato di fiducia dopo aver saputo che la polizia lo cercava per interrogarlo nell’ambito delle indagini sull’omicidio del commissario di Ps Giuseppe Montana. Trattenuto in Questura, il giovane viene interrogato nel corso della notte con il metodo della cassetta: sdraiato, con un tubo infilato in bocca attraverso il quale gli fanno bere acqua salata. Il tubo, però, sfonda la trachea e provoca la morte del torturato per insufficienza cardiaca. A quel punto, i poliziotti fanno scomparire i documenti del giovane e ne trasportano il corpo sulla spiaggia di Sant’Erasmo dove lo abbandonano nel tentativo di depistare le indagini.


Su questa pagina si trovano estratti della Sentenza di rinvio a giudizio del 17 marzo 1983 per il water-boarding su Cesare di Leonardo e del verbale in cui Ennio Di Rocco racconta ciò che ha subito.
Vale ancora la pena di ricordare che gli episodi citati del 1979, il trattamento degli arrestati in relazione all’omicidio Torregiani, sono parte del procedimento che ha portato alla condanna di Cesare Battisti, che viene oggi venduta, per ottenerne l’estradizione, come un atto perfettamente rispettoso dello Stato di diritto.

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Torture contro i militanti della lotta armata

Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato

Parla Massimo Germani, medico e terapeuta del centro di cure per i disturbi da stress post-traumatico del san Giovanni di Roma. Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi

 

