I compagni di Manuel De Santis incontrano gli studenti del Mamiani e chiedono scusa a Cristiano, il giovane colpito con un casco durante il corteo del 14 dicembre

Mario Martucci, uno dei responsabili dei “Katanga”, il famigerato servizio d’ordine del Movimento Studentesco di Milano, poi divenuto Mls, noto negli anni 70 per la sua particolare vocazione a svolgere la funzione di poliziotti dei cortei sempre pronti ad aggredire e pestare tutte le realtà politiche più radicali del movimento presenti sulla piazza milanese, intervistato dal Corriere della sera invita gli studenti a costituire un servizio d’ordine – si badi bene – non per difendere i cortei da aggressioni esterne provenienti dalla polizia o da gruppi di estrema destra, o ancora per garantire i propri spazi di agibilità politica, ma per reprimere la pluralità delle voci interne al movimento stesso.  La vicenda è destinata inevitabilmente ad aprire un dibattito sulle forme d’organizzazione della politica e delle manifestazioni per superare quelle logiche che hanno condotto all’episodio di martedì, soprattutto a quell’inquietante riflesso d’ordine che di fronte ad una situazione imprevista (e che per giunta si sarebbe poi dimostrata la novità e il punto di forza dell’intera giornata) si è tradotto un una reazione repressiva.
Ieri una delegazione di quel settore del movimento che il 14 aveva deciso di improvvisare un servizio d’ordine la cui azione è poi degenerata nella aggressione di un altro manifestante, si è incontrata con gli studendi del Mamiani, compagni del giovane ferito.
Ci auguriamo che la soluzione sia demandata all’iniziativa politica, unico modo per sottrarla alle dinamiche penali e criminalizzatrici. Evitare che Manuel diventi il capro espiatorio di una scelta politica che l’ha sorpassato, far sentire a Cristiano, il ragazzo ferito, la solidarietà e il calore del movimento. Sostenere con una sottoscrizione spese mediche e processuali per entrambi potrebbe essere un modo per arrivare anche ad un incontro pubblico con tutto il movimento

