1975, dopo un secolo arriva il nuovo diritto di famiglia

Dopo il referendum del 1974 che confermò la legge sul divorzio, osteggiato dalla Dc e dal Msi, arrivò anche il nuovo diritto famigliare che migliorò la vita di milioni di donne ed eliminò la discriminazione nei confronti dei bambini nati fuori dal matrimonio. A questo salto di civiltà, oggi patrimonio comune, si oppose ferocemente la destra, la stessa che oggi governa questo paese. Una destra che si è emancipata malgrado se stessa, grazie ad una legislazione sui diritti che aveva sempre osteggiato. Bisogna ricordarsene soprattutto oggi che altre forme di relazioni tra persone si sono affermate, dando vita a famiglie omoparentali che nuovamente la destra osteggia in nome di una visione della famiglia che pochi decenni prima combatteva. La famiglia «naturale» di cui la destra favoleggia oggi altro non è che la famiglia nata con la legge del 1975.

Il 19 maggio 1975 il parlamento approva il nuovo diritto di famiglia, una legge che ha cambiato profondamente la vita delle donne italiane e quella delle bambine e dei bambini nati da rapporti extraconiugali, considerati per questo illegittimi. Nuovi figli di coppie separate che non potevano essere riconosciuti o peggio figli della «colpa», nati da un adulterio, celati, nascosti, marchiati. Kant in una pagina della Metafisica dei costumi, dove affronta il regime giuridico della famiglia, del matrimonio e della donna, scrive pagine terribili sui figli nati da adulterio, paragonati a merce avariata che subdolamente si infiltra nella società corrompendola. Un male da tenere fuori della vita civile e giuridica. Dei minus habens, semplicemente «bastardi» nel linguaggio popolare e le loro madri delle poco di buono. Quello che oggi nelle grandi metropoli occidentali viene vissuto come un segno distintivo di emancipazione, la famiglia monoparentale, fino a pochi decenni fa era uno stigma sociale che segnava profondamente la vita delle «ragazze madri», giovani donne senza compagno, abbandonate o che avevano allacciato rapporti con uomini sposati. Guardate con disapprovazione, poste sotto tutela, rischiavano di perdere i figli da un momento all’altro, sottratti e rinchiusi in istituti dove si allevavano neonati illegittimi o abbandonati, i brefotrofi. Chi scrive è stato uno di quei bambini «illegittimi» divenuti improvvisamente «naturali» col nuovo diritto di famiglia. Avevo 13 anni e la definizione «naturale» per molto tempo ancora ha suscitato in me un certo divertimento, l’illegittimo infatti sembrava d’improvviso divenuto più genuino e vero del figlio regolare anche se la nuova legge, che assicurava «ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale», non eliminava tutte le differenze.
La riforma giungeva al termine dopo un iter molto travagliato lungo nove anni. Un contributo notevole al suo compimento era venuto del referendum dell’anno precedente che aveva confermato la legge sul divorzio. La sconfitta delle istanze reazionarie del fronte «clerico-fascista», come veniva definito all’epoca, aveva liberato energie trasformatrici. La rivoluzione entrava in famiglia, spariva la plurimillenaria figura del pater familias tramandata dal diritto romano, un arcano giuridico del patriarcato. Venivano modificati gli articoli del codice civile del 1942, adeguandoli al dettato costituzionale, in particolare all’articolo 29 secondo il quale «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». La moglie non seguiva più la condizione civile del marito, assumendone il cognome con l’obbligo di accompagnarlo ovunque questi crede opportuno di fissare la sua residenza», come recitava l’art. 144 del codice civile e non perdeva più la cittadinanza se sposava uno straniero.
Vale la pena sottolineare, perché la memoria non è mai neutra, che a questo salto di civiltà, oggi patrimonio comune, si oppose ferocemente la destra, la stessa che oggi governa questo paese. Una destra che si è emancipata malgrado se stessa, grazie ad una legislazione sui diritti che aveva sempre osteggiato. Bisogna ricordarsene soprattutto oggi che altre forme di relazioni tra persone si sono affermate, dando vita a famiglie omoparentali che nuovamente la destra osteggia in nome di una visione della famiglia che pochi decenni prima combatteva. La famiglia «naturale» di cui la destra favoleggia oggi altro non è che la famiglia nata con la legge del 1975.

Sono profonde le radici del «ghetto», Franco Basaglia commenta il film «Matti da slegare»

Archivi – Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare.

Il 13 maggio 1978 il parlamento italiano aboliva i manicomi psichiatrici. Primo paese al mondo a prendere una decisione del genere. La legge 180 arrivò dopo un complesso dibattito culturale e parlamentare dove il movimento antipsichiatrico era cresciuto intrecciandosi con le rivendicazioni degli altri movimenti sociali animati da forti spinte innovatrici e liberatrici. La decisione fu accelerata dall’incombere del referendum promosso dal partito radicale e venne integrata nel dicembre successivo all’interno della legge che istituiva il sistema sanitario nazionale. Conosciuta anche come legge Basaglia dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, nonostante questi fosse contrario alla presenza del trattamento sanitario obbligatorio previsto dalla nuova normativa, è forse l’istituto più rivoluzionario varato nella storia della repubblica italiana per la portata concreta che ebbe sulla realtà del Paese e il significato gravido di potenza simbolica che conteneva.
Gli asili psichiatrici erano dei veri e propri lager, luoghi di sofferenza, emarginazione, violenza, torture, sevizie, come avevano testimoniato nel 1969 Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin nella loro inchiesta fotografica, Morire di classe. La condizione manicomiale. Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare. Forse non è un caso se a metà di quel decennio, il 1975, si raggiunge in Italia il più basso numero di detenuti rinchiusi nelle prigioni. Basaglia aveva già sperimentato con alcuni anni di anticipo, prima a Gorizia e poi a Trieste, la chiusura degli asili manicomiali. I reparti erano stati aperti, ai pazienti erano stati restituiti i loro diritti fondamentali, le rigide divisioni di genere abolite (portando i pazienti a vivere in intimità). L’ospedale diviso in settori (corrispondenti a diverse zone della città e provincia), soprattutto furono create delle cooperative per consentire ai pazienti di vivere una vita autonoma, di costruire la propria indipendenza e socialità. All’abolizione del manicomio dovevano subentrare delle vere e proprie comunità terapeutiche. Con il raffreddamento delle spinte di cambiamento, la riproposizione dei vecchi modelli di società disciplinare, anche la legge 180 ha subito un freno, soprattutto il carcere ha ripreso il posto dei vecchi asili psichiatrici. Nonostante ciò, l’antipsichiatria è stato il movimento che più di ogni altro è riuscito a incrinare i dispositivi di stigmatizzazione sociale, lasciando dietro di sé una eredità feconda su cui è potuta crescere la cultura della inclusività, la rivendicazione delle differenze, quel diritto di vivere ognuno a modo suo che ha animato i movimenti di liberazione delle donne, omosessuali, lgbt, queer, disabili e oggi la cultura della intersezionalità.

