Oreste Scalzone, «La catastrofe dell’ideologia lavorista»

Una riflessione di Oreste Scalzone sul feticcio del lavoro che non sfrutta soltanto ma uccide, a partire dalle vicende Dell’Ilva di Taranto, della Fiat di Pomigliano e dell’Alcoa di Portovesme. «L’ideologia lavorista è una catastrofe che blocca la pensabilità di un possibile diverso

di Oreste Scalzone 19 ottobre 2012

Domani, Cgil e Fiom sfileranno a Roma, con una “grande manifestazione” da piazza San Giovanni a cui – scrive il manifesto – parteciperanno «ben 15 pullman di lavoratori che da Taranto partiranno alla volta della capitale, raggiungendo i colleghi metalmeccanici delle grandi aziende in crisi come l’Alcoa di Portovesme, Fiat, Finmeccanica, sino alla Vinyls di Porto Marghera».
Lo slogan-cappello generale è sintomaticamente orrido, raccapricciante: «Il lavoro prima di tutto !»  fa pensare ai più svariati lavorismi: da quello utilitarista-liberale dei classici dell’Economia politica (il capitalismo è la società “fondata sul lavoro”…), alle variazioni su tema fasciste, naziste, collaborazioniste (dal “Palazzo della Civiltà del Lavoro”, all’infinitamente sinistro infame “Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi” inscritto sul frontone dell’entrata ad Auschwitz-Birkenau; al “Patrie Famille Travail”, “Patria Famiglia Lavoro”, divisa dello «Stato francese» della collaborazione pétainista); alle versioni social-democratiche, sindacalistiche, staliniste e più ingenerale dei regimi di «socialismo reale», contraffazione del comunismo «spettro aggirantesi per l’Europa», tra il ’48 e la primavera ’71 della Comune di Parigi, contraffazione statalista, tecno-economicista, fabbrichista, vera e propria controrivoluzione in abiti rivoluzionari di conio lassalliano-kautskiano…
Il feticcio del lavoro come blocco della pensabilità del possibile, anchilosi intellettuale che non riesce a pensare oltre la ‘naturalizzazione’ e ‘teizzazione’ delle forme storiche, tecno-economico-societali-politiche, della “Modernità”, viene riproposto nel modo più subalterno, con una sorta di “cupidigia di servilismo”, spasmodico desiderio mimetico.
A Taranto, questa posizione è smascherata e nuda. Girano filmati con sindacalisti Fim e Uilm che tessono in modo nauseabondo, senza neanche l’astuzia di un bemolle ipocrita, le laudi del padrone; che raccontano che l’Ilva era inquinante, ma poi…la proprietà ha fatto tanto, investito tanto…., ora è diverso, rimarrà pure qualche problema, ma sono dettagli, bazzecole, pinzillacchere…
Questi “lavoratori” che finiscono per essere (come sempre i gialli, i crumiri) degli squallidi burattini del padrone – e tanto peggio se essendosi convinti di quello che van dicendo…, rischiano di portare gli altri (e di andar loro) allo sfacelo peggiore : perdenti, obiettivamente “collaborazionisti”, e ben partiti per fare da parafulmine, schermo e ‘testa di turco’, oggetto di odio e disprezzo, maledetti da tutti…
All’ILVA, non c’è spazio per sfumature, non c’è scampo: o si impugna l’asta di una bandiera che nell’immediato coagula e sprigiona forza sulla parola d’ordine, «Chiusi gli altoforni, in libertà dal lavoro a salario pieno a tempo indeterminato!», o si destina, ci si lascia destinare, ci si fa destinare, con connivenza attiva “servo/padronale”, ad un destino che permetterà di dire di quanti avranno seguito questa deriva, l’oltretutto ridicolo, ineffettuale e velleitario, illusionistico e miserabile assieme, “pragmatismo” del’ “il lavoro prima di tutto”, quello che recita la penultima frase del Processo di Kafka: «E pensò, che soltanto la vergogna gli sarebbe sopravvissuta».
In altri termini e altri codici, “perder l’anima, per niente”, per un pugno di mosche, e neanche. Parafrasando la celebre frase di uno statista, dunque in quanto tale, Nemico, ai politicanti britannici, si potrebbe dire, «Potevate scegliere fra la capitolazione e la lotta, fra la servitù e l’indipendenza. Avete scelto la capitolazione e la dipendenza, e avrete anche la sconfitta».