Paolo Persichetti
Liberazione 22 dicembre 2010


Si è svolto ieri un incontro tra una delegazione di Esc, il centro sociale romano di San Lorenzo, insieme ad altri studenti delle facoltà occupate, con gli studenti del Mamiani, il liceo al quale appartiene Cristiano Ciarrocchi, il quindicenne seriamente ferito con un casco martedì scorso da un altro manifestante, Manuel De Santis, che nel frattempo si è fatto avanti riconoscendo la propria responsabilità e chiedendo scusa al ragazzo ferito. L’incontro è servito a chiarire le circostanze che hanno portato all’orribile episodio avvenuto davanti a via degli Astalli, molto vicino alla residenza privata di Silvio Berlusconi. Due blindati dei carabinieri messi di traverso ostruivano l’ingresso della via, molti manifestanti si erano fermati ed avevano cominciato a lanciare di tutto, sacchetti d’immondizia, grossi petardi, frutta e verdura.
All’incontro ha partecipato anche uno dei giovani che era accanto a Manuel De Santis mentre faceva servizio d’ordine, quello che nelle immagini è visto alzare un braccio in modo teso, gesto che sul web ha dato subito spazio ad interpretazioni dietrologiche sulla presenza di militanti di estrema destra nel corteo. Evidentemente non si trattava di un saluto romano, ha spiegato l’attivista, ma di un gesto indirizzato verso il corteo affinché proseguisse il suo cammino. Gli studenti del Mamiani sembrano aver apprezzato questo incontro, «dopo l’episodio di martedì avevamo perso ogni fiducia nei confronti degli universitari», spiega uno di loro. «Noi non siamo contro i servizi d’ordine, anche noi abbiamo il nostro che senza dubbio è più efficiente di quello messo in piazza da Esc. Loro ci hanno risposto che un servizio d’ordine centralizzato oggi non è possibile e che c’è stato un problema di mancato coordinamento». Da quel che si è capito Manuel De Santis non era un “cane sciolto”, «parlavano di lui come di uno che conoscevano» e che era inquadrato nell’attività di controllo del corteo, «affinché defluisse correttamente nella zona di piazza Venezia. «Temevano – ci hanno spiegato – che il corteo si spezzasse subito di fronte al primo blindato a causa dei lanci di uova ed altro che potevano provocare una carica della polizia». Ma l’azione non è stata ben coordinata, anzi era del tutto improvvisata, «l’errore – hanno spiegato – è stato quello di non aver chiamato aiuto». Una sottovalutazione che avrebbe ingenerato per frustrazione il «gesto sconsiderato». Hanno aggiunto – spiega sempre il nostro giovane interlocutore – che «non sapevano come agire con gli studenti medi», che in numero imprevisto e con una loro autonomia d’azione partecipavano alla giornata di lotta. Insomma il successo della giornata avrebbe fatto saltare tutti i piani preordinati. «Si sono scusati ed hanno chiesto di passare le scuse anche a Cristiano. Noi abbiamo replicato che non si potevano giustificare isolando l’autore dell’aggressione, per altro contattandoci solo tre giorni dopo l’accaduto e venendoci ad incontrare una settimana dopo».
Questa descrizione della vicenda corrisponde ad altre apparse in rete in questi giorni. Il gesto compiuto dalla delegazione che ha reso visita agli studenti del Mamiani è certamente positivo, seppure tardivo. Ora però l’errore sarebbe proprio quello di chiudere la vicenda qui, scaricando per altro sulle sole spalle di Manuel De Santis quanto accaduto. L’errore prima che tecnico (aver improvvisato una parodia di servizio d’ordine che ha aumentato confusione e tensione) è politico: sta nell’aver percepito come una minaccia il successo della manifestazione, l’arrivo in massa di una leva giovanissima di manifestanti arrabbiati che hanno trasformato in retroguardia le vecchie leadership, e soprattutto nel demone dell’egemonia, nella pretesa di voler stabilire per tutti modalità e obiettivi della giornata. Con un paradosso estremo che mette con le spalle al muro quella cultura politica avviata sul finire degli anni 90, incentrata sul “conflitto mimato” in nome di una nonviolenza imposta con la forza.

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7 aprile 1979, quando lo Stato si scatenò contro i movimenti

Dopo gli scontri del 14 dicembre a Roma, Maurizio Gasparri aveva chiesto di scatenare contro il movimento «arresti preventivi», definendo i manifestanti degli «assassini potenziali». Il «sette aprile» non fu uno strumento di repressione partorito dal ventennio mussoliniano, ma un dispositivo di repressione giudiziario-poliziesco e politico-culturale, messo a punto dal partito comunista italiano alla fine degli anni 70, sostenuto con feroce coerenza dal giornale fondato e diretto da Eugenio Scalfari. Il fatto che oggi sia un ex-post, sempre fascista, a reclamarlo chiama in causa gli eredi del Pci sparpagliati un po’ ovunque: nel Pd, nella Federazione della sinistra, in Sel o nell’Idv, alcuni persino nel Pdl. Se oggi chi milita in queste formazioni pensa che evocare il 7 aprile sia prova di fascismo, deve spiegarci perché allora venne congeniato quel modello di repressione dei movimenti e perché fino ad oggi non ne ha mai preso le distanze