Paolo Persichetti
Liberazione
25 giugno 2011

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni

Tortura con elettrodi, carcere di Abu Ghraib, Iraq 2004

Parlare di tortura non è facile. L’orrore che suscita crea in genere uno sdegno unanime di cui però è meglio diffidare poiché spesso cela solo ipocrisia. Pensiamo al fatto che metà della popolazione mondiale, circa tre miliardi e mezzo di persone, vive in Paesi che praticano la tortura. I paradossi non finiscono qui: nella sua carta dei diritti fondamentali l’Europa afferma che «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Per questo all’interno dei suoi confini si offre riparo alle persone fuggite da violenze e torture. Al tempo stesso il vecchio continente è stato anche il laboratorio della tortura contemporanea, quella applicata e diffusa dopo la seconda guerra mondiale. La storia è abbastanza nota e nasce in Francia, anzi in Indocina, dove le truppe coloniali francesi applicarono queste tecniche contro i guerriglieri comunisti. La tortura era un corollario di quella che gli stati maggiori francesi definivano «dottrina della guerra rivoluzionaria». La definizione verrà poi corretta dagli statunitensi. La counterinsurgency americana altro non è infatti che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi avevano ulteriormente perfezionato in Algeria. Alla base di tutto c’è un manuale scritto dal generale Paul Aussaresses, il macellaio di Algeri. Il suo testo segue un percorso ben preciso: traversa l’Oceano e finisce a Fort Bragg, nella famigerata “Scuola delle Americhe” che forma negli anni 60 gli ufficiali dei corpi antiguerriglia Usa e i quadri militari delle dittature sudamericane. L’abecedario del bravo torturatore, tradotto e riversato nei manuali dell’esercito statunitense, ritorna poi in Europa attraverso la Nato e serve a formare tutte le polizie d’Occidente. Metodi come l’annegamento simulato (conosciuto a Guantanamo come waterboarding), o l’uso degli elettrodi sui genitali verranno, diffusamente impiegati in Italia anche da Ucigos e Nocs nel biennio 1982-83 contro i militanti della lotta armata. Non deve stupire dunque se questo Paese ancora oggi non riconosce il reato di tortura nel proprio codice penale, e se queste pratiche sono riemerse per governare l’ordine pubblico nella caserma di Bolzaneto durante le contestazioni al summit del G8 genovese del 2001.
Domenica 26 giugno verrà celebrata la giornata internazionale contro la tortura. Diverse iniziative sono state promosse per sensibilizzare l’opinione pubblica attorno alla questione: dalla denuncia dell’ergastolo ostativo che condanna alla pena capitale fino alla morte la gran parte degli attuali 1500 ergastolani italiani, all’occupazione organizzata dal Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) di alcune piazze di Roma con statue umane raffiguranti le vittime di Abu Ghraib. Lunedi invece andranno in scena al teatro Ambra Jovineli un gruppo di 12 rifugiati, tutti reduci da torture pesanti. Si tratta di un «laboratorio riabilitativo», ci spiega Massimo Germani, psichiatra e psicanalista, direttore del centro per le patologie post-traumatiche da stress (conosciuto nella letteratura clinica con la sigla Dpts, disturbo post-traumatico da stress) presso l’ospedale san Giovanni di Roma. Germani è anche Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi ed a cui vengono fornite cure specialistiche organiche e psicoterapeutiche. Si tratta di centri all’avanguardia che intervengono sulle conseguenze dei traumi di natura interpersonale.
Quando abusi e violenze avvengono in luoghi chiusi, come carcere e famiglia o altre condizioni costrittive, ed hanno natura continuativa e ripetuta, danno luogo a traumi estremi, «non solo nell’immediato», nella carne, sottolinea il dottor Germani, ma «per la gravità duratura nel tempo delle conseguenze a livello della psiche. Subentra infatti una profonda disfunzione di quella che chiamiamo la psiche di base: la memoria, l’identità personale». Il vissuto postraumatico da luogo ad «episodi dissociativi della personalità, come passare davanti allo specchio e non riconoscersi, oppure a spaesamenti, depersonalizzazione e derealizzazione». La persona – prosegue sempre Germani – diventa una specie di fantasma, «una parte del suo essere è dissociato dall’altro. C’è una dimensione che vive un quotidiano apparentemente normale, mentre l’altra resta inglobata nell’esperienza traumatica». La tortura incrina le fondamenta della persona, è una umiliazione estrema che sgretola l’io, fa venir meno la fiducia in sé e nell’altro. Per questo «i percorsi di riabilitazione psicosociale puntano alla riattivazione del gruppo per ritrovare la fiducia negli altri e in se stessi. Più della parola, che può riattivare il trauma, è utile la relazione».
In un report appena stilato si apprende che oltre 3000 richiedenti asilo hanno subito forme di tortura grave o abusi, il 25% donne e il 75 uomini, in prevalenza Eritrei, Somali, Afgani, Kurdi sotto regime Turco, e poi Centroafricani del Congo, della Costa d’Avorio, della Nigeria. Parecchi quelli che arrivano dalla Libia dopo aver attraversato il deserto. Durante il viaggio spesso vengono fatti oggetto di altri abusi e torture, specie le donne, trattenute e sottoposte a pedaggi sessuali e stupri sistematici da bande di predoni che controllano l’accesso nelle regioni di confine. Non finisce qui, perché poi c’è la traversata del Mediterraneo, con altre tragedie, naufragi. Veri e propri viaggi del massacro e della morte. Chi riesce a scamparla porta con sé la memoria di chi è annegato, di bimbi scivolati in mare. Questi rifugiati dopo la lunga e penosa, ed anche qui non esente da ulteriori violenze, trafila nei Cie (centri di identificazione e accoglienza) e poi nei Cara (centri di assistenza per richiedenti asilo), entrano nel circuito dell’assistenza e del trattamento terapeutico. Si tratta di un percorso – spiega sempre Germani – che «richiede tempi lunghi, che per avere successo deve avvalersi sempre di sostegni sociali, di una qualità di vita dignitosa e un supporto legale che faccia avere loro giustizia, il riconoscimento dello status. Essere creduti fa parte del trattamento. Il medico da solo non basta. Occorre ridare dignità, giustizia, una vita con relazioni sociali, una casa, un lavoro. Senza il consiglio italiano, i legali e l’assistente sociale non si va da nessuna parte».

