Flop del raduno nazionale di CasaPound: «Chi ci attacca è infame come i partigiani»
Alberto Piccinini
il manifesto 8 maggio 2010
«Ecco perché abbiamo deciso che il 7 maggio scenderemo ugualmente in piazza. Con migliaia di uomini e di donne che hanno ancora ‘quella strana luce negli occhi’ e il sorriso degli invitti». Così Gianluca Iannone, leader di CasaPound Italia, a proposito del divieto della manifestazione del Blocco Studentesco, ieri a Roma. La lettera si intitola «una risata vi seppellirà». E’ in Rete. Uno pseudo-Mogol, un D’Annunzio liceale (invitti), gli indiani metropolitani: per entrare nel pantheon dei fascisti del terzo millennio c’è da far la fila. Per entrare a piazza Esedra, ieri mattina, molto meno.
Sono scesi ugualmente in piazza in tremila, numero dichiarato dal sito di Blocco Studentesco ieri. I ragazzi e ragazze sulla ventina arrivati da mezza Italia a sostenere i candidati alle elezioni universitarie saranno pure un po’ meno di così [in realtà solo poche centinaia], ma non è questo il punto. Parla il candidato Francesco Polacchi, in camicia azzurra, aria vagamente skin, già immortalato nelle riprese e nelle foto degli scontri a piazza Navona: «Quelli che ci attaccano sono infami come i loro nonni partigiani – dice – il nostro cammino sarà la loro distruzione, perchè siamo noi il futuro». Attacca: «La chiamano Liberazione, in realtà è una sconfitta militare».
Apologia di fascismo? Più che altro sembrerebbe un rebus a chiave. Tra fascismo «e» terzo millennio, CasaPound ama camminare sul filo dei paradossi. E’ un movimento paradosso, quasi una boy-band creata in provetta. Kitsch fascio, cialtronesco pop come i gadget di Predappio, le madonne di Lourdes, i badge di Lenin. D’Annunzio, Marinetti. Marciare sì, ma sulle uova. È la versione radicale e liceale del “compagno Fini”, se volete una battuta facile. Orfani della politica come quasi tutti, prima che dell’Msi, quelli di CasaPound amano cercare e sedurre i propri interlocutori, meglio se di sinistra. Per ognuno che li ascolta segnano un punto a favore.
Esibiscono striscioni. Vendono fanzine. Ascoltano gli ZeroZeroAlfa e Rino Gaetano, Il cielo è sempre più blu. Adorano le t-shirt: «Parte uno, partono tutti». Gli striscioni: «Giovinezza al potere». T-shirt: «Hate for breakfast» (Odio a colazione, è una band skin di Viterbo, sottotitolo fascist and furious). T-shirt: «Ritti sulla cima del mondo» (è il manifesto di Marinetti). Striscione: «17 anni per tutta la vita». Su un muro: «Una sola cosa: restare vivi in un mondo di rovine». E’ una subcultura che può vantare di avere un dono del cielo per scrivere lapidi.
Quelli del Blocco, quelli di CasaPound sventolano bandiere tricolori con gesti da professionista, tipo sbandieratori di Cori. Fanno garrire le bandiere nere col cerchio e il lampo. Le loro bandiere. Tanto somiglianti al vessillo del British Union of Fascism, il movimento fascista inglese di Oswald Mosley, tifoso di Mussolini negli anni ’30. Per molto meno in altri tempi David Bowie, che osò mostrare il vessillo in un concerto degli anni ’70, dovette autoesiliarsi a Berlino, mentre in Inghilterra nasceva Rock against the racism. L’esempio non viene a caso perchè la sensazione prevalente, girando per la piazza e nonostante il nero prevalente, è quella di trovarsi in un vertiginoso labirinto di segni piovuti dal tempo.
Qui le subculture inglesi mod, skin, casuals, si danno la mano con gli arditi e gli invitti, i legionari e tutte le falangi. Quelli di CasaPound, quelli del Blocco, si salutano stringendosi gli avambracci, come tanti camerati prima di loro prima che vendessero la casa a Berlusconi, compreso il sindaco Alemanno. A proposito di casa, occupano una casa nell’Esquilino multietnico e propugnano il mutuo sociale. Sostengono di non aver litigato mai con un immigrato, neppure per un parcheggio. Dicono di non essere contro nessuno, a parte il «pensiero unico». E i centri sociali.
Militaristi nemmeno troppo, semmai alpinisti e camminatori. Sommozzatori (hanno un Gruppo Immersioni Subacquee), qualche pugile. Poca curva di stadio. Tifosi del West Ham (vista una sola maglietta, è un vecchio punto di riferimento dei naziskin). La loro capacità di attrazione nel disastrato mondo delle identità politico-giovanili devastate da trent’anni di marchi e mercato, è un fenomeno di per sè. Il rapporto con la revanche fascista è mediato. Meditato. Vorrebbe essere persino ironico, come si usa in tutte le estetiche postmoderne, anche quelle neosovietiche (fu Malcolm McLaren, prima di inventare i Sex Pistols, a ricoprire i New York Dolls di falci e martelli). Ma si può ricreare un’estetica neo-neofascista e sperare di essere accolti da un sorriso? Quale? Il sorriso degli invitti?
Alla fine, il rebus non ha soluzione. Potrebbe voler dire quello che non si può dire. