«Io ergastolano denunciato dal garante dei detenuti della regione Lazio per aver criticato il suo operato»

Parla Vittorio Antonini, coordinatore dell’associazione di detenuti ed ex detenuti Papillon-Rebibbia, querelato da Angiolo Marroni Garante dei diritti dei detenuti del Lazio

Beatrice Macchia
Liberazione 30 novembre 2010


Vittorio Antonini, coordinatore dell’associazione di detenuti Papillon-Rebibbia, all’ergastolo dal 1985 e attualmente in semilibertà, è stato denunciato dal garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni per aver pubblicamente attirato l’attenzione sui ripetuti rinvii che dopo lo smantellamento dell’ufficio del garante dei detenuti del comune di Roma ne impedivano il ripristino. Per aver dato voce a questa vicenda anche Liberazione, nella figura del suo direttore, si è vista recapitare un invito a presentarsi in tribunale.

Antonini te la saresti mai aspettata una cosa del genere?
Si tratta di una situazione paradossale. Il garante dei detenuti denuncia penalmente un ergastolano solo perché ha avuto l’audacia di colmare un vuoto d’informazione sull’ufficio del garante comunale.

Cosa ti viene rimproverato?
Il contenuto di una mia lettera aperta al sindaco di Roma del 2 agosto scorso nella quale denunciavo il fatto che dal 27 gennaio 2009 è stato definitivamente smantellato l’ufficio del garante comunale grazie ad un protocollo tra il garante regionale Angiolo Marroni e gli assessori alle politiche sociali del comune, Sveva Belviso, e della Provincia Claudio Cecchini.

Angiolo Marroni sostiene che le cose non stanno così.
La nostra denuncia di quel protocollo d’intesa, criticato da quasi tutto il mondo dell’associazionismo carcerario, si fonda sulle dichiarazioni degli stessi firmatari. Ora non possiamo entrare negli aspetti giuridici della controversia, tuttavia si può rilevare che dal gennaio 2009 ad oggi non risulta che questo protocollo abbia migliorato, quatitativamente e qualitativamente, l’operato di controllo e denuncia sui tanti aspetti che riguardano diritti e dignità dei cittadini detenuti (dal caso Cucchi a quello di Simone La Penna). Tanto meno sono aumentate le risorse che, secondo quanto stabilisce lo stesso protocollo, dovevano essere destinate alle attività culturali, formative e lavorative, dei detenuti utilizzando quelle destinate al precedente ufficio del garante comunale. Per giunta la delibera istituiva del garante comunale (n° 90 del 2003) invalida di fatto il protocollo poiché esclude all’art. 2: “la nomina nei confronti del coniuge, ascendenti, discendenti, parenti e affini fino al terzo grado di amministratori comunali”. E’ di tutta evidenza che l’avvocato Angiolo Marroni, padre del capogruppo del Pd al comune di Roma, non poteva assumere le funzioni di garante per conto del comune.

Nella lettera al sindaco sollevavi anche un altro problema.
Sono stato querelato anche per aver avuto l’ardire di parlare pubblicamente di una mozione in favore del ripristino dell’ufficio del garante comunale presentata nel 2009 da dieci consiglieri del Pdl, fissata all’ordine del giorno del consiglio comunale del 7 giugno 2010, ma che stranamente non è stata mai discussa e votata bensì ritirata dal suo primo firmatario. Ora considerando l’assurda situazione di vuoto che si è determinata con il protocollo del gennaio 2009, come non ritenere più che giustificate le nostre domande di chiarezza e trasparenza sulle reali ragioni dell’affossamento di quella mozione rivolte al sindaco? La nostra lettera aperta del 2 agosto ha contribuito in misura decisiva a riaprire la concreta possibilità di ripristinare a Roma l’ufficio del garante comunale. A questo punto la denuncia da me ricevuta la considero il prezzo da pagare in questa piccola battaglia di civiltà.

