Stefano Cucchi, «non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte»

«Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa». L’excusatio non petita del maresciallo dei carabinieri che portò alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio suona oggi come una confessione manifesta, soprattutto dopo la pubblicazione della telefonata (potete ascoltare l’audio qui e leggere qui) in cui l’ex moglie di uno dei carabinieri che arrestò Cucchi (rimasto sempre coperto nel corso delle passate indagini) rinfaccia all’ex congiunto (che non pagava gli alimenti e la cui cifra umana si può ricavare dal tenore della telefonata. Questi tutori dell’ordine una volta tolta la divisa si sciolgono come maschere d’argilla) le sue confidenze su quel che accadde in caserma quella notte: «di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda».
Il ruolo avuto dai carabinieri nella vicenda, seppure solo oggi sostanziato da elementi di prova che all’epoca non vennero cercati, non è una novità. La dinamica dei fatti emergeva abbastanza chiaramente già all’epoca quando l’autorità giudiziaria, a cui vennero affidate le indagini, supportata dall’allora ministro della Difesa La Russa, fece di tutto per tenere i militi dell’Arma fuori dall’inchiesta nonostante il ruolo da questi avuto nell’arresto e nella “gestione” del fermato durante un’intera notte. Ripubblichiamo la recensione al libro che Stefania Cucchi ha scritto insieme a Giovanni Bianconi, in cui si avanzava chiaramente questo scenario.
A Stefano, come recita la canzone di De André,
non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte.
Pestato brutalmente per farlo “cantare”, per estorcergli informazioni sullo spaccio, la rete di fornitori, il nascondiglio dove teneva la merce da vendere. Sottoposto ad una tortura spicciola, fatta da personale esaltato e incapace di applicare quella “economia dello sforzo” che si richiede in una tortura di livello profesionale, utilizzata in altre fasi e livelli di indagine. La scoperta fatta dai famigliari nei giorni successivi alla sua morte di una discreta quantità di stupefacienti nella casa dove Stefano abitava, sconosciuta ai carabinieri, rese evidente fin da allora il movente del brutale trattamento che gli venne riservato.
Gli indizzi c’erano già tutti, dal 118 chiamato quando Cucchi era ancora in una cella di sicurezza di una stazione dei carabinieri, alle condizioni fisiche in cui si trovava all’arrivo nelle celle dei sotterranei del tribunale di piazzale Clodio, ben prima del suo ingresso in carcere.
In questi anni abbiamo assistito ad uno scarica barile: l’apparato più forte ha scaricato la patata bollente su quello più debole, così la polizia penitenziaria si è ritrovata sul banco degli accusati; questi a loro volta hanno fatto di tutto per lasciare con il cerino in mano il personale medico-infermieristico del centro clinico penitenziario dell’ospedale Pertini.
Un ingranaggio dove ogni rotella dello Stato ha giocato la sua parte di responsabilità. E se oggi abbiamo la certezza che a pestare Cucchi furono dei carabinieri (non c’è solo l’audio registrato a D’Alessandro ma anche altre prove documentali, come la falsificazione di un registro, il ruolo giocato dal comandante della stazione dei CC, alcune ammissioni fatte su quel che accadde quella notte), nessun altro apparato ne esce pulito.
Tutti sono coinvolti per l’indifferenza, la superficialità, il cinismo, altre dosi di botte aggiunte alle precedenti e l’omertà dimostrata (basti ricordare le allusive rimostranze di un noto sindacato della penitenziaria che ben sapeva quali erano le condizioni di Cucchi al momento della consegna nelle loro mani… Ma alla penitenziaria conveniva denunciare i carabinieri che poi per ritorsione avrebbero potuto ficcare il naso in quel che avviene quotidianamente nelle carceri?).
La regola è un’altra: ogni apparato nasconde i suoi panni sporchi in famiglia. Si chiama etica dello Stato! Quella che piace tanto ai legalitari.

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Il libro di Ilaria Cucchi sulla morte del fratello Stefano: «Nessuno deve più morire in un carcere o in una caserma». Ostacoli e retroscena su una verità che fa paura alle istituzioni. Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli 2010

Paolo Persichetti
Liberazione 22 ottobre 2010

«Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa». Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l’annuncio di una programmatica impunità. L’episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l’oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un’altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, «Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli». L’accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all’attenzione politico-mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell’obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare all proprio lutto privato. Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l’indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere le molte ombre. L’autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. E’ parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l’irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell’inchiesta ministeriale affermava, «Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria», nonostante l’indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni. «Quando ho potuto leggerla – afferma Ilaria Cucchi – mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni». A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell’Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l’era cercata. In questa gara all’esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull’ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l’hanno separato dall’arresto fino all’ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l’altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c’entrano eccome. «In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti», afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: «Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzailità». Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, «religione, legge e ordine», che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, “sorella coraggio”, di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti «inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettività. Forse anch’io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l’opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente». Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli.