«Matti da slegare»
Sono profonde le radici del «ghetto»
Franco Basaglia
L’Unità 26 giugno 1977
Pagina 3

Sabato scorso è apparso e ieri sera si è concluso alla Televisione italiana il documentario che Bellocchio, Agosti Petraglia e Rulli hanno realizzato raccontando una esperienza che si è maturata alla fine degli anni ’60 nel campo dell’assistenza psichiatrica in provincia di Parma.
«Matti da slegare – Tutti o Nessuno» è il documento nel quale si riconoscono quegli operatori che in Italia, negli ultimi 15 anni, sulla spinta delle grandi lotte operaie e studentesche hanno lavorato per «aprire» le arcaiche strutture psichiatriche.
Il film va ben oltre le vicende personali che narra. In un medesimo atto di denuncia vengono coinvolti, nelle loro reciproche connessioni, da un lato lo spazio concreto dell’internamento del malato di mente – come nella puntata che abbiamo visto ieri – dall’altro la funzione di un sapere astratto, ritagliato nella teoria medica, intimamente dissociato, fin dalle sue origini, quanto alle sue finalità non mediche.
La dissociazione profonda, costitutiva della psichiatria, eroicamente risospinta verso riaggiustamenti interni delle «istituzioni» o del «sapere» non è viceversa spiegabile se non si coinvolge nell’analisi e nella denuncia la società, sia come organizzazione, sia come norma e valori dominanti, sia come società divisa in classi.
Limitarsi ad umanizzare la condizione di chi soffre con la creazione di luoghi «alternativi» e «comunitari», ma pur sempre appartati, dove trascorrere il tempo, breve o indefinito, della propria rottura con la norma, non muta la qualità della risposte se si accettano le finalità di una organizzazione «sociale» che tende ad espellere da sé la sofferenza separando i suoi portatori fra le mura di una istituzione.
Al contrario occorre tendere alla distruzione di questi luoghi dove miseria e sofferenza si occultano e si confondono reciprocamente, omologando dentro un mondo di marginali l’identità ed i bisogni di ciascuno.
Alle contraddizioni di una sofferenza che si mostra, nel suo ambiente, irriducibile, si risponde col servizio: quale che sia il destino della domanda, quale che sia la normalizzazione ottenuta o la soddisfazione del bisogno o la possibilità stessa di esprimerlo, il rapporto col servizio realizza l’omologazione necessaria affinché il conflitto apertosi non resti senza norma, non resti «fuori», «altro», polo critico ed illegale, pericoloso, spazio non controllabile.

Una doppia resistenza
Questa nuova totalizzazione, apparentemente opposta a quella asilare in quanto diffusa, destigmatizzante, pulita quanto l’altra appariva concentrata, definitoria, violenta, ha il vantaggio così di poter estendere il controllo medico-istituzionale ad aree di conflitto molto più larghe.
Il lavoro di questi anni è partito da questa consapevolezza.
Non si aveva di fronte solo una fortezza da attaccare, il manicomio, ma una «istituzione diffusa» modellata sulla sua logica, assai più duttile della rigida struttura asilare, capace di diffondersi, trasformarsi e riciclarsi.
Si è trattato dunque di innescare un processo del tutto nuovo, in cui gli ostacoli, affrontati giorno per giorno, non concernevano più solo le resistenze – istituzionali del dentro, ma, insieme a queste, incrociate e sovrapposte, le resistenze del «fuori», cioè della organizzazione sociale generale.
L’esperienza si è dislocata così su piani molto più complessi, per i quali si sono dovute inventare strategie «assistenziali» capaci di mediare contemporaneamente più fronti di intervento.
Obiettivo prioritario diventava la ricostituzione della singolarità della persona: sottrarla definitivamente al rapporto di tutela e riportarla, attraverso un percorso a ritroso, nel circuito degli scambi sociali.
Il processo tendenziale, così enunciato può suonare ancora una volta equivoco, dacché la psichiatria europea, da molti anni a questa parte, ha declamato proclami del genere, di reinserimento nel sociale, attraverso il riapprendimento delle regole; mettendo in atto per far questo nuovi codici e nuove terapeutiche.
La differenza che ci separa è lo spessore delle mura manicomiali.
Non si è trattato per noi di liberare la istituzione per riconvertirla ad un nuovo progetto «interno», costellandola, allo «esterno», di nuovi servizi assistenziali, selettivi di una nuova utenza, bensì di creare una nuova organizzazione transitoria capace di adeguarsi allo scopo che ritenevamo – essenziale: spezzare tutte le norme che regolamentavano la dipendenza dell’internato, ricostruire concretamente la sua identità di persona giuridica; porre le basi irreversibili del suo essere dentro il corpo sociale.
In altre parole sostituire al rapporto di «tutela» un rapporto di «contratto».
In nessun momento abbiamo nutrito l’illusione di trasformare lo spazio dell’internamento in uno spazio «clinico» o «multidisciplinare», per la consapevolezza profonda di due ordini di problemi: da un lato la «malattia» si costituisce nel sociale come processi di sanzioni, di restrizioni, di scambi, di resistenze accumulate – che rafforzano il «germe»; dall’altro l’Ospedale Psichiatrico non è mai stato altro che la sanzione definitiva della esistenza del «contagio», il luogo che con la sua esistenza, determinava ed organizzava la presenza minacciosa dei germi e l’inevitabilità, a certe condizioni, di andarveli a depositare.
Assumere il manicomio in tutta la sua consistenza di focolaio di infezione significa trovare una coerenza in facce opposte di una stessa realtà: comunità terapeutiche, manicomi, servizi territoriali, ospedali giudiziari si intrecciano costantemente capaci di convivere grazie, non solo all’inerzia del sistema, ma alla logica di un piano che non rischia su spazi vuoti di controllo.
La denuncia di Terzian sul racket italo-argentino della lobotomia, la condanna del direttore dell’ospedale giudiziario di Aversa, le difficoltà quotidiane a rompere la reazione a catena della psichiatrizzazione rappresentano in modo chiaro le contraddizioni in cui si muove la situazione italiana.
Da un lato la capacità di lotta espressa in questi anni dal movimento operaio e delle dorme sui temi della salute e della medicina, dall’altro la rigidezza e l’inerzia di una classe dirigente che resiste al cambio, sono fattori che acuiscono la durezza dello scontro in atto e la impotenza dei programmatori.
[…]

In ricordo del compagno Franco De Martis

E’ morto Franco De Martis, conosciuto da tutti come “Franchino”, compagno storico del quartiere romano dell’Alberone, ma anche fuggiasco a Parigi come ha rammentato in queste stesse ore Oreste Scalzone (leggi più avanti). Lo salutiamo col le parole che ha scritto per lui Sandro Padula e con una scheda ricordo diffusa da amici e compagni