Non abbiamo paura di doverci scontrare fra proletari, e con altri proletari: a Taranto è oggi chiarissimo, non c’è chi non possa vederlo, che la coppia lavorismo-statalismo, l’identificarsi come forza-lavoro, “capitale variabile” (con tutte le ideologie di sostituzione, di diversione, che ne derivano), costituisce la forma specifica, autodistruttiva, di una “controinsurrezione preventiva” nel seno stesso delle moltitudini sfruttate, oggetto di sopraffazione, di tentativo incessante di vampirizzarne la potenza, e lasciare il frutto spremuto, schiacciarlo fino all’annichilazione.
Non pensiamo sia risposta adeguata quella di una parzialissima, pallida presa d’atto della catastrofe dell’arroccamento lavorista e della velleitaria illusione di difendere status quo ante, o ritornarvi, in termini di formulazione di “pani di riorganizzazione della società”, in bilico fra mera dimostrazione alla lavagna, tacciabile al contempo di velleità di riforma della regolazione sociale, o di utopistica “pasticceria del futuro” – insomma, sempre attaccabile come “troppo o…, troppo e  troppo poco”, anzi, proprio un’autocontraddizione al ribasso.  Come “pieno impiego” o “Stato sociale”, o “il lavoro non si tocca”, la formula «Diritto al reddito» ci sembra far torto alla sostanza.
Il cinismo della misantropa Fornero (come spesso la sfrontatezza di certi “poterosi”) diceva il vero: non esiste, men che mai nella Costituzione, un «Diritto al lavoro», così come appare difficile pensare ad una modificazione della «costituzione materiale», e di seguito «formale», che inscriva come «diritto esigibile» il posto di lavoro, o il reddito universale incondizionato, d’esistenza. Nell’aria di guerra sociale dall’alto che, come osserva Foucault, spira dietro le concettualizzazioni vuotamente giornalistiche sulla crisi, non è per vie “cittadinistiche” o “demo-parlamentari” che il servilismo “lavorista”  può essere morbo debellato, e per lo più in fretta, prima che il cavallo stramazzi e, stramazzato proprio, diventi carcassa e carogna.
Nojaltri (che non ci rassegnamo a dire che l’unica cosa che resta è un camusiano “mi rivolto, dunque sono !”, che comunque – nelle più diverse motivazioni, filiazioni, forme – è estremo ridotto che chiama rispetto), vorremmo provare a pensare e ripensare e tentar di praticare, con altri, una “filosofia pratica” che non rinunci, a dispetto di tutto, ad aver l’occhio al ‘comune’.
Momenti, percorsi, insorgenze, forme, confluenze, coalescenze, ‘aggrumazioni’, di forme di vita, di pratiche, di relazioni, di lotte, di ribellioni e rivolte, persistenti, che zampillano e vengono e rivengono…, producendosi in situazione, in modo variato, con singolarità che costituiscono contrappunto ed hanno un ‘fondo’ comune, ci sembrano la strada di una scommessa da tentare.
Se – per stare all’esempio – è una rete operaia che introduce, entrando a gamba tesa e disvelando un’evidenza occultata, ponendo in un tessuto vivo la rivendicazione elementare di “messa in libertà da lavoro a salario pieno a tempo indeterminato”, questa ‘cosa’ non è “corporativa”, non è forma di legittimismo identitario che pretende riesumare una “centralità oggettiva e soggettiva” in sé, di per sé, che abbia valenza universale.
Se, con una sorta di emulazione, di dinamica che fa leva su un precedente, un ventaglio, un caleidoscopio di lotte si sprigiona da altri strati e ‘territori esistenziali’ (uomini, donne, giovani e meno e ancor meno, precari, disoccupati, inoccupati, cassintegrati, “call-centeristi”, cassiere, “cognitari” o supersfruttati a chiamata, “fannulloni dai mille mestieri”, strati di “classes dangereuses”, & ancor’oltre, “soggettività rivoltose qualunque”…), sarà così, tra secessioni e sollevazioni, sabotaggi e sforzo di strappare e acquisire mezzi materiali di vita immediata, e anche da possibile “infrastruttura” di pratiche d’alterità…, ecco : pur senza sicumère, oltre lo stesso disincanto, i dubbi che assalgono, ma anche il sentirsi – per parafrasare Semper eadem di Samuel Beckett – «sgomenti, atterriti di amare, e non questa cosa ; di essere appassionati da ‘altro’, portati, e non da questa ‘cosa’ “, forse si può riprovare e riprovare ancora…..».