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Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati
Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista Piervittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982

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Scheda 2 – Libia, le tribù contano più dei bombardieri

Equilibri. Quasi tutti i gruppi si sono schierati con gli oppositori. Con loro anche i Warfalla, che rappresentano quasi un terzo della popolazione. Il loro appoggio si era rivelato fondamentale per il colpo di Stato del 1969

di Jacopo Arbarello
Il Riformista 24 marzo 2011

La Libia è in mano alle tribù. Il destino del paese dipende dai leader tribali più di quanto non dipenda dai francesi e dalla Nato. E senza il loro appoggio Muahammar Gheddafi non potrà in nessun caso rimanere alla guida del paese. Ma quali tribù ancora appoggiano il Colonnello? La maggioranza sembra essersi rivoltata contro di lui, e non si tratta solo di tribù della Cirenaica, la regione che ha per capitale Bengasi, roccaforte dei ribelli. Nel paese si contano circa 140 tribù e almeno una trentina di queste hanno da sempre un’influenza politica importante. In questo senso la Libia è un paese più “africano” di Egitto e Tunisia, e forse anche in questo risiede la differenza tra la ribellione in Libia e quella che ha portato all’uscita di scena di Mubarak in Egitto e di Ben Alì in Tunisia. Qui l’appartenenza alla tribù non è mai venuta meno, e la struttura sociale risente ancora del diritto e delle consuetudini tribali. Con il colpo di stato del 1969 Gheddafi ha portato al potere la sua tribù, i Qadhadhifa, poco numerosi e originari di Sirte. In tutti questi anni il raìs è riuscito però a rappresentare il punto di incontro tra le diverse richieste, governando con un’abile politica di mediazione e di alleanze tra le diverse tribù. Il colpo di stato ad esempio riuscì perché Gheddafi si alleò con i due principali gruppi tribali libici, i Warfalla e i Magarha. Ma adesso le cose sono cambiate. Sono contro il raìs fin dalla prima ora della rivolta praticamente tutte le tribù della Cirenaica. A cominciare dai Misrata, la tribù più importante dell’Est, particolarmente influenti a Bengasi e Derna. Contro Gheddafi anche i Tebu, nomadi del deserto cirenaico e i Masamir, molto religiosi, che potrebbero rappresentare il collegamento con i Fratelli musulmani egiziani e con altri gruppi integralisti. Così come gli Abu Llail, da cui provengono molti insorti: alcuni di loro farebbero parte degli jahidisti del Lybian islamic fighting group, che si è unito alla rivolta assieme al ramo nordafricano di Al Qaeda. In Cirenaica solo una tribù minoritaria, gli Al Awaqir, è data in appoggio a Gheddafi, e questo perché i suoi membri, da sempre, anche prima di Gheddafi, hanno avuto ruoli importanti nel governo di Tripoli. Ma soprattutto dal 1993 Gheddafi ha contro la principale tribù libica che aveva coinvolto nel colpo di Stato. I Warfalla, con un milione di membri, sono la tribù più numerosa e influente, e rappresentando un terzo della popolazione. Nel 1993 alcuni ufficiali di questa tribù avevano provato il putsch contro Gheddafi, senza riuscirci, e da allora dopo un terribile repressione che portò ad arresti e impiccagioni, ai loro capi sono stati affidati solo ruoli di secondo piano nella gestione del paese. I Warfalla appoggiano i ribelli. I Magarha della Tripolitania sono la seconda tribù del paese. Sono guidati dall’ex numero due di Gheddafi poi caduto in disgrazia. Anche l’attentatore di Lockerbie viene da questa tribù. Molti membri sono stati al governo e nei servizi di sicurezza e conoscono perfettamente i segreti militari del raìs: per questo i Magarha potrebbero rappresentare l’ago della bilancia. Attualmente vengono dati come divisi o equidistanti tra Gheddafi e i ribelli. Incerti ma con molte riserve verso Gheddafi anche gli Zuwaya, che occupano la parte centrale della costa libica. I loro capi fin dai primi giorni della rivolta si sono opposti alle repressioni, minacciando di interrompere le esportazioni di petrolio se le violenze non fossero terminate. Sono infine contrari a Gheddafi anche i tuareg, che sono circa 500 mila e vivono nel deserto del Fezzan. Il quadro è evidentemente complicato e sempre in evoluzione. Allo stato attuale Gheddafi può contare praticamente solo sull’appoggio della propria tribù, i Qadhadhifa, e su parte dei Magarha. Molte tribù minori ma strategiche come i Bni Walid e gli Zintan hanno infatti seguito i Warfalla e ufficializzato il proprio appoggio alla ribellione ritirando gli uomini dall’esercito. Dal punto di vista tribale, che è quello più propriamente libico, Muahammar Gheddafi sembrerebbe dunque spacciato. Ma è anche vero che il Colonnello ha ancora il controllo dell’esercito e delle risorse economiche. E se dovesse resistere al suo posto ancora a lungo nonostante i bombardamenti alleati, molte tribù potrebbero essere indotte a tornare dalla sua parte dalla forza delle armi o dal fascino dei soldi del raìs.

