Dante e il canto inedito sulla Valle di Susa

Dante in Val susaLasciata alle spalle ogni cosa diletta per scoprire «come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale», l’esule politico Dante Alighieri, in cammino verso la Francia lungo sentieri calpestati secoli più tardi da altri suoi connazionali, s’imbatté in una singolare avventura mentre transitava per la Valle di Susa.
L’episodio rimasto sino ad oggi sconosciuto diede vita ad un canto inedito della Divina commedia che la Casa Editrice Tabor, animata da Daniele Pepino, ha avuto il merito di pubblicare lo scorso dicembre 2013.
Il canto, collocabile secondo l’editore alla fine dell’Inferno, è il risultato di una «sorprendente visione premonitrice» ispirata da una pozione di «spetialissime erbe» che il sommo poeta non esita a descrivere nel dettaglio, assunta nella Sacra di San Michele presso i monaci che gli offrirono riparo e ristoro curandolo dopo l’arresto e le probabili percosse degli armigeri che, al pari di oggi, presidiavano la valle.
Ironia e brio accompagnano il testo. Una menzione speciale per le note a fondo testo.
Il gioco vale davvero la candela.
Consiglio vivamente il libretto (6 euro). Gli studenti lo portino a scuola.
Buona lettura!

La spetialissima pozione
«Eravi nella nomata pozione di certo aliquanta santoreggia, e della artemisia absinta, e poca digitale e laudano in buona mensura; eranvi di poi li fiori di una particulare spezie di canapa, che dicesi venga dalle lontane Indie, ma che bene forte s’accresce anco nello giardino de’ divoti frati, che spesso l’usano per fare dolciumi, manducati li quali spesse volte li fa visita Nostra Signora la Madonna; eravi di poi una radice genziana, et multi pezzi essiccati del fungo, che trovasi nelli boschi attigui, che chiamasi ammannita, et altri funghi di più piccola fatta, che truovano nelle vicinanze delli armenti su le più alte vette, e serbansi nel miele; et essi anco sono di molto aiuto alle lor preci, imperocché ingollata la giusta dose mai fu vana l’attesa di una divina apparizione. E molto altro ancora eravi, che non riconobbi o non sapria nomare»

Il girone infernale dell’economia capitalistica
«Qual è ‘l distinto atroce
che sulle umane genti farà impero
ti si parrà dinnanzi, e quale croce.

Se tu vorrai, potrai per quel sentiero
giungere al loco che darà recetto
al peggior spergio de lo mondo intero.

Si va parando il sito maledetto
in cui si puniranno un dì coloro
che perdean passione ed intelletto.

Tu dei saper che lo disir dell’oro
presto conquisterà l’umani affanni
tanto da ruinar senno e decoro:

una bieca masnada di tiranni
non curerà se per la sua mercede
a la terra imporrà nefasti danni.

Tanta sarà la brama che li fiede
ch’a curar de’ li conti e del successo
si smarriran da che ragion procede,

e verrà dato il nome di progresso
a ciò che forza fornirà, e stromenti
per mantener l’imperio a quel consesso.

Questi s’affermeranno tra le genti
sviluppando la forza produttiva
che le libererà da fame e stenti;

ma, poi che avranno ‘l mondo che languiva
dotato de li mezzi per avere
quell’essenziale a cui la vita ambiva,

non avendo null’altro da offerere,
per conservare lor social postura
stabiliran ciò che si dee volere.

Fabricheranno merci oltre misura;
per mantenere vivo lo mercato
la terra covriran d’ogni lordura.

Tanto il ciclo sarà automatizzato
che l’accumulazion del capitale
doventerà dottrina dello Stato».

Sotto la chioma niente
«Molto, o mio duca, bramerei sapere
perché di tra gli attrezzi da macello»
dimandai «ve n’è uno da barbiere».

E ‘l duca a me «In questo tristo ostello
tra i magistrati ch’avranno confino
un, più che al resto, baderà al capello.

Sarà procuratore di Torino,
sarà a Palermo, sarà in ogni dove
l’imago sua gli segnerà il cammino.

Se un gesto di Colui che tutto move
lo rimenasse alle stagioni sue,
questi andrebbe a ricercare prove

per indagare Giotto e Cimabue
e patteggiare che lo suo sembiante
dovunque ritraessero amendue;

e quando cadrà al diavolo davante
per saldar su la libra li suoi conti
la frangià sarà il pezzo più pesante».

Erri De Luca, «Cattivo maestro io? Sì, inservibile ai poteri»

L’intervista ad Erri De Luca, «Sabotare la Tav in Val di Susa è giusto e necessario»

di Eleonora Martini
il manifesto, 6 settembre 2013

«Sabotare la Tav in Val di Susa è giusto e necessario». Lo scrittore Erri De Luca non arretra di un passo davanti alle minacce di denuncia da parte della società Ltf che realizzerà il corridoio Torino-Lione. Sabotatore e ben contento. Rivoluzionario? «Non c’è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere: bisogna semplicemente impedire quell’opera». Cattivo maestro? «Mi assegnano un titolo professionale che non ho conseguito: non ho fatto l’università e dunque non ho potuto aspirare alla docenza. Però ad essere cattivo per quei poteri costituiti, io ci sto: intendo essere cattivo, anzi inservibile, alle ragioni di quei poteri costituiti che assediano la Val di Susa». Armi? «Finora sono bastate e basteranno pezzi di resistenza ordinaria, acquistabili in ferramenta».
Non è contrario a tutte le “grandi opere”, Erri De Luca, che a ogni definizione, scrittore o ex dirigente di Lotta continua che sia, sta un po’ stretto. È contrario – anzi «resistente» e non certo «dal salotto di casa» – solo e soltanto a quel buco nella montagna che «stupra la terra, l’aria e l’acqua» di quella valle.