Così com’è oggi l’ufficio del garante è utile?
Riteniamo che debbano essere amplificati i poteri d’indagine e d’intervento del garante su tutti gli aspetti della vita quotidiana nei luoghi di reclusione, e in una certa misura perfino verso quei provvedimenti della magistratura di sorveglianza che purtroppo in tante occasioni nega con troppa leggerezza l’applicazione piena e integrale della legge Gozzini. Nello stesso tempo riteniamo che vada completamente azzerata la possibilità del garante di condizionare, in modo diretto o indiretto, la destinazione delle risorse pubbliche che gli enti locali o lo Stato destinano alle attività per i detenuti. E’ un’anomalia il fatto che l’ufficio del garante regionale (e non già l’assessorato competente attraverso le normali procedure) indichi la cooperativa a cui destinare, per esempio, i 100mila euro stanziati dalla regione Lazio per il reinserimento lavorativo di 10 detenuti.

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Fonte: Liberazione 17 novembre 2010


Roma – Una busta con un proiettile calibro 40 Smith & Wesson e un messaggio intimidatorio siglato «Brigate Rosse Nucleo Galesi», è stata recapitata al Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Lo ha reso noto ieri con una nota lo stesso ufficio del Garante. Il messaggio intimidatorio riporterebbe le seguenti minacce: «Ultimo avviso: i prossimi non arriveranno con la posta. Dimettiti. Onore ai compagni caduti, onore al compagno Mario Galesi». E’ la terza volta – si ricorda sempre nel comunicato – che nei confronti di Marroni «vengono indirizzate intimidazioni da parte di anonimi che si firmano Brigate rosse: la prima volta fu nel febbraio del 2007, la seconda a novembre 2009».
La paternità delle minacce suscita tuttavia molte perplessità. La sigla evocata, infatti, non è più in attività dai primi anni Ottanta, quando le Br si divisero in tre tronconi assumendo denominazioni nuove per poi terminare la loro storia pochi anni dopo. Anche il gruppo riapparso sulla scena nel 1999 recuperò una denominazione diversa da quella indicata nelle minacce al Garante. L’ipotesi, a questo punto, è che la sigla impiegata sia solo un comodo quanto dilettantesco mezzo di copertura utilizzato dai reali autori delle minacce per sviare i sospetti altrove. Certo è che questa intimidazione giunge in un momento molto delicato per il Garante del Lazio al centro di forti polemiche per la conduzione del suo ufficio.
Nei mesi scorsi, infatti, l’associazione di detenuti Papillon-Rebibbia aveva sollevato pubblicamente il problema del mancato rinnovo del Garante dei detenuti del comune di Roma, sostenendo che dietro i continui rinvii vi potesse essere anche un certo fastidio da parte del Garante regionale per la presenza di un’autorità di garanzia concorrente in materia di competenze sul settore carceri. E in effetti l’impegno dilatorio del capogruppo del Pd in consiglio comunale, figlio dell’attuale Garante regionale, non ha mai favorito la piena trasparenza sulla vicenda.
Per tutta risposta Angiolo Marroni ha querelato Vittorio Antonini, coordinatore della Papillon, detenuto all’ergastolo dal 1985 e attualmente in semilibertà, e Liberazione che in un articolo aveva dato voce a questa denuncia. Situazione alquanto paradossale per un Garante dei detenuti che invece di tutelare l’interesse delle persone recluse le porta in tribunale come controparte, insieme ad uno dei pochi quotidiani che da sempre si occupa della drammatica realtà del carcere. Accade così – spiega lo stesso Antonini in un comunicato diffuso in serata – che «mentre stavano prendendo forma interviste, prese di posizione ufficiali e persino mozioni trasversali che avrebbero chiesto di ridiscutere le modalità con le quali al termine della passata legislatura fu riconfermato il mandato ad Angiolo Marroni, giungono puntuali le ennesime minacce per posta». L’auspicio è che questo episodio, sulla cui fondatezza indagheranno le autorità preposte, non metta a tacere l’esigenza di chiarezza e non consenta di liquidare chi esprime critiche come corrivo con gli autori delle minacce.