Paolo Persichetti
Liberazione 22 dicembre 2010


Chi ha definito un rigurgito fascista la richiesta di un «nuovo 7 aprile» fatta da Maurizio Gasparri, cioè di «una vasta e decisa azione preventiva» da scatenare  contro i centri sociali ritenuti, a suo dire, i responsabili degli scontri avvenuti il 14 dicembre scorso a Roma, non ha detto una cosa giusta. Pietro Calogero, il pm di Padova che congeniò il teorema accusatorio firmando i primi 22 ordini di cattura che diedero via al blitz contro il gruppo dirigente dell’area dell’Autonomia operaia, tra cui Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, non era fascista. L’intera inchiesta, in relatà, fu preparata e supportata dal sostegno politico diretto del partito comunista, dall’azione di un suo dirigente locale, Severino Galante, dal lavoro riservato della sezione “Affari dello Stato” diretto da Ugo Pecchioli, dalla funzione di raccordo tra magistratura e sistema politico svolta da Luciano Violante. Membri del Pci erano alcuni dei testimoni chiave che consentirono di formulare la prima salva di accuse. In quegli anni il Pci dispiegò tutta la sua macchina organizzativa senza badare a sfumature per monitorare nei quartieri e nei posti di lavoro gli “estremisti” e i “sovversivi”, i cui nomi venivano poi affidati ai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa. Addirittura intervenne sui giurati del processo di Torino contro il nucleo storico delle Br. Democristiano era invece Achille Gallucci, il giudice istruttore romano che lo stesso giorno spiccò altri mandati di cattura per «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», avviando così il secondo troncone dell’inchiesta. Quell’episodio che molti giuristi, come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, continuano a ritenere una delle pietre miliari dell’emergenza giudiziaria che ha scardinato il sistema delle garanzie giuridiche avviando anche quella cultura della supplenza giudiziaria, senza la quale non avrebbe mai visto la luce “Mani pulite”, che aprì la strada al berlusconismo, nacque nel cuore della stagione del compromesso storico, della linea della fermezza, del consociativismo che annullava ogni differenza tra maggioranza e opposizione. Il Movimento sociale, partito nel quale militava all’epoca l’attuale presidente dei senatori del Pdl, era fuori dell’arco costituzionale. La legislazione speciale, l’introduzione delle carceri speciali, gli spregiudicati metodi d’indagine che permisero l’arresto dei militanti dell’Autonomia, votati anche con l’assenso dell’opposizione parlamentare, resero di gran lunga più repressivo il capitolo dei delitti politici presente nel codice penale elaborato per punire gli antifascisti da Alfredo Rocco, guardasigilli del regime mussoliniano. Il modello 7 aprile introdusse il ricorso al «rastrellamento giudiziario», cioè la contestazione di reati associativi di vecchio e nuovo conio senza l’individuazione di fatti circostanziati, la cui prova veniva rinviata nel tempo grazie ad una custodia preventiva allungata a dismisura. Di fatto l’arresto si trasformava in un vera e propria pena anticipata, scontata prima della sentenza. In questo modo le accuse si fondavano sul principio della “tipologia d’autore”, ad essere contestata era l’identità e la storia politica dell’imputato. Scelta motivata all’epoca con la necessità “prosciugare l’acqua dove nuota il pesce” per difendere lo Stato dall’attacco dei gruppi armati: l’anno prima era stato rapito e ucciso dalle Br il presidente della Dc Aldo Moro, attorno al movimento del ’77 si era diffusa un’area insurrezionale, un’arborescenza di sigle che alimentava azioni armate ovunque mentre il conflitto sociale era giunto all’apice. Pochi mesi prima era stato ucciso Guido Rossa. Tuttavia l’introduzione di quello che fu un vero “stato di eccezione giudiziario” venne sempre negata dalle forze politiche, ciò spiega il rimosso e il tabù attuale. La sinistra non ha mai fatto i conti con quella scelta, anzi col passar delle svolte e delle sigle l’ha iscritta a pieno nel proprio patrimonio culturale ritrovandosi nella paradossale situazione che vede oggi un fascista di allora rivendicarne con estrema naturalezza l’impiego. E’ stata la sinistra, spalleggiata dal partito-giornale di Repubblica, a mettere in piedi il micidiale modello repressivo e l’arsenale giuridico rivendicati oggi contro i movimenti da un personaggio come Gasparri. Quanto basta per avviare una riflessione critica mai veramente affrontata.

Per approfondire
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Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
La giudiziarizzazione della eccezione (2)
Stato di eccezione giudiziario
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