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Scheda 1 – Il ruolo della società tribale in Libia

Scheda 1 – Il ruolo della società tribale in Libia

Libia, è l’avavanzata delle tribù a minacciare il raìs

di Umberto De Giovannangeli
L’unità 26 febbraio 2011

Non è la «cyber-rivoluzione» dei ragazzi di Piazza Tahrir. Non è la rivolta centrata sull’esercito – modello Tunisia ed Egitto – contro i raìs da sempre al potere. In Libia è una storia diversa. La fine per Gheddafi si chiama tribù: Warfala, Zintan, Rojahan, Orfella, Riaina, al Farjane, al Zuwayya, Tuareg. Le stesse che nel 1911 affrontarono gli italiani durante la guerra di Libia. Sono loro il passato che non passa: le grandi tribù che hanno rotto quel «patto» che ha rappresentato uno dei pilastri fondamentali del quarantennale potere di Muammar Gheddafi. Sono le tribù, oltre 140 alle quale appartengono l’85 per cento dei libici, a essersi sollevate in Libia, non i giovani intellettuali né le masse operaie, che nel Paese sono perlopiù composte da lavoratori stranieri. Sono loro che potrebbero assestare il colpo definitivo al regime del Colonnello. E con le grandi tribù la comunità internazionale dovrà fare i conti nella Libia del dopo-raìs. Per evitare la polverizzazione dello Stato. Per scongiurare una nuova Somalia.
Le alleanze si sono ridefinite. Nuovi patti sono stati siglati. Questo ha segnato la fine del raìs. Ciascuna delle principali tribù è rappresentata nell’establishment militare e nei comitati popolari e rivoluzionari costituiti da Gheddafi dopo la presa di potere nel 1969. Alcuni clan sono da decenni in lotta tra di loro per il potere, ma il conflitto fino a pochi giorni fa era rimasto latente, anche grazie all’attività di mediazione dello stesso leader e ai proventi di petrolio e gas. Una mediazione che è saltata. Definitivamente.
I Tuareg, che in Libia sono mezzo milione, hanno accettato la «chiamata alle armi» della tribù Warfala, che conta oltre un milione di abitanti nel Paese. Inoltre uno dei leader Warfala ha dichiarato che Gheddafi «non è più un fratello» e deve lasciare la Libia. I leader della tribù Warfala sono tra i principali oppositori del governo, al punto che, secondo alcune fonti, nel 1993 organizzarono con alcuni generali dell’Aviazione un tentativo di colpo di Stato contro il Colonnello poi fallito. E il capo della tribù al Zuwayya del deserto orientale avrebbe minacciato di interrompere le esportazioni di greggio se le autorità non porranno fine alla repressione. Domenica scorsa anche la tribù degli Orfella, che conta novantamila persone, ha deciso di sostenere la rivolta. Nei giorni scorsi, i leader delle tribù Warfalla e Zuwayya, concentrate nella zona orientale del Paese, hanno ritirato il loro appoggio a Gheddafi. Gli Zuwayya hanno persino minacciato di ostacolare le esportazioni di greggio. E le numerose altre tribù della Cirenaica (Zuwayah, Awaqir, Abid, Barasa, Majabrah, Awajilah, Minifah, Abaydat, Fawakhir ed altre ancora) sembrano aver seguito questa scelta.