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Carlos, transessuale brasiliana detenuta senza reato, si è impiccata nel Cie di via Corelli a Milano

Paolo Persichetti
Liberazione 27 dicembre 2009

«Dai suoi capelli sfilo le dita/quando le macchine puntano i fari/sul palcoscenico della mia vita/dove tra ingorghi di desideri/alle mie natiche un maschio s’appende/nella mia carne tra le mie labbra/un uomo scivola l’altro si arrende». Scorreva così, «sotto le ciglia degli alberi», nel chiaroscuro dei viali milanesi, la vita di Carlos S., transessuale brasiliana di 34 anni. Fino a domenica 20 dicembre, quando è rimasta impigliata in una retata della polizia, un tempo si sarebbe detto della “buon costume”. Carlos, non conosciamo il nome che si era scelta, era sprovvista dei documenti necessari per la sua permanenza in Italia. Per questo è stata fermata e poi deportata insieme con altri viados nel Cie di via Corelli. Di umiliazioni, dolore e discriminazioni, lei, come le altre, ne aveva conosciute e sopportate tante. Non l’ultima però. Non la degradazione e l’abisso dei “campi di concentramento” di cui sono disseminate le democrazie occidentali. Non questi luoghi dove vige lo stato d’eccezione, dove si è sottoposti a “detenzione amministrativa”, una coercizione dei corpi che l’ipocrisia di Stato non ha saputo nemmeno designare con un nome. Altrove sono stati coniati singolari neologismi. I francesi meno restii nel riconoscere esplicitamente il ricorso all’eccezione, parlano di rétention per distinguerla dalla detenzione. Campi di permanenza temporanea dove una persona straniera in situazione amministrativa irregolare è trattenuta a forza in attesa di “identificazione ed espulsione”, come recita l’ultima dizione legislativa. Luoghi vuoti di diritto, buchi neri che hanno ridotto a un colabrodo le nostre democrazie tanto decantate. In uno di questi recinti Carlos ha smesso di mescolare «i sogni con gli ormoni». L’ultima fermata è arrivata il giorno di Natale. L’hanno trovata appesa ad un lenzuolo, intorno alle 15.30, quando il resto del Paese era seduto attorno a tavole imbandite di cibo, panettoni e spumante. Carlos se n’andava per fuggire all’orrore di una prigionia senza reato, di una punizione senza colpa, se non quella di esistere, di voler essere donna. Se n’è andata liberandosi anche di quel corpo che l’aveva imprigionata ad una identità sessuale che non era sua. «Il 33% delle persone transessuali sono a rischio di suicidio a causa della discriminazione che subiscono», hanno spiegato in un comunicato Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, responsabili di EveryOne, associazione per i diritti umani. Nonostante ciò, prosegue sempre il testo del comunicato, «i transessuali vengono rinchiusi nei Cie, che sono vere e proprie carceri. L’Italia è il primo Paese europeo per discriminazioni, morti e violenze transfobiche: un terribile primato che rende le persone transessuali e transgender cittadini vulnerabili ed esclusi». «L’Italia sta violando i diritti umani senza porsi il problema del rimedio», sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che annuncia come già mille detenuti, da agosto ad oggi, abbiano chiesto il sostegno dell’associazione nella procedura di ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro le condizioni di vita che sono costretti a subire negli istituti di pena italiani. «Mille richieste di indennizzo, dunque, contro lo Stato italiano – spiega Gonnella – per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, quello che vieta le torture e le pene inumane o degradanti». Situazione che ha spinto EveryOne ha sollecitare gli uffici dell’Alto commissario Onu per i diritti umani e dell’Alto commissario Onu per i rifugiati affinché la discussione sulle gravi violazioni dei diritti fondamentali perpetrate dal sistema carcerario e dalle politiche anti-immigrazione portate avanti dall’Italia venga sottosposta all’attenzione della Corte internazionale di giustizia, principale organo giudiziale delle Nazioni unite. Proprio a partire da quest’ultima vicenda, “l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere” ha ritenuto opportuna la creazione di un’apposita “Sezione” per il monitoraggio dei decessi che avvengono in situazioni di privazione o limitazione della libertà personale al di fuori del sistema penitenziario. Nella società odierna si può essere privati della propria libertà senza per questo ritrovarsi in carcere. Il carcere diffuso rappresenta ormai una tendenza sempre più affermata. Fuori dalle mura di cinta delle prigioni ci sono i Cie, le camere di sicurezza delle questure e delle stazioni dei carabinieri; esiste poi un’area penale esterna che avviluppa in una sorta di “blindato sociale” la vita di centinaia di migliaia di persone sottoposte a misure alternative e di prevenzione; ci sono inoltre le case lavoro e gli Opg e infine i Tso, i trattamenti sanitari obbligatori. Ogni morte, violenza o discriminazione subita da persone private della libertà all’esterno del carcere sfugge alle statistiche. Il rischio è che quanto avviene in queste zone dove vige uno stato di diritto attenuato, per non dire inesistente, resti confinato in un cono d’ombra al riparo dalla percezione pubblica. «Nei centri di identificazione ed espulsione (ex Cpt), come pure nelle “camere di sicurezza” delle questure e delle caserme – afferma il comunicato stampa diffuso ieri dall’Osservatorio – le persone non sono “detenute”, quindi paradossalmente possono risultare meno tutelate rispetto a chi entra nel circuito penitenziario (regolato da un apparato normativo che prevede anche una serie di “strumenti di garanzia” per i detenuti)». Nelle tabelle rese note il suicidio di Carlos è il secondo che avviene in un Cie dall’inizio dell’anno, oltre ad un decesso per “causa da accertare” nel Cie di Roma. Nel 2008 nei Cie si sono registrati due morti per malattia, mentre nel 2007 altri 3 suicidi (di cui 2, nel Cie di Modena, a distanza di un solo giorno l’uno dall’altro). Per quanto riguarda le persone “fermate” e poi morte nelle Questure, “l’Osservatorio” ha raccolto informazioni su tre decessi avvenuti tra il 2007 e il 2008 nella questura di Milano e altri due avvenuti nella questura di Roma nel 2002.

Link
Chi ha ucciso Bianzino?
Cronache carcerarie

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