Per le persone con disabilità studiare non è più un diritto ma una eventualità di bilancio

Una recente sentenza del Consiglio di Stato (1798/2024) ha respinto il ricorso presentato dai genitori di un ragazzo disabile a cui erano state attribuite un numero di ore di sostegno scolastico inferiori a quelle indicate dai docenti della sua scuola e dagli operatori che si occupano della sua assistenza e riabilitazione.

Ritorna l’esclusione

Il «Pei», piano educativo individualizzato, finalizzato a fornire un supporto personalizzato per l’apprendimento e lo sviluppo di ciascun studente sulla base delle proprie specifiche esigenze e capacità, prevedeva 13 ore invece delle 7 concesse dal comune dove il giovane risiede.
Secondo i giudici amministrativi le indicazioni contenute nel Pei non avrebbero valore vincolante ma solo orientativo, lasciando così l’ultima parola alla burocrazia amministrativa. Una affermazione pericolosa e in contrasto con tutta la giurisprudenza precedente e i pronunciamenti della Corte costituzionale e che di fatto sottomette il diritto allo studio per i minori disabili ai vincoli economici delle amministrazioni locali.

Una distinzione fuorviante
Con una interpretazione capziosa l’Alta corte amministrativa ha distinto l’assistenza didattica fornita direttamente dall’istituzione scolastica, attraverso l’insegnante di sostegno, dall’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, fornita per legge dai comuni e dalle regioni e che è parte integrante del diritto allo studio. 
Per intenderci: se vengono meno alcuni servizi essenziali come la possibilità di accompagnare l’alunno con lo scuolabus, oppure l’assistenza diretta alla persona (accompagnarlo in bagno, assisterlo alla mensa ecc), o peggio l’assistenza alla comunicazione fornita da docenti specializzati in Lis e Caa, fondamentali per l’apprendimento e la comunicazione con il resto della classe e i docenti, viene leso il diritto fondamentale alla inclusione scolastica e alla efficacia dell’insegnamento didattico specializzato fornito dagli stessi insegnanti di sostegno che il più delle volte non sono formati a questi linguaggi.

«L’accomodamento ragionevole» e il suo rovescio
I giudici non hanno minimamente indagato se le ragioni di bilancio addotte del piccolo comune della Emilia Romagna per ridurre le ore di assistenza fossero realmente fondate, ha preferito invece introdurre una interpretazione gravemente discriminatoria del diritto all’istruzione per i disabili con argomenti che hanno una significato generale-astratto dalle ripercussioni nefaste. 
La sentenza, infatti, fonda la propria decisione sul ribaltamento del concetto di «accomodamento ragionevole», nozione formulata nella dottrina giuridica nordamericana, Civil Rights Act.
L’accomodamento o soluzione ragionevole venne formulato negli Stati Uniti quale riconoscimento giuridico dell’obbligo per i datori di lavoro di favorire le pratiche religiose dei dipendenti, a condizione che ciò non comportasse gravi disagi all’attività lavorativa. Si è poi diffuso all’ambito della disabilità con il Rehabilitation Act e l’American with Disabilities Act e in Canada con il Canadian Charter of rights and freedoms. Largamente impiegato per facilitare l’inclusione delle persone disabili nel mondo del lavoro, quindi in caso di persone adulte, l’accomodamento ragionevole è inteso come soluzione finalizzata a compensare le misure di inclusione lì dove la normativa è carente.
In sostanza si tratta di un principio di incentivazione all’inclusione, recepito nella Direttiva 2000/78/CE e poi confluito all’interno della Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006), art. 3, comma 2, per affermare i principi di uguaglianza e di non discriminazione per i lavoratori con disabilità, che i giudici amministrativi, con una bella dose di faccia tosta, sono riusciti a capovolgere proponendone una lettura rovesciata che discrimina anziché includere, che torna ad alzare barriere anziché abbatterle.


Una decisone da respingere
Questa sentenza se non adeguatamente contrastata e annullata aprirà un baratro che indebolirà il diritto all’inclusione aprendo la strada agli argomenti esclusivisti e discriminatori del pensiero razzista oggi tornato di moda. il diritto fondamentale allo studio per le persone con disabilità, come per ogni altro essere umano, non può essere subordinato a esigenze finanziarie ma va tutelato in ogni modo.
La decisione del Consiglio di Stato riapre il tema politico delle risorse economiche destinate alle politiche d’inclusione che non possono essere demandate unicamente agli enti locali, col rischio di una sperequazione territoriale tra comuni e ragioni con maggiore e minore ricchezza. Solo delle politiche di welfare centrale sono in grado di garantire un redistribuzione equa sul territorio nazionale.