Arriva la notizia che la società Ltf, incaricata della realizzazione del tratto ad alta velocità della Torino-Lione presenterà nei prossimi giorni una denuncia contro di lei per aver sostenuto che «i sabotaggi sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile». Sconvolto?
Non sono pratico di procedure, ma l’annuncio della denuncia è un cosa ridicola, come si fossero sbagliati: invece che all’ufficio legale si sono rivolti all’ufficio stampa. A me non è arrivato nulla, tranne gli annunci pubblicitari. Roba della peggiore Italia, quella delle minacce a chiacchiere. Aspetto di avere le carte in mano per sapere di cosa in tratta.

Siamo nel pieno processo di demonizzazione del movimento?
Processo di diffamazione, piuttosto, che usa le fandonie sul rischio terrorismo per passare a un livello di repressione più alto. In quella valle c’è già uno stato di assedio, con l’esercito e i posti di blocco, ma evidentemente non bastano più e dunque inventano la fandonia del terrorismo per aumentare la militarizzazione. Esibiscono il sequestro di materiali da ferramenta – chiodi, tronchesi, guanti – e non la gran quantità di computer sequestrati alle persone della Val di Susa. Il computer è sacro, non si può toccare, ma intanto lo sequestrano. Come da noi, negli anni ’70, quando ci sequestravano il ciclostile pensando così di ammutolirci.

Riesce a vedere delle similitudini con quei movimenti?
No, solo dalla parte della magistratura che ha un desiderio di ritrovarsi nelle stesse condizioni di allora. Ma in realtà quella lotta dei valsusini è una lotta civile che utilizza materiale da ferramenta per tagliare simbolicamente una rete abusiva. Perché tali sono, quelle recinzioni.

In molti hanno solidarizzato con lei e con il movimento NoTav «fondato sui principi di nonviolenza e resistenza». Ma a volte il limite tra resistenza, rivoluzione e violenza è molto sottile. E c’è sempre qualcuno che potrebbe fraintendere, non crede?
Non c’è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere bisogna semplicemente impedire quell’opera.

Costi quel che costi?
Sta già costando tanto alle persone di quella valle e quello che senti dire da loro è che non molleranno, non gliela daranno vinta perché non hanno una valle di ricambio. E’ la più forte, unanime e continua resistenza civile degli ultimi 20 anni. Il più alto esempio di democrazia dal basso: vengono a studiarlo da altri paesi del mondo.

Si potrebbe obiettare con la sindrome Nimby, non nel mio giardino.
Per niente. A casa mia si possono fare delle opere molto utili. Per esempio adesso in Sicilia stanno perforando una montagna vicino Caltanissetta e nessuno dice niente perché è un’opera utile evidentemente. Lì invece si tratta di un’opera inutile oltre che nociva, e lo si vedeva da molti anni, già da quando facevano i calcoli sbagliati sulla previsione di incremento del traffico.

Come per il corridoio Genova-Rotterdam, assai più utile e sostenibile, con il traforo del San Gottardo già ultimato e con la Svizzera che preme sull’Italia per completare il percorso. Dunque non tutte le grandi opere sono da avversare.
Delle grandi o piccole opere non mi interessa. Sono stato convocato da una popolazione che si sta battendo contro lo stupro e la riduzione in servitù della loro valle. Un’opera è sostenibile se è appoggiata dalle popolazioni. Io sostengo le loro ragioni. E da militante, non è che lo faccio dal mio domicilio. Si vuol parlare di violenza? L’occupazione militare, quella è violenza.

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Elogio del sabotaggio in valle

Tav. Erri De Luca, “Va sabotata, è l’unico modo che c’è per fermarla. Il procuratore Caselli esagera”

Laura Eduati
L’Huffington Post, lunedì 2 Settembre 2013

“La Tav va sabotata”. Lo scrittore Erri De Luca, raggiunto al telefono dall’HuffPost, commenta con scarne parole l’accusa che il procuratore Giancarlo Caselli lancia nei confronti degli intellettuali che a sinistra “sottovalutano pericolosamente l’allarme terrorismo” in Val di Susa.
Caselli non fa i nomi dei “conniventi” ma nell’ elenco, è chiaro, figurano il filosofo Gianni Vattimo e De Luca, che hanno manifestato pubblicamente il supporto agli attivisti No Tav finiti in carcere per sabotaggio. Pochi giorni or sono Vattimo è finito nelle attenzioni della Procura torinese per i suoi stretti legami con le frange più dure del movimento, mentre lo scittore ha firmato un intervento durissimo nel volume appena uscito “Nemico pubblico. Oltre il tunnel dei media: una storia NoTav”, ebook dedicato alla lotta valligiana scritto con la giornalista Chiara Sasso, WuMing1 e Ascanio Celestini.
Ieri altri due ragazzi appartenenti ai No Tav sono stati arrestati mentre trasportavano in
macchina molotov, maschere antigas, fionde, cesoie, chiodi a quattro punte e altro materiale destinato, secondo gli investigatori, a danneggiare i cantieri dell’Alta Velocità. È proprio questo ultimo episodio a spingere Caselli contro i cosiddetti cattivi maestri. De Luca ha letto le dichiarazioni del magistrato ma non si scompone. Non è un uomo loquace, risponde con fermezza e senza appello.