Tutta la popolazione della Cirenaica, d’altronde, ha sempre considerato il golpe del 1969 contro re Idris e la monarchia Senussi alla stregua di un’egemonia dei libici «occidentali» sulle sorti del Paese. Diversa la situazione nella Tripolitania. Qui l’adesione della tribù Zintan, originaria della città omonima situata a sud di Tripoli, alla protesta contro Gheddafi, ha sì portato il dissenso nella zona occidentale del Paese, ma ha confermato – per rivalità tribali – quelle di Rayaina, Siaan, Hawamed e Nawayel nel campo opposto. Prima leali e ora «neutrali» risultano i clan berberi della zona di Misurata. Anche nel vasto Fezzan, la parte meridionale del Paese, esiste un’intricata composizione tribale. Accanto ai Mahamid arabi, troviamo le tribù non arabe dei Tabu, che popolano le zone di Qatrun e Sabha e l’oasi di Kufrah. Contro Gheddafi si sono schierate anche la maggior parte delle tribù del sud della Libia e il clan degli al-Furjan, i cui appartenenti vivono in prevalenza nella città di Sirte.
«Nel breve termine le prospettive per la Libia sono molto cupe – rileva Robert Danin, arabista del Council on Foreign Relations di New York – perché non è chiaro se riuscirà a sopravvivere come nazione unita oppure se a prendere il sopravvento sarà l’identità di un Paese decentralizzato, nel quale l’identità collettiva è molto debole mentre a prevalere sono le fedeltà a tribù e clan con le radici nei secoli passati». «La tribù Magariha da una parte è grata a Gheddafi che ha ottenuto dalla Gran Bretagna la liberazione di Baset al-Megrahi» già imprigionato per il coinvolgimento nell’attentato di Lockerbie «ma dall’altra non ha dimenticato la defenestrazione di Jallud ( l’ex primo ministro che il Colonnello ebbe al fianco per quasi dieci anni prima di defenestrarlo, accusandolo di complottare contro di lui, ndr) « ancora vissuta come una grave offesa. Poiché i Magariha sono stimati in quasi un milione di anime, sono bene armati ed economicamente forti risulteranno decisivi nel rovesciamento del raìs e nella definizione dei nuovi equilibri di potere nella Libia del futuro», riflette l’accademico egiziano Faraj Abdulaziz Najam, specializzato in storia libica.
«La tribù (qabila) è l’unica istituzione che da secoli ha plasmato, difeso e regolato la società delle popolazioni arabe (e in minima parte berbere) che hanno abitato le regioni chiamate all’inizio del Ventesimo secolo dai colonizzatori italiani Tripolitania, Cirenaica e Fezzan», rimarca su Limes Aldo Nicosia. «L’affermazione del sistema politico tribale – prosegue Nicosia – fortemente voluto e sostenuto da regime di Gheddafi proprio per impedire la nascita di una società civile, basata su istituzioni pluralistiche e democratiche (cui contrappone la banale demagogia dello slogan del “potere alla masse”), comincia a provocare il ripiegamento del libico verso la tribù di appartenenza, e parallelamente fa sprofondare il Paese nella corruzione, a tutti i livelli». Un’appartenenza tribale destinata a segnare il presente e il futuro della Libia. Con o senza il raìs».

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Scheda 2: – Il ruolo della società tribale in Libia

PALESTINA: Storia di una pulizia etnica (2). I primi villaggi e quartieri urbani (via Polvere da sparo)

PALESTINA: Storia di una pulizia etnica (2). I primi villaggi e quartieri urbani Pulizia etnica: Espulsione forzata volta a omogenizzare una popolazione etnicamente mista in una particolare regione o territorio. Scopo dell’espulsione è causare l’allontanamento del maggior numero possibile di residenti, con tutti i mezzi a disposizione, inclusi quelli non violenti. _Dizionario Hutchinson_ KHISAS era un piccolo villaggio abitato da alcune centinaia di musulmani e da cento cristiani, che convivevano pacificamente in una posizion … Read More

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