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Il Consiglio comunale rinvia ogni decisione. Dietro lo stop le pressioni del Garante regionale

Luca Bresci
Liberazione 6 agosto 2010

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Il comune di Roma continuerà a non avere un suo Garante dei detenuti nonostante la città ospiti nel suo ampio perimetro diverse migliaia di detenuti e persone prive di libertà in ben 4 istituti di pena, tra case circondariali e case di reclusione maschili e femminili, un carcere minorile, un centro di identificazione ed espulsione oltre a decine di commissariati, stazioni, caserme di polizia e carabinieri, insieme ai sotterranei del Tribunale diventati tristemente famosi dopo il pestaggio mortale inferto a Stefano Cucchi. Tutti luoghi, questi ultimi, nei quali si trovano decine e decine di celle di sicurezza nelle quali vengono quotidianamente rinchiuse centinaia di persone. Il rinvio della decisione è arrivato nell’ultima riunione del consiglio comunale tenuta prima della pausa estiva. All’ordine del giorno la mozione presentata da 10 consiglieri della stessa maggioranza Pdl, tra cui il capogruppo Luca Gramazio, che proponevano il ripristino dell’ufficio del Garante comunale. Alla fine però il consiglio ha deciso di evitare ogni discussione rinviando il voto. La denuncia arriva dall’associazione Papillon-Rebibbia che ricorda come la mozione fosse stata presentata già nella seduta del 7 giugno scorso e che da allora, per ben due mesi, non è mai riuscita ad arrivare in aula fino all’ultima seduta prima delle vacanze. Il comunicato dell’associazione, composta da detenuti ed ex detenuti, ricorda anche l’assurda decisione che portò allo smantellamento dell’ufficio, allora presieduto da Gianfranco Spadaccia il cui lavoro era stato apprezzato da tutte le associazioni impegnate nel volontariato carcerario e sul tema dei diritti delle persone prive di libertà. Dietro il siluramento dell’ufficio comunale, ricorda sempre il comunicato diffuso dalla Papillon, ci fu «uno strampalato accordo tra il Comune, la Provincia e il Garante regionale dei detenuti, Angiolo Marroni». Quest’ultimo, potente cacicco del Lazio, notabile della politica che ha traversato molte delle ere geologiche sopravvivendo alla Prima repubblica, sembra rappresentare il vero nodo gordiano della vicenda. E’ attorno alla sua poltrona, alla fitta rete di relazioni politico-clientelari sapientemente tessute in modo trasversale, che trova spiegazione il sabotaggio dell’ufficio del Garante comunale percepito non come un’interlocutore ma come un’autority rivale che, oltre a togliere visibilità mediatica, poteva mettere il naso sulla destinazione e l’utilizzo concreto delle risorse messe a disposizione dal Comune e dalla Regione. Quella dei Marroni è una vera e propria saga politica familiare che ricorda le satrapie orientali. Non a caso il figlio Umberto, capogruppo del Pd in Consiglio comunale, senza il benché minimo pudore che pure avrebbe dovuto suscitare l’evidente conflitto d’interessi, si è levato contro il ripristino della figura del Garante comunale che avrebbe fatto ombra al pater familias. Già al momento del rinnovo della carica di Garante regionale, la riconferma di Marroni fece molto discutere per l’opposizione dichiarata di associazioni come l’Arci, A buon diritto, Caritas, Antigone, che avevano sostenuto la candidatura di Antonio Marchesi, per molti anni presidente di Amnesty International. La reiterazione di un accordo consociativo tra Pd e Pdl garantì il rinnovo della poltrona all’inossidabile Marroni e alla sua rete clientelare bipartizan.

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