Erri De Luca, ha ragione il procuratore capo di Torino quando paventa il terrorismo No Tav?
Caselli esagera.

Forse esagera, ma in macchina i due ragazzi arrestati avevano caricato molotov…
(sorride ironicamente) …Sì, pericoloso materiale da ferramenta. Proprio quello che
normalmente viene dato in dotazione ai terroristi. Mi spiego meglio: la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo.

Dunque sabotaggi e vandalismi sono leciti?
Sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile.

Sono leciti anche quando colpiscono aziende che lavorano per l’Alta Velocità come quella di Bussoleno, chiusa per i continui danneggiamenti? Non si rischia un conflitto tra lavoratori e valligiani?
La Tav non si farà. È molto semplice.

La posizione è chiara. Ma è antitetica a quella presa dal governo.
Non è una decisione politica, bensì una decisione presa dalle banche e da coloro che devono lucrare a danno della vita e della salute di una intera valle. La politica ha semplicemente e servilmente dato il via libera.

Di questo passo, afferma Caselli, arriveremo al terrorismo. Lei invece quale soluzione propone?
Non so cosa potrà succedere. Mi arrogo però una profezia: la Tav non verrà mai costruita. Ora l’intera valle è militarizzata, l’esercito presidia i cantieri mentre i residenti devono esibire i documenti se vogliono andare a lavorare la vigna. Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa.

Politicamente come si risolve?
Arriverà un governo che prenderà atto dell’evidenza: la valle non vuole i cantieri. E finalmente darà l’ordine alle truppe di tornare a casa.

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Napoli, De Magistris subito flop. L’immondizia diventa arancione

Napoli sommersa dai rifiuti. Regione e Provincia non mantengono gli accordi presi con il Comune. I cittadini impediscono l’accesso alle discariche. Il neo sindaco, che aveva incautamente promesso di ripulire la città in cinque giorni, non trova di meglio che gridare al complotto

Paolo Persichetti
Liberazione 22 giugno 2011

Le montagne di rifiuti sono ancora in strada. «Se si scende dal Vomero verso il centro è pieno d’immondizia», ci raccontano al telefono alcuni cittadini napoletani con un misto di sconsolata indignazione. E’ solo un sabotaggio, come grida ai quattro venti il neosindaco di Napoli Luigi De Magistris? Oppure il risultato inevitabile della demagogia utilizzata in campagna elettorale? Anche Berlusconi e Bertolaso avevano accampato la stessa scusa. La scadenza dei cinque giorni promessi per liberare la città dai cumuli d’immondizia è stata superata senza risultati. Alla prima prova l’ex pm fa cilecca. La riunione notturna con il prefetto, chiesta in tutta fretta lunedì sera, non ha sortito gli effetti sperati. Altre riunioni si sono succedute nel corso della giornata di ieri, ma da regione e provincia, che in questa fase hanno in mano le chiavi per consentire soluzioni in grado di tamponare la situazione, e permettere che parta il piano promesso dall’assessore all’ambiente e vice sindaco Tommaso Sodano, non sono arrivate disponibilità. L’accesso ai siti di stoccaggio esterni alla città dipendono da loro. «Esisteva un accordo – ha recriminato De Magistris – con prefettura, regione, provincia. Avrebbe consentito di liberare Napoli dai rifiuti in cinque giorni, prevedendo anche la realizzazione di un sito di trasferenza nella stessa città». Poi è successa una cosa abbastanza prevedibile per chi conosce, anche solo un poco, le lotte portate avanti negli ultimi anni dalle popolazioni del posto, oltre al groviglio di interessi e ostacoli che gravano sul settore della raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti. Il sindaco di Caivano, uno dei siti prescelti a nord di Napoli, su pressione di una popolazione per nulla convinta di dover accogliere sul proprio territorio altri rifiuti, ha emesso un’ordinanza di chiusura. Problemi analoghi si sono presentati ad Acerra, dove ci sono stati scontri e due autocompattatori sono andati danneggiati. «La soluzione è rendere Napoli autonoma in materia di rifiuti», ha spiegato Sodano. Già, ma ci vuole tempo. Quanto tempo per raddrizzare storture croniche del sistema come il furto delle tasse sui rifiuti pagati dai napoletani? Ben 50 milioni di euro sborsati dalla cittadinanza partenopea sono finiti al Nord, tra Milano e Bergamo, nelle tasche dei titolari di una delle società, l’Aip, che riscuoteva per conto del comune anche le bollette di acqua, condono e Ici. Incassava, anche dopo il contratto scaduto, ma non riversava nelle casse comunali. Una inchiesta della magistratura per banca rotta e peculato è in corso.
Intanto la sparata dei cinque giorni per liberare la città dalle cataste di spazzatura (2400 tonnellate), De Magistris se la poteva risparmiare. Berlusconi ha fatto scuola e l’ex pm, che ha chiamato in giunta un altro magistrato della procura di Napoli, suscitando non poche contrarietà (diventare amministratore nel distretto dove si è esercitata la propria funzione di magistrato non è il massimo dell’ortodossia costituzionale), e un questore, si è dimostrato un suo bravo scolaretto. Solo che il proprietario del Pdl ha poi i mezzi per far girare la grancassa mediatica, De Magistris no. E così il trucco si è scoperto subito. Il populismo ha le gambe corte e il conto è arrivato presto. Progetti seri e coraggiosi, come quello elaborato da Tommaso Sodano per rivoluzionare il sistema della raccolta e lavorazione dei rifiuti con l’approdo al 70% della differenziata richiedono comunque un certo periodo di tempo. Non esistono soluzioni miracolistiche. Averle fatte balenare è stato oltreché stupido, un grave errore. Roba da novizi. Il Coordinamento regionale rifiuti della Campania ha diffuso un comunicato molto duro nei confronti della nuova giunta comunale che avrebbe già tradito gli impegni presi in campagna elettorale. Alle «soluzioni radicalmente innovative, orientate al riciclo dei materiali ambientalmente compatibili e vicine alle istanze dei cittadini», la neo-amministrazione avrebbe opposto un ritorno a soluzioni già caldeggiate in passato, come il ricorso ad impianti di compostaggio e termovalorizzatori situati sul sito di Acerra. I comitati contestano anche l’individuazione delle minidiscariche di Acerra, Caivano e Napoli-Est, come siti di trasferenza in cui portare le oltre 10.000 tonnellate di rifiuti giacenti. Nel comunicato si ricorda come il territorio di Acerra si trovi «in pieno triangolo della morte» con una devastazione ambientale causata da «decennali sversamenti illegali di rifiuti tossici, e su cui oggi insistono il mega-inceneritore e due tra impianti di biomasse e di depurazione, eredità della ex-Montefibre». Il comune dovrà lavorare molto per ristabilire un rapporto di fiducia e partecipazione con i cittadini coinvolgendoli, come annunciato nel programma elettorale, nelle scelte dell’amministrazione. Altrimenti il rischio è quello del muro contro muro. il coordinamento chiede che «al più presto si possa discutere in assemblea pubblica con contraddittorio del piano complessivo di gestione dei rifiuti e non di singole delibere».