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Pomigliano, presidio permanente dei cassintegrati. In tenda davanti ai cancelli Fiat con il megafono di Oreste Scalzone e il sax di Daniele Sepe

In gemellaggio con i lavoratori di Mirafiori i Cobas hanno iniziato la loro protesta fuori dal Gianbattista Vico. L’ex rsu: “Regna un clima di paura perché Marchionne ha dato lavoro a pochi e lascia a casa tanti altri”

http://www.ilmanifesto.it 8 ottobre 2012

Iniziativa congiunta con gli operai di Mirafiori, una tenda montata davanti all’ingresso 2, Oreste Scalzone, ex leader di Potere operaio e il sassofonista Daniele Sepe a unirsi alla protesta. E’ questa la giornata di protesta messa in piedi dai Cobas per “rilanciare la lotta per la drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per il diritto al reddito incondizionato e universale” e annunciare il presidio permanente davaniti lo stabilimento Gianbattista Vico di Pomigliano. Sono, infatti, strettissimi i tempi in attesa dei piani di Sergio Marchionne che dovrebbe rendere noto a fine ottobre il nuovo piano industriale accantonando il progetto della Fabbrica Italia e i timori delle tute blu sono forti. La metà dell’organico ancora non è stata richiamata alle linee di produzione. “Ancora una volta la Fiat – spiegano – usa la leva occupazionale per avere agevolazioni, incentivi pubblici, mentre gran parte della produzione e’ stata delocalizzata in altri Stati. Intanto nello stabilimento di Pomigliano continua la cassa integrazione che coinvolge circa duemila operai, e situazione simile si registra anche a Mirafiori. Adesso – concludono gli operai – bisogna dire basta a tutto questo, e cominciare a lottare per difendere il nostro lavoro”. Diversi cartelli e striscioni contro l’ad di Fiat, il governo Monti sono stati esposti davanti ai cancelli, tra questi due lenzuoli all’ingresso: Operai studenti disoccupati ricomponiamo la classe e Da Pomigliano a Mirafiori uniamo le lotte alla Fiat. ”Questa fabbrica deve diventare il trampolino per coordinare tutti gli operai Fiat in Italia – ha spiagato Vincenzo Caliendo dei Cobas – da tempo sosteniamo che Marchionne sta prendendo in giro tutti, ed ora, davanti alle insistenze del Governo, non ha potuto fare a meno che rivelare che il piano Fabbrica Italia è fondato sul nulla. Anche qui a Pomigliano ha assegnato un contentino, perché la Panda non serve a nulla, se non ad aver creato una guerra tra poveri, levando un modello ai colleghi operai della Polonia. Ma non ci sono altre prospettive”. L’ex rsu, infine, racconta che “A Mirafiori come a Pomigliano e negli altri stabilimenti Fiat in Italia, regna un clima di paura perché Marchionne ha dato lavoro a pochi e lascia a casa tanti altri, che temono di non poter più rientrare. E’ per questo che dobbiamo lottare tutti insieme, in modo da lavorare tutti”.


Corrispondenza di Oreste Scalzone davanti ai cancelli della Fiat di Pomigliano

Uno spettro s’aggira per l’Italia. Ecco la scheda che il Sole 24 ore ha dedicato alla presenza di Oreste Scalzone davanti ai cancelli di Pomigliano

Da Arese a Pomigliano: il ritorno di Oreste Scalzone. L’ex leader di Autonomia operaia con gli operai Fiat

di Antonio Larizza
Sole 24 ore 8 ottobre 2012

Oreste Scalzone davanti ai cancelli della Fiat di Pomigliano – Ansa

I vecchi operai dell’Alfa Romeo se lo ricordano ancora, Oreste Scalzone, mentre negli anni ’70 si aggirava dalle parti di Arese su una vecchia Fiat 500, dormiva a casa dei compagni e tra un panino e una sigaretta spiegava alle tute blu che erano lì «non per fare automobili, ma per cambiare il mondo».

Il ritorno a Pomigliano 
Oggi, ad Arese l’Alfa Romeo di un tempo non c’è più. Ma lui, invecchiato e senza Fiat 500, è ancora lì, al fianco degli operai. Questa volta a Pomigliano. Nel giorno in cui Fiat finisce nel mirino per una presunta indagine della Consob sulla liquidità del gruppo torinese – e a Mirafiori e Pomigliano lavoratori organizzano presiti contro Monti e Marchionne – l’ex-leader di Autonomia operaia manifesta insieme alle tute blu che chiedono «la drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario».

