Il prefetto di Venezia rimosso per non aver avvertito le ronde padane

Mesi di azioni squadriste della Lega contro i Sinti andate in fumo

Paolo Persichetti
Liberazione 19 dicembre 2009

Sarà la Sicilia la nuova destinazione del prefetto di Venezia, Michele Lepri Gallerano, rimosso dall’incarico per aver acconsentito al trasferimento, in condizioni di sicurezza, di 38 famiglie nomadi di etnia Sinti nel nuovo insediamento di Favaro Veneto, un villaggio nei pressi di Mestre. Struttura d’accoglienza costruita dal comune di Venezia con i fondi regionali e il voto favorevole dello stesso centrodestra per una spesa di 2,8 milioni di euro, ma che ha sempre incontrato la feroce opposizione dei leghisti e della presidente della provincia, Francesca Zaccariotto. A Lepri vengono rimproverate circostanze e modalità del trasferimento deciso dal sindaco di Venezia, con l’ordine della massima riservatezza. Gli stessi Sinti avevano saputo solo un’ora prima che era arrivato il momento di raccogliere tutte le loro cose e trasferirsi nella nuova struttura. Una serie di casette prefabbricate con la piazzola per la roulotte, al posto del vecchio e fatiscente campo alla periferia di Mestre. Una struttura insalubre dichiarata del tutto inagibile dalla Asl per «gravissime carenze igieniche e sanitarie». Il ministro Maroni, che al campo Sinti aveva dedicato una delle quattro visite a Venezia, l’aveva saputo il giorno dopo, come tutti i cittadini. Il blitz – un corteo di lampeggianti nella notte – aveva vanificato mesi di barricate leghiste. Una vera beffa. Il Carroccio, mosso dalla sua consueta empietà politica e abiezione morale, non voleva dare quelle casette ai Sinti. Per questo era arrivato a fomentare la guerra tra poveri facendo demagogicamente balenare l’ipotesi di destinare i prefabbricati agli anziani del quartiere o alla peggio di lasciarli inutilizzati. La notte del trasloco nel nuovo campo di via Vallenari, il prefetto sia pur preavvertito dal comune si era guardato bene dal comunicare tempi e i modi del trasferimento al ministro degli Interni, con il quale stava cenando in occasione di una manifestazione ufficiale. La circostanza è stata considerata un vero e proprio “sgarbo” dall’inquilino del Viminale. Da qui la rottura del «rapporto fiduciario», hanno fatto sapere gli ambienti leghisti della provincia che avevano immediatamente chiesto la sua testa. «Il prefetto non poteva agire senza informare il ministro», hanno sostenuto, furiosi per lo smacco subito. Mesi di barricate andate in fumo. E così Lepri è stato collocato in posizione di “fuori ruolo” presso la presidenza del consiglio dei ministri per assumere l’incarico di Commissario dello Stato per la Regione Siciliana. Eppure sulla legittimità del trasloco c’era ben poco da obiettare. La decisione rientrava nei poteri del sindaco Cacciari ed era sostenuta dalle sentenze del Tribunale amministrativo regionale e del consiglio di Stato che avevano rigettato tutti i ricorsi. Ai leghisti e al ministro Maroni non è piaciuto quello che hanno ritenuto un atteggiamento di connivenza del prefetto col sindaco. Pretendevano al contrario che da parte sua ci fosse un atto delatorio che permettesse loro di organizzare il boicottaggio dell’operazione con blocchi stradali e azioni squadriste contro la carovana in movimento, favorite dalla tolleranza attiva del ministro degli Interni. Nel comportamento tenuto del prefetto, che pure in agosto aveva ricevuto l’incarico dallo stesso Maroni, sono emerse in realtà solo considerazioni legate alla necessità di evitare disordini dovuti a possibili degenerazioni dell’ordine pubblico. Questa vicenda dimostra quale sia la natura depravata dell’occupazione leghista del potere. L’idea che il territorio e l’amministrazione pubblica siano cosa propria, una sorta di “cosa nostra padana” accompagna la faziosa gestione del ministero degli Interni, trasformato in bunker dell’intolleranza, connivente con le violenze e le angherie leghiste e fasciste nelle zone d’osservanza padana. Una macchina della violenza istituzionale che bracca migranti e nomadi, bastona lavoratori, precari, studenti. La notizia della rimozione del prefetto ha suscitato i duri commenti del sindaco Cacciari che ha definito la decisione frutto di una politica «rozza, intollerante e ancora prima e ancora peggio stupida». Per Gianfranco Bettin, consigliere regionale dei Verdi, l’allontanamento del prefetto è «un atto nello stile dei regimi autoritari: al posto del federalismo vogliono i federali». Anche Giancarlo Galan, dopo essere stato estromesso dalla ricandidatura a governatore per far posto alla Lega, ha d’improvviso scoperto che «mala tempora currunt».