Riccardo Petrella, «Abbiamo vinto il referendum, ma ora bisogna convocare d’urgenza gli stati generali dell’acqua»

Intervista a Riccardo Petrella, Docente di scienze sociali, autore di “Capitalismo blu. La predazione della vita” 2011

Paolo Persichetti
Liberazione 16 giugno 2011

Le vittorie radunano folle di padri e madri che ne rivendicano la genitura, mentre le sconfitte rimangono sempre desolatamente orfane. E’ accaduto immancabilmente anche questa volta. Privatizzatori d’ogni sorta di servizio pubblico e bene comune sono subito saltati sul carro del vincitore. Eppure se c’è un nome a cui la primogenitura di questa vittoria dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua va legittimamente attribuita, è quello di Riccardo Petrella. Docente di scienze politiche e sociali, una formazione ispirata al solidarismo cristiano, esperto di mondializzazione dell’economia, Petrella è stato l’iniziatore della battaglia per l’acqua «bene comune universale». Il controllo delle risorse idriche, oltre ad essere divenuto una posta in gioco centrale dell’economia mondiale come della geopolitica, è ormai secondo Petrella – al pari di quanto già sosteneva Eraclito col suo Panta rei os potamòs («Tutto scorre nel fiume») – uno snodo centrale della filosofia politica. L’uomo è fatto per 2/3 di acqua, privatizzare questo bene costitutivo dell’essenza umana evoca inevitabilmente una regressione all’evo buio della schiavitù. L’acqua, dunque, può e deve essere una leva per organizzare una società diversa. «I 27 milioni che hanno votato “Si” – spiega Petrella – vogliono essere cittadini e non i sudditi di prima, vogliono partecipare, non vogliono esser presi in giro con promesse che poi non avranno seguito nei fatti. Il concetto di bene comune racchiude la partecipazione dei cittadini non solo alle scelte ma all’organizzazione e gestione dei beni».

Partiamo da qui, professore: come si traduce in concreto questa vittoria?
C’è l’esigenza immediata di mantenere la mobilitazione, l’imperativo categorico di non andare al mare. Un compito essenziale dei comitati promotori è quello di monitorare le applicazioni sul piano istituzionale, dell’organizzazione del servizio idrico nelle varie regioni, nei vari Ato. Bisogna assolutamente evitare che ci siano delle derive, come quella contenuta nella legge regionale della Lombardia che ha introdotto l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi idrici. Ora bisogna fare in modo che i responsabili politici della Lombardia operino per l’abrogazione di questa legge. Ma ci sono situazioni anche altre regioni che richiedono un attento monitoraggio: per esempio, in Puglia, dove Vendola ha presentato un decreto legislativo regionale di ripubblicizzazione dell’acquedotto pugliese in una forma che svuota di significato la ripubblicizzazione dell’acquedotto.

Cioè?
Mantenere degli elementi che permettono all’acquedotto pugliese di comportarsi come un’impresa privata è preoccupante, per giunta proprio ora che i referendum hanno detto no al principio della privatizzazione. Per esercitare questo controllo lei pensa a una mobilitazione permanente oppure anche alla creazione di organismi che abbiano uno status giuridico riconosciuto? Non bisogna rinunciare ad essere presenti, fare dei presidi, perché le cose si facciano correttamente nello spirito di questa grande volontà dei cittadini che è emersa. Contemporaneamente bisogna cominciare ad organizzare i processi di adattamento della gestione dei servizi idrici alla luce dei risultati del referendum. Che senso ha mantenere la presenza di società per azioni o di società miste che operano in borsa? Nelle disposizioni legislative introdotte dall’ultimo governo Berlusconi, e in parte anche dal secondo governo Prodi, non c’era la possibilità di aver enti economici pubblici. Bisogna rimettere mano a tutto ciò. Molte spa, per esempio, non hanno mai ottenuto l’affidamento in seguito a gare d’appalto.

Ma le società private che hanno avuto nel frattempo le concessioni resteranno titolari fino alla scadenza contrattuale?
Il secondo quesito referendario ha abolito la remunerazione automatica autorizzata ai privati. Giuridicamente non si elimina la presenza delle spa, ma poiché queste agiscono solo a scopo di lucro ecco che queste società quotate in borsa dovranno fare i conti con la nuova situazione. C’è poi il problema della revisione delle tariffe e dei finanziamenti, questioni strettamente connesse.

Quali soluzioni propone?
Per affrontare tutte queste questioni che impongono il ricorso a metodi nuovi, ad un modo di pensare diverso, occorre convocare d’urgenza gli stati generali dell’acqua, anche per impedire il prevalere delle vecchie logiche partitiche. Una specie di assise nazionale aperta a tutti gli attori interessati: comitati per l’acqua pubblica, sindacati, movimenti associativi, forum di cooperazione. Bisogna inventare una ingegneria pluralista basata sulla fiscalità generale e su quella locale, e poi sulla partecipazione del cittadino al bilancio di gestione con forme cooperative. Penso a sistemi di test e prova, con lavori di scenari nei prossimi sei mesi, per mettere a punto i nuovi metodi. Il processo decisionale investe ovviamente anche il parlamento e i partiti che hanno un compito di finizione e armonizzazione, altrimenti c’è il rischio dell’esplosione delle singole e divergenti soluzioni territoriali: chi in un luogo fa una cosa, chi un’altra. Se si lasciassero prevalere queste logiche si avrebbe un’enorme responsabilità storica. Siamo in un periodo dove bisogna far prevalere uno spirito di innovazione politica, sociale ed etica forte.

Fukushima, il livello di radioattività nell’edificio del reattore 2 è 10 milioni di volte superiore alla norma

Il livello di radioattività nell’edificio del reattore 2 dell’impianto nucleare di Fukushima è 10 milioni di volte superiore alla norma. Lo ha reso noto la compagnia che gestisce l’impianto, la Tepco, spiegando che vi è dell’acqua radioattiva nei sotterranei dell’edificio della turbina collegata al reattore numero 2. Gli alti livelli radioattivi, afferma la Tepco, potrebbero originare dal nucleo del reattore, che potrebbe essere stato danneggiato dalle conseguenze del sisma e lo tsunami dell’11 marzo, riferisce l’emittente pubblica Nhk. Acqua contaminata si trova vicino a quattro dei sei reattori dell’impianto.La Tepco si è impegnata ad eliminarla il più presto possibile per permettere l’accesso dei tecnici al sistema e riavviare il sistema di raffreddamento. (Adnkronos) 27-MAR-11 10:50

Fukushima, «Se si arriva alla fusione del nucleo è la catastrofe radioattiva». Parla Pier Luigi Adami, ingegnere, esponente del comitato “Vota si per fermare il nucleare”

Paolo Persichetti
Liberazione
16 marzo 2011

Uno dei reattori danneggiati nella centrale nucleare di Kukushima

La favola del nucleare sicuro si sta ormai tragicamente dissolvendo in una nuvola di vapore radioattivo, come quelle fuoriuscite dopo le ripetute esplosioni che hanno colpito i reattori della centrale di Fukushima. «Sono ormai quattro i reattori in emergenza», sottolinea Pier Luigi Adami, ingegnere e membro del comitato scientifico “Vota si per fermare il nucleare”. Mentre un nuovo sisma di magnitudo 6,4 ha fatto nuovamente tremare la terra, in uno dei reattori si è giunti alla fusione di una parte del nucleo con un forte rilascio di radioattività in forma di vapore contaminato. «Il livello dell’incidente – ci spiega sempre Adami – è gravissimo, ha raggiunto il grado 6 sui 7 che comporta la scala stabilita dalla stessa agenzia internazionale per l’energia atomica».

