«Minacce» al Garante dei detenuti del Lazio: falsari allo sbaraglio

Dubbi sulla sigla Br e la tempistica dell’episodio. Intanto Angiolo Marroni querela l’associazione Papillon-Rebibbia e il quotidiano Liberazione

Fonte: Liberazione 17 novembre 2010


Roma – Una busta con un proiettile calibro 40 Smith & Wesson e un messaggio intimidatorio siglato «Brigate Rosse Nucleo Galesi», è stata recapitata al Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Lo ha reso noto ieri con una nota lo stesso ufficio del Garante. Il messaggio intimidatorio riporterebbe le seguenti minacce: «Ultimo avviso: i prossimi non arriveranno con la posta. Dimettiti. Onore ai compagni caduti, onore al compagno Mario Galesi». E’ la terza volta – si ricorda sempre nel comunicato – che nei confronti di Marroni «vengono indirizzate intimidazioni da parte di anonimi che si firmano Brigate rosse: la prima volta fu nel febbraio del 2007, la seconda a novembre 2009».
La paternità delle minacce suscita tuttavia molte perplessità. La sigla evocata, infatti, non è più in attività dai primi anni Ottanta, quando le Br si divisero in tre tronconi assumendo denominazioni nuove per poi terminare la loro storia pochi anni dopo. Anche il gruppo riapparso sulla scena nel 1999 recuperò una denominazione diversa da quella indicata nelle minacce al Garante. L’ipotesi, a questo punto, è che la sigla impiegata sia solo un comodo quanto dilettantesco mezzo di copertura utilizzato dai reali autori delle minacce per sviare i sospetti altrove. Certo è che questa intimidazione giunge in un momento molto delicato per il Garante del Lazio al centro di forti polemiche per la conduzione del suo ufficio.
Nei mesi scorsi, infatti, l’associazione di detenuti Papillon-Rebibbia aveva sollevato pubblicamente il problema del mancato rinnovo del Garante dei detenuti del comune di Roma, sostenendo che dietro i continui rinvii vi potesse essere anche un certo fastidio da parte del Garante regionale per la presenza di un’autorità di garanzia concorrente in materia di competenze sul settore carceri. E in effetti l’impegno dilatorio del capogruppo del Pd in consiglio comunale, figlio dell’attuale Garante regionale, non ha mai favorito la piena trasparenza sulla vicenda.
Per tutta risposta Angiolo Marroni ha querelato Vittorio Antonini, coordinatore della Papillon, detenuto all’ergastolo dal 1985 e attualmente in semilibertà, e Liberazione che in un articolo aveva dato voce a questa denuncia. Situazione alquanto paradossale per un Garante dei detenuti che invece di tutelare l’interesse delle persone recluse le porta in tribunale come controparte, insieme ad uno dei pochi quotidiani che da sempre si occupa della drammatica realtà del carcere. Accade così – spiega lo stesso Antonini in un comunicato diffuso in serata – che «mentre stavano prendendo forma interviste, prese di posizione ufficiali e persino mozioni trasversali che avrebbero chiesto di ridiscutere le modalità con le quali al termine della passata legislatura fu riconfermato il mandato ad Angiolo Marroni, giungono puntuali le ennesime minacce per posta». L’auspicio è che questo episodio, sulla cui fondatezza indagheranno le autorità preposte, non metta a tacere l’esigenza di chiarezza e non consenta di liquidare chi esprime critiche come corrivo con gli autori delle minacce.

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Carcere di Forlì, muore in cella abbandonato, nessuno lo ha soccorso

Franco Paglioni arrestato per tre grammi di eroina, aveva denunciato forti dolori ma nessuno gli ha dato ascolto
Muore in carcere abbandonato da tutti tranne che dai compagni di cella