Chi è Oreste Scalzone 
Scalzone?
E’ stato fondatore ed esponente delle organizzazioni politiche extra-parlamentari Potere operaio e Autonomia operaia. Nel 1968, insieme a Franco Piperno, guida i movimenti studenteschi e partecipa agli scontro di Valle Giulia, che segneranno una svolta nella contestazione politica. In quell’anno rimane ferito gravemente alla spina dorsale, colpito da un banco lanciato dall’ultimo piano della facoltà di Giurisprudenza. 
Tra il ’68 e il ’69, l’uomo che oggi sfila insieme agli operai Fiat frequentava Parigi, stabilendo contatto con il movimento studentesco del maggio francese.

Da Potere Operaio ad Autonomia Operaia

Nel 1973, è lui stesso a riferirlo, contribuì a organizzare al fuga all’estero dei membri di Potere operaio condannati per omicidio preterintenzionale del Rogo di Primavalle. L’attentatò mando però in crisi i movimento, che venne sciolto. E Scalzone aderì ad Autonomia operaia.

L’ordine di arresto e la fuga a Parigi

Il 7 aprile del 1979 il magistrato padovano Pietro Calogero ordina l’arresto e la carcerazione preventiva dei vertici delle due organizzazioni, soprattutto docenti universitari e intellettuali, con l’accusa di partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapina. Il conseguente processo, che sarà ricordato come processo «Prima Linea – Cocori (Comitati Comunisti Rivoluzionari)», condanna Oreste Scalzone nel 1981 a 16 anni di reclusione. Nello stesso anno, approfittando della libertà provvisoria ottenuta grazie a problemi di salute, fugge in Corsica con l’aiuto dell’amico Gian Maria Volonté; dopo un passaggio a Copenaghen, raggiunge Parigi in settembre.

La dottrina Mitterrand
Parigi in quegli anni dà rifugio ai ricercati italiani applicando la visione del Presidente François Mitterrand, secondo cui è vietata l’estradizioni per atti di natura violenta, ma d’ispirazione politica (dottrina Mitterrand). Scalzone rimane a parigi fino al 2007, quando, in seguito alla prescrizione dei reati, torna in Itala senza dover scontare la pena.

Il ritorno in Italia dopo la prescrizione
Scalzone viene riaccolto in patria da intellettuale. Rilascia interviste sui media nazionali, e interviene durante programmi tv e manifestazioni sindacali e studentesche (celebre fu il suo intervento alla statale, nell’aula Magna, invitato dagli studenti del movimento dell’Onda). Da diversi anni è anche tornato a fare politica.

Di nuovo in lotta a Pomigliano
Quello di oggi non è una comparsa isolata. Scalzone da diversi mesi partecipa alla lotta degli operai di Pomigliano d’Arco, presidiando parecchi eventi organizzati. Ma, a differenza di quanto accadeva all’Alfa di Arese, oggi l’ex leader di Autonomia operaia non si è presentato al volante della sua vecchia Fiat.

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Ilva è veleno via dalle officine a salario pieno
Ilva, a Taranto finisce la classe operaia del sud
Cronache operaie

Il metodo argentino di Marchionne: in fabbrica paura e sfruttamento

Alla Fiat di Cordoba 12 ore di lavoro per 6 giorni alla settimana. Per gli operai pressioni, fatica, straordinari, malanni e punizioni. E’ questo il destino argentino che attende Mirafiori e Pomigliano se vinceranno i si al referendum

Lorena Capogrossi Università di Cordoba-Argentina
Elisabetta Della Corte e Paolo Caputo Unical