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Le ronde non fanno primavera

Da Padova a Forlì il mercato delle ronde apre la strada alla privatizzazione e politicizzazione della sicurezza

Paolo Persichetti

Liberazione 1 marzo 2009

Dopo l’entrata in vigore del decreto legge sulle ronde, in molte parti d’Italia si assiste ad un proliferare di «associazioni di volontari per la sicurezza», intenzionati a presidiare il territorio con funzioni ausiliarie delle forze dell’ordine.
A Padova, militanti di An e della Lega sono scesi in alcuni quartieri fino a quando hanno trovato la strada sbarrata dai giovani dei centri sociali. Un po’ di sberle e l’intervento della polizia hanno messo fine ad all’iniziativa.1209814452821_00c42305
L’indeterminatezza e la prosa allusiva contenuta nel testo varato dal governo lo scorso 25 febbraio hanno lasciato ampio spazio alle interpretazioni più pericolose e così si è immediatamente scatenata la corsa all’accaparramento del mercato politico-mediatico delle ronde. Il testo approvato, infatti, pur dando priorità alle associazioni composte da personale delle forze dell’ordine in congedo, estende il ricorso alla collaborazione con i comuni ad ogni altro tipo di «associazione tra cittadini non armati», purché compaiano in un’apposita lista depositata in prefettura e non usufruiscano di finanziamenti pubblici. Formulazione che sembra aprire al finanziamento privato della vigilanza, sul modello delle «agenzie private di sicurezza» teorizzato dai partigiani dell’ultracapitalismo selvaggio, come lo studioso americano Robert Noizick.
Ritagliato su misura sulle esperienze di vigilanza locale già sperimentate nelle cittadine governate da amministratori leghisti, l’impresa delle ronde è diventata subito un terreno d’accesa competizione per il controllo del territorio tra schiere di leghisti e squadre di An, Storace, Forza nuova e Fiamma tricolore.
guardianazionalepadanaks5A Verona la giunta comunale ha istituito gli «assistenti civici», ad Udine la Lega ha annunciato la creazione di ronde entro il mese. A Milano come a Napoli agiscono da tempo i City angels e i Blue berets. A Torino e Ferrara giovani di An sono scesi in strada, mentre a Trieste Fiamma tricolore sta organizzando ronde intitolate alla memoria di Ettore Muti. A Bologna ci sono state iniziative episodiche di An, Forza nuova e Lega. A Forlì la Lega ha creato delle «ronde civiche». A Roma invece è molto attiva la Destra di Storace che ha sguinsagliato i propri militanti e annunciato la nascita di «ronde rosa» nel quartiere dell’Eur. Il più delle volte si tratta d’effetti d’annuncio, scimmiottamenti mediatici con pettorine colorate di fronte a tv e fotografi, ma la tendenza a strutturare “squadrette”, camuffando un rinnovato squadrismo sotto le vesti delle milizie cittadine volontarie, è ormai avviata, al punto che anche La Russa, il ministro della Difesa che inizialmente aveva dato voce alle perplessità dell’arma dei carabinieri, ora si è detto favorevole. Anche lui prevede che i civili possano far parte dei cosiddetti «pattuglioni», ovvero una militarizzazione del territorio allargato non solo alla presenza di polizia e carabinieri, ma all’esercito, che già sorveglia i semafori, e alla polizia penitenziaria, guardia di finanza, forestale (e perché no anche ai guardiacaccia e guardiapesca?). Un’Italia, insomma, che assomigli sempre più al piazzale di una caserma con adunate e alzabandiera mattutini.
«Riprendiamoci la città» era uno degli slogan che più echeggiava negli anni 70. Lanciato da Lotta continua venne ripreso durante il movimento del 77, dove risuonò come una slavina durante gli enormi cortei. Dietro questa parola d’ordine agiva il protagonismo di soggetti deboli e misconosciuti, la partecipazione irruenta dei senza parola alla vita pubblica contro ogni forma di sfruttamento, sopraffazione, carovita, per un uso pubblico e sociale della città, dove trovassero soddisfazione i bisogni dei cittadini, reddito, trasporti, verde, cultura, spazi di socialità, musica, feste.
Mai il senso delle parole ha potuto segnare la direzione di un’epoca come in questo caso. Ciò che allora voleva indicare la riconquista condivisa dello spazio pubblico, un allargamento della cooperazione e della socializzazione, l’uscita dai ghetti della fabbrica, dei quartieri dormitorio, del privato, ora indica l’esatto opposto.
Oggi a lanciare questo slogan sono le truppe del Carroccio e le squadre della destra che coagulano gli interessi particolaristici dei bottegai, di cittadini blindati nei loro villini a schiera, di lavoratori atterriti dalla crisi economica.
Ma le ronde non fanno primavera.