Paolo Persichetti
Liberazione
12 settembre 2008

Riverso a terra, esanime tra le proprie feci. È morto così, in una cella del carcere di Forlì, Franco Paglioni. Cinismo, indifferenza, sprezzo della vita umana, hanno precipitato la morte di un uomo di 44 anni profondamente debilitato da una malattia che il senso comune fa fatica a pronunciare, l’Aids. La mattina del 25 agosto Paglioni si trovava in carcere da soli 4 giorni. Era conosciuto: dal personale di custodia e da quello medico. Nell’infermeria una cartella ne tracciava la storia medica. Arrestato per il possesso di tre grammi di eroina (che periziati sarebbero forse risultati molto meno) era finito nell’istituto di via della Rocca, penitenziario da dove entrava e usciva ripetutamente. Come da prassi all’ingresso è stato sottoposto a visita medica e qui aveva segnalato forti dolori. «Stava talmente male – raccontano in una lettera i suoi compagni di detenzione – che non poteva alzarsi dal letto e neppure mangiare. I suoi piatti rimanevano pieni e l’assistente di turno, anziché preoccuparsi, ordinava di mettere il cibo nuovo sopra quello vecchio. In quei giorni andava avanti solo a tè o camomilla, grazie ad un detenuto che ogni sera gli preparava gli infusi. Abbiamo chiesto più volte alle guardie di turno l’intervento urgente di un medico ma nessuno si è mai visto e l’infermiere che è passato in sezione per la consegna della terapia per ben 2 volte (alle 20.30 del 24 sera e alle 7.30 del 25 agosto) non si è preoccupato neppure di chiamarlo nonostante l’uomo, perché è di questo che stiamo parlando, stesse malissimo». Uomo? Persona? Viene da pensare alle parole del nuovo capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che al momento del suo insediamento ha sottolineato la necessità di considerare sempre delle «persone» i detenuti. Una lapalissiana ovvietà fuori dalle mura di cinta, dentro molto meno. Ora il dottor Ionta ha di fronte a sé l’occasione buona per dimostrare che quelle sue parole avevano un senso, erano davvero animate da sincera volontà. Può farlo esigendo piena luce sulle responsabilità che hanno portato a questa terribile morte. «Una fine assurda», come l’hanno definita i compagni di carcere di Paglioni che puntano l’indice contro il clima di incuria che sta dietro quanto è accaduto. «Episodi come questi non devono succedere. Neanche i cani si abbandonano così, si curano. E lui era una persona». Agghiacciante è la descrizione di quanto avvenuto la mattina del 25 agosto «quando il lavorante davanti alla cella ha fatto presente lo stato del Paglioni, riverso tra le sue feci. Noi tutti eravamo presenti. L’assistente di turno l’ha visitato e assieme a un detenuto l’ha portato sotto la doccia, nonostante lo stato esanime in cui quel poveretto si trovava. Poi è stato riportato in cella. Quando finalmente è stato chiamato il dottore era troppo tardi. Ne ha potuto solo constatare il decesso». Il personale di custodia del carcere non risponde, vincolato dalla gerarchia alla consegna del silenzio. Un silenzio che però risuona come una fragorosa ammissione di responsabilità. Interpellata dal Resto del Carlino, la segretaria del comparto penitenziario della Cgil funzione pubblica, Daniela Avantaggiato, accampa scuse che hanno dell’incredibile: «Il giorno prima del decesso Paglioni è stato visto dal medico, ma le sue condizioni erano così gravi che anche un ricovero all’ospedale non lo avrebbe salvato». La direttrice del carcere, Alba Casella, è irraggiungibile. Come spesso accade in provincia, i direttori dirigono più istituti contemporaneamente. Di fatto queste strutture sono acefale, abbandonate alla mera gestione militare del personale di custodia. Concepito per una capienza massima di 135 detenuti, il carcere di Forlì ne ammassa in realtà 210. Una specie di sottovuoto penitenziario. Intanto i compagni di Franco Paglioni, quelli che hanno accompagnato gli ultimi giorni della sua vita chiedono «che una volta tanto anche un detenuto riceva giustizia. Crediamo che una persona non debba e non possa essere lasciata morire così, come un cane».

Carcere killer: oltre Forlì altre tre vittime in poche ore

Paolo Persichetti
Liberazione
13 settembre 2008

«È morto per cause naturali e in carcere ha avuto tutte le cure di cui aveva bisogno». Non sa trovare altre parole la direttrice del carcere di Forlì, Alba Casella, per spiegare la morte di Franco Paglioni, deceduto in circostanze drammatiche lo scorso 25 agosto (vedi Liberazione di ieri), trovato riverso sul pavimento della cella tra le sue feci dopo aver inutilmente denunciato forti dolori. L’Istituzione come di consueto si è chiusa a riccio e respinge ogni accusa. Nega che nella vicenda vi siano responsabilità o ombre. L’incuria, l’indifferenza, il cinismo, non c’entrano. «Questo è quello che dicono i detenuti…», risponde la funzionaria, preoccupata soprattutto della propria carriera e di tutelare il buon nome dell’amministrazione. Il cappellano del carcere, don Dario Ciani, scrive che le condizioni di salute del detenuto erano note, tanto che in passato aveva sempre ottenuto misure alternative a causa della sua incompatibilità con la detenzione. Questa volta non è accaduto o non si è fatto in tempo. «Ogni carcere, compreso quello di Forlì, non può essere utilizzato come discarica», spiega il prete. Della vicenda è stata informata l’autorità giudiziaria che ha subito sotterrato il caso senza nemmeno accertare le cause esatte della morte. Tanto Paglioni aveva il destino segnato da una sieropositività conclamata. Evidentemente la vita di chi è affetto da questa sindrome vale meno delle altre. L’altro ieri si è tenuto anche un presidio sotto le mura della casa circondariale per denunciare l’episodio, mentre i Radicali annunciano una interpellanza parlamentare. Paglioni era stato collocato in isolamento nell’unica cella disponibile del reparto protetti. Uno come lui andava assegnato in una comunità. Quantomeno necessitava di un ricovero in infermeria. Ma il sovraffollamento attuale impedisce una gestione razionale della popolazione incarcerata.
La fabbrica della punizione sforna più detenuti di quanto l’industria penitenziaria sia in grado di contenere. Ciò alimenta lo stillicidio di morti: altri tre negli ultimi giorni. Un paraplegico trovato incredibilmente “impiccato” nel carcere di Opera. È il secondo caso del genere che si registra in questo istituto. Un detenuto marocchino deceduto per inalazione di gas a Bad’e Carros (Nuoro) e poi, martedì scorso, la morte nell’ospedale di Velletri di Stefano Brunetti, 41 anni. Arrestato l’8 settembre per un tentativo di furto, il giorno successivo era stato ricoverato a causa delle pesanti percosse subite, non si sa ancora se durante la permanenza nella questura di Anzio oppure dopo l’ingresso in carcere. La magistratura ha disposto l’autopsia per conoscere se le cause del decesso sono di origine violenta o meno. La notizia è stata diffusa dal garante dei detenuti del Lazio e dall’associazione Antigone. Episodi che attirano l’attenzione sulle pratiche sempre più violente che ormai dilagano senza freni negli apparati di polizia.