Non solo per i rigurgiti razzisti e sessisti in diversi paesi, per la diffusione globale del Covid 19, per l’idiozia dei sostenitori del neoliberismo che non accennano a riconoscere il proprio fallimento storico e per la totale ignoranza dell’attuale Biopotere che invece di parlare del necessario distanziamento fisico benedice il “distanziamento sociale”, cosa di per sé antitetica a quell’animale sociale e cooperativo chiamato uomo, il 2020 è un anno a dir poco inumano, infame, infausto, infelice.
Quest’anno, uno dopo l’altro e con ritmo impressionante, se ne stanno andando via diversi fra i migliori compagni di lotta dell’Italia degli anni Settanta e che, per buona fortuna o per semplici coincidenze, ebbi l’opportunità di conoscere direttamente.
Il primo è stato Enrico Villimburgo, morto suicida in Francia per non finire nelle carceri Anni settantaitaliane. Il secondo Luigi Novelli e il terzo Salvatore Ricciardi.
Il quarto in ordine di tempo, morto di cancro dopo una terribile agonia in ospedale, è Franco De Martis che nei primi anni Settanta aveva conosciuto sia Novelli che Ricciardi, oltre a centinaia di altri militanti della compagneria extraparlamentare romana.
Lui compagno lo è stato sin dai quattordici anni quando leggeva “Eros e civiltà” e “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse, “Il Muro” di Jean Paul Sartre, “La psicologia di massa del fascismo” di Wilhelm Reich o allorché andava alle feste proletarie con i coetanei e fissava negli occhi le ragazze di cui s’innamorava.
Lo è stato quando, dopo la strage di Stato del 12 dicembre 1969 nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, lottava per la liberazione di Valpreda, Gargamelli, Borghese e altri compagni anarchici ingiustamente accusati di quel gravissimo crimine.
Lo è stato quando, nella zona sud di Roma, organizzava la resistenza contro le provocazioni dei neofascisti, ad esempio davanti all’ingresso del liceo classico Augusto o di fronte a quello del liceo scientifico XXIII.
Lo è stato quando, assieme ai compagni studenti e ai lavoratori dei trasporti della Stefer del deposito di via Appia, metteva in fuga i neofascisti che frequentavano la sede del Movimento Sociale Italiano di via Noto.
Lo è stato quando visse prima un’esperienza con la Federazione Comunista Libertaria e poi un’altra nella più vasta area dell’Autonomia Operaia Organizzata.
Lo è stato quando partecipava alle lotte per la casa e per l’autoriduzione delle bollette della luce e a tutte le manifestazioni di internazionalismo proletario e rivoluzionario.
Lo è stato quando, nei cortei del 1977, mentre a livello politico dominavano la Democrazia Cristiana, la formula governativa della “solidarietà nazionale” e il “farsi Stato” del PCI, distribuiva gratis centinaia di opuscoli con la traduzione del “Piccolo manuale della guerriglia urbana”, un testo scritto nel 1969 dal rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella.
In seguito lo persi di vista. In un modo o nell’altro, con più o meno contraddizioni ma – da quanto seppi da svariate e comuni persone amiche – sempre in maniera onesta e dignitosa, attraversò gli anni 80 e 90. Poi, nei primi due decenni del XXI secolo, riprese fiato e si mise a disposizione delle nuove forme dell’antagonismo sociale e delle realtà autogestite.
Franco De Martis ci lascia perciò un’eredità speciale: il desiderio di costruire una comunità reale per meglio contrastare le ingiustizie, i mali e i dolori del presente. E in quel desiderio, così come per Enrico, Gigi e Salvatore, anche Franco vive. Vive e vivrà. Nel cuore della compagna Nuccia, di sua figlia e nel nostro.

Il ricordo di Oreste Scalzone
«Posso dire, che da subito mi apparvero, una trentacinquina d’anni fa quando li conobbi, di quelli/e che anarchia, comunismo, rivolta, solidarietà attiva, l’hanno vissuto e vivono ‘come si respira’. E che distinguo, più specifiche appartenenze, etichette pur fondate, semanticamente, teoricamente pertinenti e di cui loro erano edotti, tutto questo hanno posposto a una pratica di vita, un’apertura curiosa, una grandezza che con termini desueti si poteva chiamare ”generosa” ed altruistica (‘egoaltruistica’, certo, perché c’è anche il piacere del ‘rispetto di sé’, ‘amor sui’, su una linea di condotta fatta di tanti punti, sempre consistente su un piano d’immanenza, in ogni ‘qui-ora’ : una ‘filosofia pratica’, altrimenti detta «etica» nel senso di Spinoza e come lo spiega anche ”ai pargoli” Deleuze, con quell’espressione ”tentare di essere all’altezza di ciò che ci accade”, che ci accade intorno).
Franco&Nuccia, Nuccia&Franco – conosciuti nella loro stagione e condizione di fuggiaschi, ”profughi d’Italia alla ventura”, fuoriusciti, latitanti scampati alla muta di Stato che bracca, e rifugiatisi nel precario ”esilio” in Francia – erano già a Parigi forse prima di noi, certo già in quel tumultuoso (pieno di ‘tumulti anche dell’anima’) ‘novecent’ottantadue’. Abbracciarono subito la linea di condotta del ”tutt’e[cioè]ciasc’1”, ‘tout-un-chacun’, con quanto ne seguiva, e ne seguì.
Pagarono anche personalmente ”con gli interessi” il fatto che – ospiti nel senso, diciamo passivo, di ‘ospitati’, accolti – non potevano non essere a loro volta anche ospiti nel senso ‘attivo’, di ‘ospitanti’ : accoglienti, attivamente solidali.
Tante cose negli anni di Parigi…. A cominciare dalla conoscenza della ‘cerchia’, il rizòma di gente della loro pasta – valga per tutti, al solito, Gérard* ||…| ; dalle fedeltà profonde (ho nella retina la loro cura, delicata, nei confronti di Fernando Del Grosso* già vecchio, malato, infragilito come ora noi…) ; dalle aperture curiose ed empatiche. E le manifestazioni, gl’incontri, le assemblèe, i picchetti e i volantini… E l’ esperienza di Trilogos, scuola di lingua e cultura e lingue di genti di ”dove il ‘Sì’ suona”, con compagne e compagni di esperienze, provenienze e orizzonti diversi».

Una scheda ricordo diffusa dai suoi amici e compagni
La sera del 31 agosto è venuto meno all’affetto dei compagni e delle
compagne Franco De Martis, anarchico ed esponente dell’anima libertaria del Comitato di Quartiere dell’Alberone, struttura storica della quale fu tra i fondatori. Pur mantenendo il suo impegno nel Comitato di Quartiere fu presente nel Gruppo di Autogestione Proletaria nel quartiere di S. Lorenzo, aderente all’Organizzazione Anarchica Romana, fu poi fautore della Federazione Comunista Libertaria tra il 1973 e il 1975. Nella seconda metà degli anni settanta partecipò attivamente alle lotte nelle caserme con i MAO (Militari Autonomi Organizzati). Di lunga militanza antifascista, partecipò attivamente al movimento del ‘77 romano e alle lotte dei disoccupati e precari per il diritto al lavoro che condussero all’emanazione della legge 285. Nel 1982 Franco fu costretto insieme alla sua compagna all’esilio in Francia dove partecipò alla campagna per l’amnistia per i prigionieri politici italiani. Nel 1991, nel ventennale della formazione dell’OAR, insieme ad altri compagni libertari fondò il Circolo Michael Bakunin. Tra le iniziative del Circolo Bakunin ci fu la produzione del film documentario in lingua italiana Ecole Bonaventure, diversi convegni su personaggi storici come Giovanni Passannante, Camillo Berneri e Francisco y Guardia Ferrer e la fondazione della rivista Libertaria che fece da seguito alla chiusura della precedente rivista Volontà.
Un lungo percorso militante ispirato alla libertà e all’attenzione per la società e la sua organizzazione.
Saluteremo con affetto Franco giovedì 3 settembre dalle ore 11.45 alle ore 13.00 alla camera mortuaria dell’Ospedale S.Giovanni Addolorata in via di S. Stefano Rotondo 5 e in seguito sarà accompagnato per un saluto di tutte e tutti, amici, parenti e compagni presso il Laboratorio Sociale Centocelle (ex Casale Falchetti) in viale della Primavera 319b dalle ore 14.00 alle ore 16.00.
Sarà necessaria la massima attenzione alle norme di distanziamento sanitario e pertanto indossare la mascherina.
Le compagne e i compagni di Franco

Per salutare l’amico e compagno Franco De Martis
Giovedì 3 settembre dalle ore 11.45 alle 13 presso la camera mortuaria dell’ospedale San Giovanni Addolorata di Roma (via di Santo Stefano Rotondo 5); dalle ore 14 alle 16 presso il laboratorio sociale Centocelle (ex Casale Falchetti) in viale della Primavera 319 b.
Sarà ovviamente necessaria la massima attenzione alle norme di distanziamento fisico e l’uso della mascherina.
Mercoledì 16 settembre alle 17,30 verrà ricordato a Parigi nel cimitero Père Lachaîse, davanti al Muro dei Federati.

No tav, No muos, sindacati di base e centri sociali lanciano la campagna per l’amnistia sociale. Aderisci anche tu!

manifesto 20130721nazionale-1Ormai siamo all’emergenza. L’intensità e la capillarità degli attacchi repressivi e preventivi mossi contro il semplice dissenso sociale crescono ogni giorno di più. Tutto ciò avviene mentre al deficit di legittimazione delle rappresentanze istituzionali si aggiunge anche la loro desovranizzazione di fronte all’azione di organismi sovranazionali come la Troika o le agenzie di rating che programmano il “pilota automatico”. Quanto più gli esecutivi sono svuotati di poteri reali (i parlamenti fanno parte del decoro da tempo), tanto più si incrementano i margini di intolleranza dei governi e si riducono gli spazi di agibilità politica per chiunque è costretto a dover subire le conseguenze di drastiche politiche economiche e sociali supportate da minacciose politiche penali. Sì, perché a quanto pare l’unica materia sovrana rimasta nelle mani dei governi è lo strumento della penalità. Perseguo, giudico e condanno, ergo come Stato nazionale esisto ancora.
E’ chiaro che di fronte ad una situazione del genere ogni forma di azione collettiva dovrà misurarsi, volente o nolente, con questo tipo di problema. Lo sa bene persino uno come Beppe Grillo che fresco di un 25% di consensi elettorali, cioè 2/3 di quelli espressi, ha dovuto rinunciare ad un presidio davanti a Montecitorio, vivamente sconsigliato dai vertici del Viminale. Un disegno di legge depositato in parlamento mira a sanzionare pesantemente ogni forma di contestazione sonora di piazza. Quanto basta per capire qual è il clima.
Se si vuole tornare a far respirare la società bisogna allargare il più possibile le maglie che la contengono. Non c’è critica dell’attuale società capitalista che possa aver successo senza una contemporanea rimessa in discussione dell’apparato penale che la sostiene. Riassorbire la legislazione d’emergenza nella quale si annidano le tipologie di reato più insidiose, ma ancor di più la forma mentis che ispira l’azione della magistratura, ovvero l’idea che la materia sociale, l’azione collettiva, sia una questione di ordine pubblico se non di chiara eversione. Per farlo bisogna scardinare l’impalcatura giustizialista costruita negli ultimi decenni. Da qui l’esigenza, condivisa oggi, di aprire una vertenza per l’indulto e l’amnistia in favore dei reati politici, sociali e per sfollare le carceri.

Clicca qui per il testo del manifesto che lancia la campagna per l’amnistia sociale

Chi è su facebook la può trovare cliccando qui
Qui sotto le condivisioni pervenute fino al 16 agosto 2013

Adesioni collettive
ACAD, Associazione contro abusi in divisa onlus, Acoustic Impact, gruppo musicale, Action Diritti in Movimento, Assalti Frontali, gruppo musicale, Assemblea Aversana per l’Autonomia, Associazione Senzaconfine, Roma, Associazione Solidarietà Proletaria (ASP), Astroestella Senza Fini e… Confini, ATTAC Italia, Azione antifascista Teramo, Banda Bassotti, gruppo musicale, Banda Jorona, gruppo musicale Baracca Sound, Blocchi Precari Metropolitani Roma, Centro Donato Renna-Liguria, Centro sociale 28 maggio, Rovato (BS), Circolo Che Guevara PRC Roma, COBAS PT – CUB, Collettivo Militant Roma, Comitato 3e32 L’Aquila, Comitato Amici e Familiari Davide Rosci, Comitato Antirazzista, COBAS – Palermo, Comitato di Quartiere Torbellamonaca Roma, Comitato Pace di Robassomero (TO), Comitato Piazza Carlo Giuliani Genova, Communia, Spazio di mutuo soccorso Roma, Confederazione dei Comitati di Base (COBAS), Confederazione COBAS Perugia, Confederazione COBAS Pisa, Confederazione COBAS Terni, Confederazione Unitaria di Base (CUB) Piemonte, Consiglio Metropolitano di Roma, Coordinamento regionale dei Comitati NoMuos, Coordinamento Regionale USB Umbria, CPOA Rialzo Cosenza, CSA Depistaggio Benevento, CSA Germinal Cimarelli, Terni, CSA Jan Assen (ex Asilo politico) Salerno, CSOA Angelina Cartella Reggio Calabria, CSOA La Strada Roma, CUB Scuola Università Ricerca, Ex Colorificio Liberato/Progetto Rebeldia Pisa, Fuori binario-giornale di Strada dei Senza Dimora di Firenze, Ginko (Villa Ada Posse) & Shanty Band gruppo musicale, ISM – Italia, Ital Noiz Dub System, gruppo musicale, L@p Asilo 31- Laboratorio per l’Autorganizzazione Popolare Asilo 31 Benevento, Lavoratori Autorganizzati Ministero dell’Economia e delle Finanze, Legal Team Italia, Liberi dall’ergastolo, LOA Acrobax, Roma, Madri per Roma città aperta, Movimento Disoccupati Autorganizzati, CSOA Ex Macello Acerra (NA), Movimento No Tav, Movimento No Tem, Occupazioni Precari Studenti OPS area Castelli romani, Officina Rebelde Castell’Umberto (ME), Oltremedia news, Osservatorio sulla repressione, P-Carc, PMLI, Radici nel cemento, gruppo musicale, Radio Maroon, gruppo musicale, RAT-Rete Antifascista Ternana, Redazione di Zeroviolenzadonne.it, Redgoldgreen, gruppo musicale, Rete Antirazzista Catanese, Rete Bresciana Antifascista, Rete 28 aprile Fiom-opposizione Cgil, Riscossa proletaria per il comunismo Torino, Romattiva.org, Senza calma di vento Perugia, Sindacato Lavoratori in Lotta (SLL), Spazio Popolare Occupato S. Ermete Pisa, Terradunione, gruppo musicale,Tribù Acustica, gruppo musicale, Unione Sindacale di Base (USB), USB Bergamo, Wu Ming – scrittori, 99 Posse gruppo musicale

Adesioni individuali
Agrippino Gervasio (archeologo Napoli), Alessandra Magrini (AttriceContro Roma), Alessandra Schia (studentessa Napoli), Alessandro Dal Lago (Università di Genova), Alessia Montuori (Roma), Alfredo Tradardi (coordinatore ISM-Italia), Alfonso Di Stefano Comitato di base NoMuos/NoSigonella (Ct), Alfonso Perrotta (Roma), Amedeo Ciaccheri (Consigliere Municipio VIII Roma), Andrea Bianco (impiegato Napoli), Andrea Bitonto, Andrea Di Frenna (Napoli), Angela Scicchitano Villa San Giovanni (RC), Anna Balderi Ladispoli (RM), Anna Giannattasio (insegnante, Napoli), Anna Maria Bruni (giornalista, Roma), Anna Maria Liggeri (educatrice, Milano), Antimo Padula Casandrino (NA), Antonino Campenni (ricercatore Università della Calabria), Antonio Esposito (Napoli), Antonio Gentile Torre del Greco (NA), Antonio Molino (Napoli), Antonio Musella (giornalista Napoli), Assia Petricelli, Barbara Breyhan (danzatrice Sesto Fiorentino (FI), Barbara Chiocca (ambulante Napoli), Beppe Corioni, Bianca «la Jorona» Giovannini musicista, Carlo Bachschmidt (consulente tecnico processi G8), Carlo Curti (Lugano Svizzera), Carlo Giampetraglia (Napoli), Carlo Pellegrino (medico chirurgo Roma), Carlo Tompetrini, Carlotta Pappalardo studentessa Castellammare di Stabia (NA), Carmelo Eramo (insegnante), Carmine Lettieri Acerra (NA), Caterina Calia (avvocato Roma), Caterina Elendu (Napoli), Cesare Antetomaso (Giuristi Democratici), Checchino Antonini (giornalista di Liberazione), Chiara Morello (educatore professionale), Cinzia Ponticiello insegnante S. 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Emanuele Di Giulio Cesare (operaio Napoli), Emanuele Fiore (studente Napoli), Emidia Papi (USB), Enrico Contenti (ISM-Italia), Enrico Di Cola, Enrico Triaca, Roma (torturato dallo Stato nel 1978 e condannato per calunnia alle “forze dell’ordine”), Ermanno Gallo, scrittore, cittadino, Erri De Luca (scrittore), Fabio Giovannini (scrittore e autore televisivo), Federica Limpani Frattamaggiore (NA), Federico Mariani (Roma), Federico Micali, Francesca Panarese (Benevento), Francesco Barilli (coordinatore reti-invisibili.net), Francesco Caruso (ricercatore Università della Calabria), Francesco De Angelis (artigiano Napoli), Francesco De Vita (Roma), Francesco Giordano (Milano), Francesco Romeo (avvocato Roma), Francesco Verrengia (studente Napoli), Franca Gareffa (Dipartimento sociologia Università della Calabria), Franco Coppoli (COBAS Terni), Franco Iachetta (anarchico), Franco Piperno (docente di Fisica Università della Calabria), Fulvia Alberti (regista), Gabriella Grasso (Milano), 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G8 Genova, Marina, Alberto e Gimmy siamo noi

Campagna per l’amnistia sociale

Luciano Muhlbauer
il manifesto, 20 giugno 2013
 
devastazione e saccheggio-1Con la sentenza definitiva su Bolzaneto si è concluso anche l’ultimo dei grandi processi simbolo sul G8 del 2001. Sarebbe dunque tempo di bilanci e di qualche ragionamento, ma in giro sembra esserci poca voglia di farlo. Anzi, paragonato al clamore mediatico che un anno fa aveva accompagnato la sentenza Diaz, quella su Bolzaneto è passata praticamente inosservata.
Nulla di sorprendente, in fondo, perché tutti sapevamo che quella sentenza non avrebbe aggiunto nulla di nuovo. E poi, sono passati parecchi anni, quel movimento non c’è più e i tempi sono cambiati. Tutto comprensibile, per carità, eppure c’è qualcosa che non quadra, che stona terribilmente.
Già, perché alla fine della fiera, dopo tante sentenze e l’accertamento di un numero impressionante di gravi reati contro la persona, gli unici che stanno in galera, peraltro con pene allucinanti fino a 14 anni, sono alcuni manifestanti di allora, presi a casaccio e colpevoli esclusivamente di aver danneggiato delle cose. Si chiamano Marina, Alberto e Gimmy.
Peraltro, il numero degli ex manifestanti carcerati potrebbe pure crescere, visto che i condannati in via definitiva per “devastazione e saccheggio” sono dieci. Degli altri, uno è ancora irreperibile, Ines è agli arresti domiciliari e per cinque è necessario un nuovo passaggio in appello, ma limitatamente a un singolo attenuante.
Penso che abbandonare quelle persone al loro destino sia inammissibile. Umanamente, moralmente e politicamente. L’esito complessivo dei processi genovesi, con la sua manifesta disparità di trattamento, è infatti destinato a fare da precedente, a rafforzare la sensazione di impunità tra il personale degli apparati di sicurezza e a legittimare l’uso di pene sproporzionate ed esemplari contro manifestanti.
Il reato di “devastazione e saccheggio”, risalente al periodo fascista, non è certo l’unico strumento giuridico a disposizione per fini repressivi, ma è senz’altro quello più estremo e discrezionale, poiché non ti punisce per quello che hai fatto, ma per averlo fatto in determinate circostanze. Ed è così che una bagatella, come una vetrina rotta, può trasformarsi in un reato paragonabile all’omicidio. Ebbene sì, perché la pena prevista per devastazione e saccheggio è tra 8 e 15 anni, mentre quella per omicidio preterintenzionale è tra 10 e 18 anni e quella per omicidio colposo non supera i 5 anni.
Quando giustamente ci indigniamo per la brutalità della repressione in Turchia, dovremmo ricordarci anche di questo, specie ora, visto che quel tipo di accusa viene utilizzato in maniera sempre più disinvolta, come sembrano indicare i processi per i fatti di Roma del 15 ottobre 2011.
L’altra faccia della medaglia, altrettanto grave, è l’impunità degli apparati repressivi. Nessuno pagherà per le violenze della Diaz e di Bolzaneto, mentre per l’omicidio di Carlo Giuliani non c’è stato nemmeno il processo. Beninteso, la questione non è invocare la galera per i poliziotti, ma comprendere che l’impunità genera mostri. Siamo sicuri che i casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Ferrulli eccetera non c’entrino con tutto questo? O che non c’entri il fatto che i reparti antisommossa italiani riescano a resistere al numero identificativo sul casco, quando persino i loro colleghi turchi ce l’hanno?
Insomma, qui non si tratta di dibattere sul passato, bensì di costruire ora e qui una battaglia politica per l’abrogazione del reato di “devastazione e saccheggio”, per l’introduzione di norme cogenti che pongano fine all’impunità, a partire da una legge sulla tortura, e per un’amnistia per i reati sociali, che possa restituire la libertà anche a Marina, Alberto e Gimmy.
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Devastazione e saccheggio, genealogia di un capo d’imputazione

E’ tempo di aprire una vertenza sull’amnistia a partire dai reati politici e sociali, magari prendendo a modello il progetto di amnistie sociale presentata dai senatori francesi del Pcf per annullare l’effetto dei processi, delle condanne (per reati fino a 10 anni) e delle sanzioni emesse contro sindacalisti, operai, manifestanti, attivisti antimmigrazione, che nell’ultimo decennio hanno partecipato alle lotte sociali e rivendicative, e poi votata anche se in forma emendata nel marzo scorso.
Il momento è maturo dopo la grazia concessa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al colonnello dell’Air Force Usa Joseph Romano, comandante della base Nato di Aviano, coinvolto con altri 22 esponenti della Cia e dei vertici del Sismi nel rapimento (definito “consegna straordinaria” nei protocolli segreti dell’ammnistrazione Bush) di Abu Omar, imam della moschea di via Quaranta a Milano.
La grazia d’ufficio concessa dal presidente della Repubblica rompe un tabù che inevitabilmente contraddice le posizioni ispirate alla fermezza precedentemente assunte dal Quirinale con la lettera inviata il 16 gennaio 2009 al presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva per sollecitare l’estradizione di Cesare Battisti.
Se forme di clemenza amnistiale si dimostrano possibili, anche per reati molto gravi come quello commesso dal colonnello Romano (complicità nel sequestro di una persona, successivamente torturata in modo bestiale, per altro risultata estranea ai sospetti sollevati nei suoi confronti), sulla base di logiche di opportunità che in questo caso sono state ispirate da ragioni diplomatiche nei rapporti tra Stati alleati, perché esse restino legittime devono rispettare il criterio giuridico dell’eguaglianza dei trattamenti di fronte alla legge.
Se clemenza deve essere, essa non può che avere un carattere generale e non selettivo.
Perché dei giovani che 12 anni fa sono stati coinvolti in scontri di piazza che hanno provocato solo danni materiali debbono scontare condanne che arrivano fino a 15 anni di reclusione e il complice del rapimento di una persona poi torturata, che non ha scontato nemmeno un secondo di prigione cautelare, può essere al contrario graziato?

Devastazione e saccheggio: l’emergenza Italia e l’Italia dell’emergenza

Dal blog di giuseppearagno.wordpress.com
6 aprile 2013

Probabilmente nessuno meglio di Crispi ha mai spiegato il rapporto organico tra dissenso e legalità nell’Italia dell’emergenza. Accusato di aver calpestato la legge, proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, l’ex mazziniano, passato dall’opposizione democratica ai monarchici e diventato più realista del re, nel marzo del 1894 non esitò a replicare: “Ai miei avversari, che mi hanno accusato di aver violato lo Statuto e le leggi dello Stato, potrei rispondere che di fronte allo Statuto c’è una legge eterna, quella che impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto”.
Un principio inequivocabile quanto eversivo, che non solo ispirava e ispira da sempre in Italia il legislatore sui temi dell’ordine pubblico e del conflitto sociale, ma dimostra come, a voler leggere la nostra storia dal punto di vista delle classi subalterne, il capitolo giustizia può essere illuminante.
A parte la Toscana, dove il codice locale rimase operante perché non consentiva la pena di morte, alla sua nascita il Regno d’Italia estese all’intero territorio nazionale il codice penale del Regno di Sardegna. Di lì a poco, nel 1862, all’alba della nostra storia, l’approvazione della legge Pica sul cosiddetto “brigantaggio”, descritta come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” ma prorogata più volte e tenuta in vita fino al 31 dicembre 1865, aprì l’eterna stagione delle leggi speciali nella gestione e nella regolamentazione del conflitto sociale: l’alibi della crisi, la normativa emergenziale, l’indeterminatezza e la strumentale confusione tra reato comune, meglio se confuso col malaffare organizzato, e manifestazione di dissenso politico. In archivio, a Napoli, è conservato un documento inedito che, in questo senso, è molto significativo. In una desolata riflessione scritta a matita nella cella d’un carcere, Luigi Felicò, un tipografo internazionalista che aveva sperimentato i rigori della repressione borbonica e parlava perciò con cognizione di causa, non aveva dubbi: la condizione del dissidente politico nell’Italia unita era diventata di gran lunga più dura.
Con grande ritardo – entrò in vigore il 1° gennaio del 1890 – il codice Zanardelli segnò l’effettiva unificazione legislativa dell’Italia nata dal Risorgimento. Per il giurista liberale, la legge penale non poteva essere in contrasto coi diritti dell’uomo e del cittadino e non si applicava al criminale per nascita inventato da Lombroso. La repressione, quindi, doveva abbinarsi alla correzione e all’educazione. Zanardelli abolì perciò la pena di morte, introdusse la libertà condizionale, adottò il principio rieducativo della sanzione e accrebbe la discrezionalità del giudice, consentendogli di adeguare la pena all’effettiva colpevolezza dell’imputato. Egli, tuttavia, non affrontò direttamente il tema della tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale; la spinosa materia finì così per essere affidata a un “Testo unico” di Polizia, cui il giurista assicurò però la copertura d’una base teorica e strumenti efficaci quanto pericolosi. Egli, infatti, non solo introdusse un nuovo reato – il vilipendio delle istituzioni costituzionali e legislative – ma previde anche l’incitamento all’odio di classe e l’apologia di reato, crimini applicati a «chiunque pubblicamente fa apologia di un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza della legge, ovvero incita all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La definizione volutamente vaga e indeterminata del reato consentiva a forza pubblica e magistrati di colpire agevolmente i movimenti sociali e la dissidenza politica ogni qualvolta lo sfruttamento capitalistico produceva dissenso e proteste.
Uno Stato deciso a non dare risposte positive al crescente malessere delle classi subalterne, poteva infine colpire agevolmente le nascenti organizzazioni dei lavoratori, criminalizzando il dissenso in virtù di norme vaghe, contenitori vuoti, pronti ad accogliere le “narrazioni” strumentali di forze dell’ordine che non distinguevano tra generico malcontento e pratica sovversiva. Indeterminatezza, crisi e natura emergenziale della regola – un’emergenza non di rado costruita ad arte e più spesso figlia legittima della reazione allo sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, opposta alla giustizia sociale grazie ad apparati normativi che consentivano di adattare gli strumenti repressivi alle necessità delle classi dominanti.
Giunto al potere, il fascismo inizialmente si limitò a rendere inattive molte delle norme introdotte da Zanardelli, ma nel 1930 varò il nuovo codice firmato da Alfredo Rocco e destinato a sopravvivere al regime. Con la nascita della repubblica, infatti, si pensò inizialmente di tornare a Zanardelli, poi, in nome di una perniciosa continuità dello Stato, si volle confermare quello fascista, certamente più autoritario, ma “tecnicamente” più moderno. Eliminate le sue disposizioni più liberticide, si andò avanti così, in attesa di un nuovo codice che non s’è mai scritto. Se oggi Cancellieri, guarda caso, “tecnico” come Rocco, può tornare al reato di “devastazione e saccheggio”, si capisce il perché: la repubblica antifascista ha confermato l’apparato normativo fascista. Il problema di fondo, tuttavia, non è solo nel codice. Ci sono, infatti, “caratteri permanenti”, che attraversano trasversalmente le età della nostra storia e riguardano la natura classista dello Stato nato dal cosiddetto Risorgimento, le logiche di potere che tutelano l’ordine costituito e il salvacondotto che storicamente consente e assolve a priori condotte che non sono “deviate”, come si vorrebbe far credere, ma generate dalla indeterminatezza di norme consapevolmente discrezionali e consapevolmente madri di gravi abusi. Un meccanismo che procede su due linee parallele e complementari, un filo rosso che non si spezza nemmeno quando mutano le fasi della vicenda storica, e impedisce cambiamenti radicali anche quando di passa dalla monarchia alla repubblica e dalla dittatura alla democrazia. Un filo rosso che non ha soluzione di continuità: liberale, fascista o repubblicana, sul terreno dell’ordine pubblico l’Italia ha una identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso indiscriminato, intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica; dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera a forze dell’ordine e magistratura. E’ una sorta di “stato di polizia invisibile”, di “Cile dormiente”, che il potere ridesta appena una contingenza economica negativa fa sì che per il capitale la mediazione e le regole della democrazia siano merci costose che non trova mercato. Su questo sfondo vanno inserite sia l’esplosione programmata di più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida nelle piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si inseriscono l’indifferenza complice verso la tortura, la morte per “polizia” e ogni più efferata violenza: l’innocente muratore Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Bresci sparito, Anteo Zamboni, linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini che consente il ripristino della pena di morte, e via via, fino ai nostri giorni, Cucchi, Aldovandi, Uva e i tanti morti di polizia.
Non si tratta di età della storia. Se a Napoli Crispi nel 1894, per sciogliere il partito socialista, fa affidamento sull’esperienza del prefetto per imbastire un processo che non lasci scampo – e il processo truccato va in porto –  la repubblica fa di peggio: cancella la verità col segreto di Stato. Sempre e in ogni tempo la vaghezza e la discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. A soggiorno obbligato in età liberale ti spedisce la polizia, il confino negli anni del fascismo è un provvedimento di polizia e alla discrezione delle forze dell’ordine sono affidati in piena repubblica il fermo, la decisione di sparare in piazza; il “Daspo” che la Cancellieri e Maroni, due ministri dell’Interno, vorrebbero estendere oggi ai manifestanti, è un provvedimento amministrativo. Quale sia il criterio vero che regola qui da noi il rapporto tra legalità, tribunali e dissenso è scritto in numeri che non riguardano solo l’età liberale o fascista, ma anche e soprattutto quella repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contarono da tre a sei manifestanti uccisi, nelle piazze italiane la polizia fece sessantacinque vittime. E non si chiuse lì: nove furono poi i morti nel 1960, due caddero ad Avola nel 1968 e via, senza soluzione di continuità. Nel 1968, quando una legge poté deciderlo, l’Italia scoprì che con la repubblica si erano avuti quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie che facevano invidia ai persecutori in camicia nera. E non era finita: di lì a poco, l’ennesima emergenza – il cosiddetto terrorismo – consentì la legge Reale, i morti dei quali la polizia di Stato non è stata mai chiamata a render conto e barbare leggi speciali che dovevano essere eccezionali e sono lì a dimostrare che qui da noi di eccezionale c’è stata probabilmente solo la parentesi democratica nata con la Resistenza.
Così stando le cose, non fa meraviglia se un’auto incendiata può costare a un ragazzo fino a otto anni di galera, mentre un poliziotto che uccide per strada un giovane inerme, si fa pochi mesi di prigione, esce, rimane in divisa e trova persino la vergognosa solidarietà dei colleghi. Pochi mesi sembrano infatti troppi a questi galantuomini che, dal loro punto di vista, hanno addirittura ragione: per una volta s’è rotto un patto scellerato. Lo Stato non ha garantito al suo fedele “servitore” il tradizionale diritto di uccidere a discrezione e impunemente.

Approfondimenti utili
Francia, amnistia per fatti commessi in occasione di movimenti sociali attività sindacali e rivendicative
Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla cassazione torniamo a parlare di amnistia (un libro per riflettere: politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità d’Italia ad oggi)
Movimento 5 stelle, non basta appoggiare la lotta no tav dovete battervi anche per l’amnistia in favore dei reati contestati durante le lotte sociali e la difesa dei territori
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392
Une histoire politique de l’amnistie a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263
Per l’amnistia e contro la tortura

Francia, amnistia per fatti commessi in occasione di movimenti sociali, attività sindacali e rivendicative

Ecco il testo della proposta di legge d’amnistia sociale presentata davanti al senato francese dal Pcf e dal Fronte de Gauche per fatti commesi prima del 6 maggio 2012 passibili di condanne fino a 10 anni di reclusione in occasione di conflitti sui posti di lavoro, attività sindacali o rivendicative, movimenti collettivi rivendicativi, associativi o sindacali relativi a problemi legati all’educazione, la sanità, le lotte per la casa, l’ambiente, i diritti dei migranti, ivi comprese le manifestazioni di piazza o in luoghi pubblici; per sanzioni disciplinari sui luoghi di lavoro, per le agitazioni studentesche anche all’interno degli istituti scolari e universitari che hanno dato luogo a sanziopni disciplinari, in questo caso l’amnistia comporta anche il reintegro in istituto nel caso fosse stata comminata l’espulsione

 

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Movimento 5 stelle, non basta appoggiare la lotta no tav dovete battervi anche per l’amnistia in favore dei reati contestati durante le lotte sociali e la difesa dei territori
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392

Une histoire politique de l’amnistie a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263

Movimento 5 stelle, non basta appoggiare la lotta No tav, dovete battervi anche per l’amnistia in favore dei reati contestati durante le lotte sociali e la difesa dei territori

In Val di Susa il Movimento 5 stelle ha raccolto una valanga di voti, quasi sempre oltre il 40% con il picco di Exilles dove ha raggiunto addirittura il 53,1%.
Il prossimo 23 marzo alla marcia No Tav da Susa a Bussoleno è prevista la partecipazione dei 163 parlamentari grillini. A questo punto l’azione parlamentare in favore della chiusura dei cantieri Tav in valle non può non essere accompagnata anche da un intervento a tutela di tutti coloro che in questi hanno hanno manifestato a difesa dei territori subendo una durissima repressione poliziesca e giudiziaria.
Il sostegno a queste lotte non può prescindere da una inizativa in favore di un’amnistia-indulto generale per le lotte sociali, contro la persecuzione della manifestazioni pubbliche, tutelando la resistenza messa in pratica dai cittadini nelle piazze italiane

La Polizia sgombera il blocco dei NO TAV dell'autostrada A32 Torino Bardonecchia, Torino, 28 febbraio 2012. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Per l’amnistia e contro la tortura!

In occasione della riapertura delle udienze, domani 31 gennaio 2013, per i processi che si stanno tenendo contro alcuni manifestanti arrestati a ridosso degli scontri di piazza del 14 dicembre 2010, con una spettacolare iniziativa sui ponti della Capitale diverse strutture politiche e centri sociali romani provano a riaprire la battaglia contro la tortura di ieri e di oggi e contro le estradizioni politiche, per una amnistia generale che includa anche i reati politici, come devastazione saccheggio. I ponti sul Tevere sono stati colorati da striscioni contro la tortura e il carcere, i reati di piazza, l’arsenale giuridico impiegato contro le manifestazioni antigovernative, in solidarietà con Lander Fernadez, militante basco sottoposto a procedura di estradizione su richiesta della Spagna, ed in favore dell’amnistia. Qui sotto il comunicato diffuso sull’iniziativa

Tutte liberi! Vento in poppa ai fuggiaschi

ba412bb8-2d40-43dd-a738-eaa7ccfc5286Domani si celebra il processo per i fatti del 14 dicembre del 2010, una giornata bella ed intensa, un corteo enorme che reagì determinato e rabbioso alla compravendita dei voti in aula per garantire la fiducia al governo Berlusconi, una risposta larga e condivisa che fu capace di rompere il silenzio accumulato in quella stagione. Quel giorno sembra lontano, la dittatura della finanza ha stravolto ancora una volta il quadro politico internazionale, eppure ci sono ancora compagn* che rischiano la propria libertà per quella giornata.
A partire dalla solidarietà nei confronti degli imputati, questa iniziativa vuole alimentare una discussione urgente sul tema giustizia (e non sulla legalità, quello ha già troppi relatori) che sembra sia iniziato nel nostro paese.
Che la repressione sia un strumento del potere per negare il dissenso si sa. Che i diktat finanziari, impongono strette sul controllo è noto, ed è evidente ancor di più nei paesi in cui la condizione sociale è maggiormente aggravata dalla crisi. Ma se la Corte Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo condanna l’Italia per “violazione dei diritti umani, tortura e trattamento inumano e degradante”, e se Amnesty International dichiara che in italia “essere donne, partecipare a una manifestazione, essere migranti, rom, gay, detenuti, significa correre un serio rischio per i propri diritti umani”, il tema trasborda evidentemente la sensibilità del movimento solamente.
Le gravissime condanne per Genova e per il 15 ottobre, l’utilizzo continuo del reato di devastazione e saccheggio (reato introdotto dal Codice Rocco), la leggerezza con cui si richiedono dure e assurde misure cautelari, le condizioni nelle carceri e l’impunibilità delle forze dell’ordine, la volontà ultima di celebrare il processo contro i notav nell’aula bunker del carcere delle vallette, fanno riferimento tutte ad una sospensione “tecnica” della democrazia in corso, che pone al centro del suo mandato il Codice Rocco, già fondamento teorico del fascismo.

TUTTE LIBERI
VENTO IN POPPA AI\ALLE FUGGIASCHI

c.s.o.a. Corto Circuito, csoa Astra 19, c.s.o.a. Spartaco, Esc Atelier, c.s.o.a. La Strada, c.s.o.a. Sans Papiers, Esc – AtelierAutogestito, Lab! Puzzle, Militant, Strike Spa


Approfondimenti utili

Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla cassazione torniamo a parlare di amnistia (un libro per riflettere: politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità d’Italia ad oggi)
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392
Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263

Altri link
Agamben, Europe des libertés ou europe des polices
Agamben, Lo stato d’eccezione
Il caso italiano, lo stato di eccezione giudiziario
La fine dell’asilo politico
La giudiziarizzazione dell’eccezione/2
La giudiziarizzazione dell’eccezione/1
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L’insopportabile ferita narcisistica ricevuta da Giancarlo Caselli

Ritratti – Chi è e da dove viene il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli?

Giancarlo Caselli appartiene a quel genere di magistrati che pretendono di salvarti l’anima non prima di averti confiscato il corpo. All’insegna di quella che è stata la magistratura combattente durante l’emergenza degli anni Settanta, Caselli conduce sempre una battaglia su due fronti: quello giudiziario e quello del senso, ovvero sulla visione legittima delle cose da imporre.
Non chiede solo punizioni, vorrebbe soprattutto redimerti e lo fa attraverso quel singolare ossimoro della correzione che è il raddrizzamento, la messa in riga attraverso la curvatura della persona.
Un sentimento di profonda amarezza ha dunque pervaso il suo animo di fronte all’immensa ingratitudine dimostrata da quella marmaglia di potenziali colpevoli che hanno osato contestarlo, ricordandogli che in fondo non è che uno zerbino dei poteri forti, un sifone dello Stato etico.
Le contestazioni che nelle ultime settimane gli hanno impedito, prima in una libreria di Lugano, poi a Milano, infine a Genova, di presentare il suo ultimo e “preziosissimo” libro, hanno rappresentato per il suo ego carico di slancio profetico, per quel suo apostolato missionario che lo porta a propagare il verbo vittimario di una giustizia presa d’assalto da un male dalle sembianze luciferine che al posto delle corna mostra delle antenne, un’insopportabile ferita narcisistica.
Lo si è capito dalle addolorate interviste rilasciate prima al Corriere della sera e poi a Repubblica, nelle quali tra l’indispettito e l’affranto ha prima recitato la partitura del perseguitato, un genere che va di moda e può portare al successo come ha dimostrato Roberto Saviano, per poi lanciare il consueto anatema contro i manifestanti valsusini e i contestatori dei suoi libri raffigurati alla stregua di stupratori e mafiosi.

E’ troppo abituato, il dottor Caselli, ad avere davanti a sé solo degli imputati che la pressione coercitiva dello stato d’arresto pone in condizione d’inferiorità. E’ troppo abituato, il dottor Caselli, a ragionare non con i concetti ma a colpi di custodia cautelare appesantita dalla situazione d’isolamento giudiziario, magari disposto in un istituto di massima sicurezza. Ha fatto troppo l’abitudine, il dottor Caselli, ad avvalersi di quelle condizioni d’intimidazione psicologica che minorizzano l’indagato per sopportare di fronte a sé degli uguali, irriverenti, turbolenti, irrispettosi.
Comoda è la posizione dell’inquisitore che pone le domande in una condizione di vantaggio, privo di condizionamenti, fresco e riposato, sostenuto dall’ausilio della forza coercitiva di cui dispone, dalle informazioni raccolte durante mesi di violazione della sfera privata del suo ostaggio, e di cui ha disposto il saccheggio della vita e dei beni, la perquisizione della casa, infrangendone l’intimità, invadendo e appropriandosi d’oggetti a lui cari, di strumenti di lavoro, dei segreti e dei ricordi, appunti e sogni, ed a cui vorrebbe – dopo tutto ciò – rieducare la coscienza, misurare i valori etici, raddrizzare la morale, arrogarsi il diritto di giudicare il percorso personale svolto nel fetore di una putrida cella di sicurezza.
Un po’ come quei magistrati codini pieni di cipria che la rivoluzione giacobina dell’’89 mise al bando, Caselli disprezza il frastuono del mondo: le urla, le grida, gli schiamazzi. L’unico rumore socialmente ammissibile per lui è quello dei ferri, una sinfonia di chiavi, serrature e blindi che sbattono.
L’atteggiamento di Caselli ricorda molto da vicino quello di un personaggio di Franz Kafka narrato in un brano conosciuto sotto il nome di frammento del sostituto, e ritrovato nei suoi quaderni postumi (Michael Löwy, Franz Kafka. Rêveurs insoumis, Stock Paris 2004).
In quelle pagine Kafka si divertiva a mettere in scena il ragionamento di un sostituto procuratore incaricato di sostenere l’accusa nei confronti di un uomo incolpato di lesa maestà.
Secondo quel magistrato le cose del mondo dovevano attenersi ad una curiosa geometria dell’autorità che vede la vita assumere sempre una linea ricurva, nella quale la postura dell’essere ha senso unicamente se rivolta in posizione arcuata, prona, reclina, flessa, prostrata, accucciata, soprattutto mai dritta: «Egli credeva che se tutti avessero collaborato con il Re e il Governo [è dunque nella legalità] nella calma e nella fiducia, si potevano superare tutte le difficoltà[…] più grande era la fiducia, e ancora di più si doveva curvare la schiena, ma in virtù di principi naturali, senza bassezza. Ciò che impediva uno stato di cose così auspicabile, erano personaggi della risma dell’accusato che, usciti da non si sà quali bassi fondi, venivano a disperdere con le loro grida la massa compatta delle brave genti».
In questo modo l’obiettivo della macchina giudiziaria non era più quello d’applicare un semplice castigo ma di spingere a collaborare attivamente alla propria punizione affinché la condanna assumesse il senso di una vera correzione, o piuttosto l’ossimoro della correzione come dicevamo all’inizio, cioè il raddrizzamento, la messa in riga attraverso la curvatura dell’individuo.

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