Non si uccidono così anche i cavalli? è un film di Sidney  Pollack del 1969. Nell’America in crisi degli anni ’30 un gruppo di persone, costrette a fare di tutto per vivere, partecipa ad una maratona di ballo in vista di un premio in soldi.  Ballare per ore e ore, muoversi melanconicamente per necessità fino allo sfinimento; alcuni dopo ore si ritirano, altri stramazzano al suolo. Da qui la domanda: non si uccidono così anche i cavalli?  Pensate ora ad un operaio Fiat argentino, costretto a lavorare anche per dodici ore al giorno, per sei giorni a settimana, con i tendini infiammati, la schiena a pezzi e lacrime che scorrono giù lungo il viso per il dolore. Ma non si uccidono così anche i cavalli?
Veniamo al caso italiano, al nuovo contratto Fiat per gli operai di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, e alle analogie e differenze con il caso argentino. Marchionne ha in testa un modello di governabilità del tipo “obbedire per competere”, che somiglia molto a quello argentino, e lo ha imposto di forza anche in Italia con la compiacenza di Cisl e Uil. Fuori dai piedi, quindi, i vecchi diritti, con l’imposizione della mordacchia per la riluttante Fiom; e via libera alla flessibilità spazio-temporale e al disciplinamento stretto degli operai. In tempo di crisi, anche se la Fiat ha infilzato all’amo un piccolo investimento di 700 milioni di euro, non pochi sono disposti ad abboccare.  E dal momento che il manager fa bene il suo lavoro, e sa che, minacciando di spostare la produzione verso nuovi “paradisi” dello sfruttamento, avrà più possibilità di imporre ciò che vuole ad un’italietta sempre pronta a genuflettersi ai piedi di un imprenditore globale, non c’è da meravigliarsi dei risultati dei referendum. Ma, al di là di questo vecchio vizio d’arroganza della casa automobilistica, cerchiamo di capire quali sono le conseguenze dell’accordo sulla vita degli operai. L’operaio ideale che dovrebbe uscire dalla disciplina Marchionne dovrà parzialmente rinunciare al diritto di sciopero, accettare turni di lavoro umanamente insostenibili e straordinari sotto il ricatto di punizioni e licenziamenti, come già accade in Argentina. A differenza dell’Italia, lì, però, gli operai sono pagati con un salario che per la realtà Argentina è alto: circa 4000 pesos è quello base (un maestro ne guadagna quasi 3000) che con gli straordinari arriva a circa 7000, quasi 1400 euro.
Tuttavia, quel salario, ha un costo umano enorme; a spiegarcelo sono gli stessi operai Fiat di Cordoba: anche se il contratto prevede otto ore giornaliere, con due pause da 15 minuti a cui si sommano i trenta della mensa a fine turno, gli straordinari sono diventati di ordinaria amministrazione. Lo straordinario, secondo quanto stipula il contratto collettivo di lavoro e la legge laboral vigente, sono opzionali. Però in pratica, si utilizzano sottili meccanismi di pressione, che obbligano i lavoratori a sottomettersi a giornate di lavoro prolungate. In questo modo si viene inghiottiti dalla fabbrica  alle sei del mattino e se ne esce dopo 12 ore; poi il tempo di tornare a casa, cenare e via a dormire, ogni giorno per sei giorni a settimana.  Dopo un po’ di tempo iniziano i malanni fisici anche nel caso di operai giovani; sicché molti sono quelli che,  nonostante i dolori lancinanti, non lasciano la linea per paura di perdere il posto.
Salario e miedo (paura) sono  i termine che più di frequente ritornano nelle  interviste con gli operai fiat di Cordoba, li usano per spiegare le ragioni per cui  accettano quelle condizioni  di lavoro. E’ necessario tenere presente, che l’esperienza degli anni ’90 ha lasciato la sua impronta nella memoria collettiva dei lavoratori. Con livelli di disoccupazione che superavano il 13%  della Pea (Popolazione economicamente attiva) nel 1999 e la pauperizzazione crescente di milioni di lavoratori, il miedo, la paura, diventò un’arma fondamentale del capitale per imporre le sue condizioni di sfruttamento. Anche così, oggi, nonostante il peso di quel passato e  l’aggiunta di incentivi per favorire la fidelizzazione all’impresa, quel regime di prestazione psico-fisica, fatto di attenzione e forza fisica, che sfiancherebbe anche un giocatore di rugby, fa sì che il controllo della forza-lavoro vacilli di frequente. Quasi ogni mese, spiega un operaio, la politica del “miedo” viene ribadita con le punizioni esemplari, ovvero, i licenziamenti utili non solo per allontanare le “pecore nere” ma anche per riportare alla docilità gli altri operai. I licenziati, però, non devono comparire come tali ma come dimissionari, perché la Fiat, nell’accordo siglato con il governo di Cordoba – in base alla legge 9727 del programma di promozione e sviluppo industriale della provincia- si impegnava a non licenziare in cambio di consistenti agevolazioni, come, ad esempio, un forte sconto sul costo dell’energia elettrica. Fatta la legge trovato l’inganno: gli operai vanno via, nella maggior parte dei casi, con un foglio di dimissioni e un po’ di soldi in tasca, una sorta di incentivo all’uscita. Ma cerchiamo di capire come si è arrivati a questo e quali altre similitudini presenta il caso argentino con quello italiano.  