I ricercatori, «non cediamo al ricatto difendiamo l’università pubblica»

“La controriforma Gelmini non è solo un carro armato lanciato contro chi fa ricerca, ma è una vero tentativo di guerra finale contro il diritto allo studio”

Paolo Persichetti
Liberazione
16 settembre 2010

Si chiamava Norman Zancone, aveva 27 anni ed era dottorando presso l’università di Palermo. Si è ucciso gettandosi da un terrazzo del settimo piano della facoltà di lettere. «Per me non c’è futuro», ha detto prima di lanciarsi nel vuoto. Il giovane stava ultimando un dottorato in filosofia del linguaggio ma negli ultimi tempi era molto depresso di fronte all’assenza di prospettive per il suo futuro. Questo gesto estremo da voce in modo drammatico al malessere profondo che attraversa il mondo della scuola e dell’università dopo l’arrivo della “controriforma” Gelmini. Spiega Stefania Tuzi, ricercatrice alla Sapienza, che i ricercatori sono tra le figure più penalizzate dai nuovi dispositivi legislativi. «Abbiamo il futuro assolutamente sbarrato», dice. I prossimi concorsi causa la penuria economica non partiranno prima di dieci anni e nel frattempo ci sarà l’introduzione del ricercatore a tempo determinato, 3+3, assunto per chiamata. «Non è vero che questa riforma metterà fine al baronaggio favorendo il merito, accadrà l’esatto contrario». Nella legge si parla di nuovi criteri di valutazione sulla ricerca qualificata ma con l’obbligo di fare didattica, «ma in questo modo non si capisce dove si potrà trovare il tempo di fare ricerca». Come se non bastasse, a decidere saranno i privati e non più di tre-quattro docenti ordinari che avranno in mano l’intera governance delle università. I ricercatori sono estromessi da qualsiasi decisione. Non solo, «ma i privati – aggiunge – avranno la possibilità di aprire e chiudere corsi di laurea, chiamare persone sulla base di criteri costruiti ad hoc». In sostanza subentra la privatizzazione del reclutamento. «Per vincere un concorso ho fatto anni di precariato. Dottorato, postdottorato, master e il concorso è durato tre giorni. Noi chiediamo di esser valutati non l’arbìtrio». La controriforma Gelmini non è solo un carro armato lanciato contro chi fa ricerca, ma è una vero tentativo di guerra finale contro il diritto allo studio. «Per gli studenti è previsto il prestito d’onore. Per studiare dovranno indebitarsi. Secondo i calcoli fatti dal Consiglio nazionale universitario i figli degli impiegati non potranno più accedere all’università». I privati avranno anche il potere di vendere le proprietà immobiliari delle università. «Hai idea di quanti terreni possiede l’università di Tor Vergata? Nessun privato concede finanziamenti all’università a fondo perduto. Lo dimostra il fatto che già oggi le università private vivono con i finanziamenti pubblici, più le rette. I privati sono interessati a poche cose, principalmente i beni immobili degli atenei che sono enormi e pregiati, situati in zone della città con un alto valore immobiliare. Questi vogliono soltanto smantellare l’università pubblica». A chi li accusa di non voler insegnare, rispondono che l’indisponibilità alla didattica «non è uno sciopero. Semplicemente abbiamo cessato da fare volontariato a titolo assolutamente gratuito». Oggi l’università italiana si regge grazie alla buona volontà. «L’unico modo per farlo capire è stato smettere di fare quello che la legge non prevede. Dopodiché siamo 24 mila e così si fermano gli atenei. Qualcuno dovrà pur rendersi conto che l’università è fatta solo di precari e di gente che fa volontariato». C’è un dato impressionante: a breve andranno in pensione il 35% dei professori che non saranno sostituiti. «Questo vuol dire che i prossimi anni accademici non saranno più in grado di portare a termine le lauree. La nostra è una battaglia per una università libera, pubblica e aperta». I ricercatori si danno appuntamento per un incontro nazionale venerdì 17, ore 10,30, alla Sapienza (facoltà di Chimica).

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Gelmini: “I precari sono troppi e strumentalizzati”
I grembiulini della Gelmini