Cosa significa esattamente la fusione del nucleo?
Contrariamente a quanto si crede, la tecnologia nucleare ha una bassa efficienza termodinamica. In altri termini l’immensa quantità di calore prodotto attraverso il processo di fissione dell’atomo viene solo in parte convertito in energia elettrica (30% appena rispetto al 54% degli impianti a gas). Resta quindi una enorme massa di calore che deve essere smaltita attraverso i sistemi di refrigerazione. Se per una qualsiasi ragione anche banale, come il blocco di una valvola (accadde nel 1979 nella centrale di Three Mile Island in Pennsylvania), o un incendio come accaduto in Russia lo scorso anno, oppure per un terremoto, il sistema di raffreddamento va fuori uso, il calore che non si riesce più a disperdere provoca un surriscaldamento del combustibile presente nel nucleo del reattore. A questo punto se i sistemi di emergenza vanno in tilt, per esempio perché l’energia elettrica viene a mancare in maniera prolungata e le pompe non possono più immettere i milioni di metri cubi di acqua che giornalmente vengono utilizzati per il raffreddamento, si innesca un processo di surriscaldamento inarrestabile che può arrivare alla fusione del metallo di rivestimento delle barre, lo zirconio. Questo metallo liquefatto insieme al materiale fissile precipita nel vaso di contenimento dove la presenza di acqua di raffreddamento genera vapore e idrogeno a forte pressione che può dare luogo ad esplosioni con rilascio di forti emissioni radioattive nell’atmosfera, come avvenne a Cernobyl. Per evitarle non c’è altro modo che rilasciare gradualmente questo gas radioattivo nell’ambiente.

Ma non basterebbe spegnere per tempo il reattore?
Sulla stampa spesso si usa questa espressione del tutto impropria. In realtà un reattore nucleare non può essere mai spento. Diciamo che viene “addormentato”. Si introducono delle barre di contenimento che servono a rallentare il processo di fissione. Ma senza refrigerazione il surriscaldamento non si ferma e le barre si squagliano.

Si rischia questo perché di Fukushima è una centrale vecchia, di seconda generazione?
Anche le centrali di terza generazione che dovrebbero essere costruite in Italia non sono concepite per fare fronte ad eventi catastrofici di questa portata.

 I sostenitori del nucleare obiettano che lo tzunami non ha danneggiato solo le centrali nucleari ma ha abbattuto anche dighe provocando morti e danni ingenti.
 E’ vero, ma la rottura di una diga produce devastazioni immediate. La contaminazione nucleare è di lunga durata, oltre ad essere irreparabile per la salute umana, può traversare confini e continenti, inquinare il mare, la fauna.

Link
Mario Tozzi: “Il nucleare costa troppo e non offre sicurezza”

Mario Tozzi, «Il nucleare costa troppo e non offre sicurezza»

«L’unico vantaggio che il nucleare produce sono i profitti che porta alle banche d’affari ed ai gruppi industriali che si accaparrano gli appalti», parla Mario Tozzi, geologo e conduttore di Gaia

Paolo Persichetti
Liberazione 13 marzo 2011


Sollevare dubbi sulla reale efficacia di un ritorno del nucleare in Italia, di fronte alla conseguenze disastrose provocate dal maremoto che ha colpito il Nord-est del Giappone, sarebbe solo un «alibi», un espediente per bloccare tutto. Lo hanno detto con una rapidità spericolata alcuni politici come Fabrizio Cicchitto e Pier Ferdinando Casini. Come se l’esplosione che si è verificata il giorno dopo nella centrale nucleare di Fukushima, causando la distruzione della gabbia del reattore centrale e il crollo di uno degli edifici della struttura, non sarebbe una buona ragione per invocare cautela e richiamare almeno il principio di precauzione. La realtà è che ampi pezzi del ceto politico sono ormai integrati alla lobby nuclearista. «Non c’è al mondo commessa più grande della costruzione di una centrale nucleare», ci spiega al telefono Mario Tozzi, geologo e conduttore di “Gaia, il pianeta che vive”, programma televisivo molto apprezzato dal pubblico che tornerà su Rai3 a partire dal 31 marzo. «L’unico vantaggio che il nucleare produce sono i profitti che porta alle banche d’affari ed ai gruppi industriali che si accaparrano gli appalti», e alle clientele politiche, aggiungiamo noi.
Oscar Giannino è stato il più avventato di tutti. Questo grande ciarlatano del capitale, senza nemmeno attendere gli sviluppi della situazione, ha messo giù un editoriale sul Messaggero che è un manifesto del nucleare a tutti i costi, anche a rischio di catastrofe. Ha sostenuto che non era successo nulla, giusto qualche crepa sui muri, un po’ di calcinaccio, qualche nuvoletta di vapore. Robetta, insomma. «Il nucleare è davvero sicuro, questo terremoto lo ha dimostrato». Peccato che poi sia venuto giù tutto. «Davvero una figura misera», sottolinea Tozzi. «La riprova del fatto che gli intellettuali italiani non sanno di cosa parlano. Ogni riga di quell’articolo è da matita blu». Per Giannino, anche se le centrali hanno un costo proibitivo, «si tratta di soldi ben spesi» perché i costi garantiscono standard elevati di sicurezza. «Non è vero», risponde Tozzi. «Nel costo finale del nucleare si dimentica sempre di conteggiare le “esternalità”. In realtà non sapremo mai quanto ci verrà a costare una centrale perché in caso di incidente sarà l’intera collettività a pagare. Esiste un costo supplementare di cui non si tiene mai conto. E’ il dilemma dei combustibili geologici. L’uranio, come il petrolio, pongono lo stesso tipo di problema. La verità è che le centrali nucleari sono ancora più care di quel che già appare. Il costo finale per kilowattora è molto più caro di quello generato da altre fonti». E la sicurezza finale non è affatto garantita, le centrali nucleari infatti vengono progettate sulla base di un «rischio sismico atteso». In Giappone – precisa sempre Tozzi – «i siti nucleari sono stati costruiti per sopportare terremoti di 8,5 gradi Richter. Poi è arrivato l’imprevisto, un sisma di 8,9 e le strutture non hanno retto». E in Italia? «Da noi, le centrali saranno costruite per resistere a scosse di 7,2 gradi. Ma chi ci assicura che basterà?». Già, chi ce lo assicura? Il problema è che il rischio atteso è un po’ come la mappatura delle zone sismiche. Viene stabilito a posteriori. «Si fonda – continua sempre il nostro conduttore con la piccozza – sulle osservazioni dei terremoti registrati in passato. Si tratta della misurazione dell’energia sismica media che si è sviluppata nel tempo. Ma se ci aspetta un improvviso aumento di scala questo lo sapremo solo a scossa avvenuta. Non prima».
Intanto dal Giappone giungono notizie che sfatano il mito della sicurezza totale, «la macchina danneggiata era alquanto vecchiotta, essendo divenuta critica per la prima volta nel 1971, e i criteri di sicurezza in base ai quali era stata realizzata ormai decisamente obsoleti». Lo sostiene l’ingegnere Giorgio Prinzi, segretario del Cirn, che aggiunge sulla basse delle prime frammentarie notizie: «sembra che alla stessa centrale diesel fossero asservite più unità, in contrasto con una delle regole di sicurezza che prevede la ridondanza e la duplicazione dei sistemi critici». Pinzi ricorda come i rischi non vengano solo dal nucleare, «sempre nella zona di Fukushima il sisma ha causato il crollo di una diga, ma la notizia è quasi passata sotto silenzio, perchè l’attenzione è focalizzata solo sulle installazioni nucleari».