Nei primi anni ’90, in Argentina, sempre in tempo di crisi, così come in Italia oggi, si mandarono al macero una parte dei diritti sul lavoro per attrarre gli insediamenti delle multinazionali favorendo le contrattazioni di secondo livello, quelle aziendali. Da lì in poi le multinazionali dell’auto Fiat, Peugeot, Volkswagen, hanno potuto fare a Cordoba il bello e il cattivo tempo, ognuna con il suo contratto e con un solo sindacato (Smata), che registra molti tesserati ma pochi consensi. Anche in Argentina in quegli anni prevalse il discorso sull’efficacia degli investimenti per la ripresa economica ed occupazionale, trasformando gli sfruttatori in benefattori; anche lì si gonfiarono i dati sulla presunta ricaduta occupazionale e si dragarono in cambio vantaggi e incentivi.
Infondo tutti sanno, operai, sindacalisti e sociologi del lavoro, che in quelle fabbriche- dove il sistema di produzione è stato adeguato al World Class Manufacturing (Wcm), il nuovo cavallo di troia ideato dai padroni del settore auto per ampliare controllo e disciplina sotto l’apparente neutralità delle esigenze produttive- le condizioni di lavoro sono peggiorate. In linea, come racconta un operaio,  per stanchezza capita di addormentarsi con la saldatrice in mano; e gli incidenti da accumulo di fatica aumentano di giorno in giorno. Per tamponare  questi ed altri danni, la Fiat ha in loco delle cliniche e perfino un ospedale collocato proprio di fronte alla fabbrica d’auto. Questa rete di luoghi di cura è molto utile anche per contenere le informazioni e oscurare i dati sullo stato di salute degli operai, cosa che può sempre tornare utile nel caso in cui qualcuno si decida ad uscire allo scoperto e  denunciare.
Questo è lo scenario  che gli operai Fiat di Pomigliano e Mirafiori si troveranno a vivere nei prossimi mesi. Anche se è prevedibile che questo regime disciplinare sia destinato a provocare resistenze, dallo sciopero generale alle proteste fabbrica per fabbrica, rimane il fatto che spremere come limoni migliaia di operai per favorire un settore decotto come quello dell’auto sia una scelta strategia catastrofica non solo in termini economici ma anche e soprattutto umani. Prima di assecondare il modello Marchionne, come fanno Chiamparino, Fassino e altri invasati del tardo industrialismo, ci si dovrebbe chiedere quali saranno le conseguenze tanto sui produttori quanto sui consumatori. Su questo tema, nonostante le attente segnalazioni di Guido Viale, le mancanze riguardano anche il sindacato e la classe operaia, incapace di immaginare un modello diverso da quello esistente. Se si segue la discussione di questi giorni, tra le colpe imputate alla Fiat dalla Fiom troviamo l’assenza di investimenti in ricerca e sviluppo, ovvero la mancanza di nuovi modelli di auto. Questo è vero, ma a ben guardare si tratta di osservazioni che sottendono la condivisione di un modello conservatore che individua nello sviluppismo e nell’aumento della produzione una risposta alla crisi globale. Il punto nevralgico della questione, che purtroppo viene del tutto oscurato in questi giorni, è piuttosto il tentativo di individuare una strategia d’uscita dal pantano del ricatto Fiat.
Se la discussione rimarrà imbrigliata sulla rivendicazione del diritto al lavoro e non sull’esodo da lavori disumani, in quel pantano si rischierà di affogare, accettando uno sfruttamento accresciuto, indignandosi di tanto in tanto per i diktat del manager e le strette disciplinari. Infondo, se si stagna in questa situazione è anche per i ritardi accumulati dall’Italia in termini di welfare e misure redistributive. Basti pensare che solo di recente, con gran ritardo, a  bassa voce, a seguito dell’acuirsi della crisi e della disoccupazione, una parte della sinistra, e ivi compresa la Fiom, ha inserito nell’ordine del discorso una timida rivendicazione per il salario di cittadinanza, soldi sganciati dal lavoro per i giovani, dopo che l’argomento quasi gli era stato soffiato via da Brunetta.
Eppure la storia insegna, non reagire in tempo ad una violenza comporta dolorose conseguenze. Non aver ragionato in tempi utili sulle strategie di esodo dalla grande impresa e più in generale dallo sviluppismo è una colpa che da qui in poi si dovrà pagare.

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Scioperi spontanei e solidarietà operaia nelle officine Sata di Melfi
Il Marchionne del Grillo e l’operai da Fiat
Marchionne secondo Marx