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Fukushima, il livello di radioattività del reattore 2 è 10 milioni di volte superiore alla norma

In mano ai petrolieri l’Abruzzo si ribella

In pericolo il lago di Bomba. Accanto alla più grande diga in terra battuta d’Europa, in una zona a forte rischio idrogeologico e sismico, la Forest oil progetta la costruzione di pozzi d’estrazione di gas metano e di una raffineria. A rischio la salute degli abitanti del posto, effetti devastanti per l’ambiente, l’agricoltura e il turismo

Paolo Persichetti
Liberazione 28 maggio 2010

Foto Valentina Perniciaro

Norther petroleum, Petroceltic, Puma petroleum, Medoil & gas, Forest oil. Non siamo oltre Oceano come i nomi di queste grandi corporation degli idrocarburi potrebbero far credere. Ci troviamo nel verde dell’Abruzzo, ai piedi della Majella, tra parchi nazionali, aree protette, siti d’interesse naturalistico e comunitario, boschi e vigneti di pregiato Montepulciano, ulivi secolari, greggi di pecore e aziende che fabbricano pasta, formaggi, prosciutti, fino al mare dove sorge la costa dei Trabocchi amata da D’Annunzio. Un’oasi di verde e natura sottratta ancora alla grande speculazione turistica ma non a quella del petrolio. A causa anche dell’acquiescenza delle diverse maggioranze passate in regione negli ultimi anni, quasi la metà del territorio abruzzese è finito nelle mani delle grandi multinazionali degli idrocarburi. Senza saperlo il 90% della popolazione vive all’interno di un distretto petrolifero. 221 sono i comuni fino ad ora coinvolti, concentrati nella provincia di Chieti (77%), Pescara (71%) e Teramo (67,5%), secondo quanto riporta una relazione diffusa dal  Wwf e da Legambiente. Alla fine del 2007 erano stati perforati 722 pozzi: 383 per produzioni a terra e 87 attivi in mare, ai quali tra breve se ne aggiungeranno altri 15. Più del Pecorino questa terra evoca ormai la Groviera. Una gigantesca piattaforma petrolifera della compagnia inglese Medoil è prevista a soli 4 km dalla costa teatina, tra San Vito e Ortona (nel Nord Europa il limite è di 50 km e negli Usa di 160 km, con i risultati comunque disastrosi che abbiamo visto recentemente nel golfo del Messico). Ad Ortona per costruire il “Centro oli”, che non è un mega frantoio di olio extra vergine d’oliva ma un polo petrolchimico che raffina e stocca petrolio di bassa qualità da cui si ricaverà solo olio combustibile e non benzine, sono state tagliate le viti del Montepulciamo doc. Tutto questo avverrà in cambio di niente. Le corporation non portano lavoro, hanno i loro tecnici super specializzati che vengono da fuori mentre gli impianti sono automatizzati. Le royalties previste sono ridicole, appena il 10% su terra e solo il 4% in mare, mentre all’estero arrivano fino al 90%. La Libia prende l’85%, il Kazakistan il 90%, la Russia l’80%. Per dire no a questo scempio del territorio che porta solo devastazione ambientale e rischi per la salute, i cittadini abruzzesi, che hanno già raccolto 30 mila firme, si sono dati appuntamento domenica 30 maggio a Lanciano per tenere una manifestazione sotto l’egida del comitato “No petrolio”.
Il governo in questa partita sta giocando sporco. Silvio Berlusconi è venuto meno ai suoi impegni pubblici presi a Chieti e Pescara durante l’ultima campagna elettorale, quando aveva dichiarato che in Abruzzo non ci sarebbero state estrazioni di petrolio. Ma una volta incassati i voti il suo esecutivo ha impugnato di fronte alla Corte costituzionale la legge regionale 32/2009 varata dal suo stesso candidato, Chiodi. La legge tutela il territorio e la costa da perforazioni ed estrazioni selvagge d’idrocarburi liquidi. Una normativa virtuosa che però contiene una falla gigantesca. Permette, infatti, l’estrazione d’idrocarburi gassosi. Un difetto che se non verrà corretto al più presto consentirà il pompaggio di gas metano sotto il lago artificiale di Bomba e la costruzione a ridosso della diga in terra più grande d’Europa di una raffineria con una ciminiera alta più di 40 metri. Estrarre e raffinare gas altamente infiammabile a ridosso di una diga che trattiene 60 milioni di metri cubi d’acqua, in un’area ritenuta ad alto rischio idrogeologico e sismico con smottamenti e frane continue, per giunta  in un paesino di nome Bomba, lascerebbe spazio a timori in chiunque. Non alla Forest Cmi spa, filiale italiana della Forest oil con sede a Denver nel Colorado, titolare della concessione ottenuta nel segreto più assoluto nel 2004. Diverso l’avviso dell’Agip, concessionaria dei terreni, che già negli anni 60 abbandonò ogni progetto dopo la tragedia del Vajont, quando un blocco di montagna franò nel bacino idroelettrico provocando un’onda anomala che oltrepassò la diga e travolse a valle il paese di Longarone. Duemila morti in un mare di fango e detriti, molti mai ritrovati. Nel 1992 la decisione di chiudere finalmente i pozzi per la presenza di un dissesto geologico in progressivo peggioramento. La spalla destra della diga – riferiva il rapporto – poggia su una «frana di notevoli proporzioni» oltre alla presenza di «non trascurabili rischi di carattere sociale e ambientale», per concludere: «Sembra che ancora oggi non esistano le condizioni generali per la messa in coltivazione del giacimento Bomba e che necessita invece l’acquisizione di nuovi dati e/o il verificarsi di mutamenti delle condizioni, quale per esempio la decisione dell’Acea di svuotare il lago». Poiché il metano si trova in prevalenza sotto l’invaso artificiale, l’estrazione provocherebbe quella che i geologi chiamano “subsidenza”, ovvero un abbassamento del terreno con rischio di frane e danni sulla diga. A Ravenna l’estrazione di metano ha prodotto un abbassamento del terreno di 3 metri. Le nuove condizioni richieste dall’Agip non sono mai intervenute ma alla Forest non interessa. La multinazionale statunitense trova comunque conveniente trivellare e raffinare, nonostante l’esiguità del giacimento (appena una settimana del fabbisogno nazionale), perché il costo commerciale del gas in Italia è più elevato degli Usa e permette facilmente di ammortizzare le spese. Inoltre la legislazione italiana, carente in materia di sicurezza, pone vincoli di tutela ambientali e della salute umana molto più bassi di quella statunitense. Morale, la Forest viene ad arricchirsi in Italia avvelenando i cittadini abruzzesi perché non può farlo negli Usa.
I cittadini di Bomba, mille abitanti a 400 metri di altitudine, hanno saputo del progetto soltanto nel 2009, quando la Forest ha pensato bene d’informare la popolazione che un’enorme raffineria doveva nascere appena fuori il paese (apertura prevista degli impianti nel 2012). Forse era il caso, visto che il paese perderà il suo bel panorama sul lago, dove nel 2008 si sono tenuti i giochi del Mediterraneo di canottaggio ed a settembre sono previsti i campionati italiani. Terminato il turismo. Non ci sarà più nemmeno l’aria buona perché – come spiega la professoressa Maria Rita D’Orsogna nei suoi documentati lavori di controinchiesta (http://www.dorsogna.blogspot.com/) – l’idrogeno solforato, residuo rilasciato nell’aria dalla raffinazione indispensabile per ripulire il gas, è una sostanza letale per l’ambiente, estremamente infiammabile, esplosiva, tossica e dallo sgradevole odore di uova marce. L’organizzazione mondiale della sanità raccomanda di non superare 0,005 parti per milione (ppm), mentre in Italia il limite massimo previsto dalla legge per questa sostanza è pari a 30 ppm: ben 600 volte di più. Si vedranno lingue di fuoco e le orecchie saranno allietate dall’assordante rumore di fondo generato dagli impianti di estrazione e raffinazione. Finiti gli ulivi e le vigne, azzerata l’economia eno-gastronomica della zona. Niente più voli d’aquile a sorvolare la valle. La Forest ha pensato di risarcire la comunità promettendo qualche euro in meno sulla bolletta e compensi ridicoli per il comune, intorno alle 100 mila euro l’anno. Appena 42 mila per gli altri comuni interessati, ma i sindaci di Pennadomo, Roccascalegna, Torricella Peligna, Archi, Colledimezzo, Atessa e Villa santa Maria hanno subito detto no al progetto. L’8 maggio anche la giunta comunale di Bomba, dopo le iniziali titubanze, si è detta contraria. I cittadini di Bomba si sono mobilitati dando vita ad un comitato, “Gestione partecipata del territorio” (www.gestionepartecipataterritorio.it). Il loro primo obiettivo è stato quello di informare e sensibilizzare la popolazione dell’intera zona, completamente all’oscuro dei fatti e delle loro conseguenze. Poi hanno deciso di espletare tutti i ricorsi legali possibili prima di prendere altre iniziative. Una petizione contro il progetto ha già raccolto in poco tempo oltre 2 mila firme. Domenica saranno anche loro in piazza.

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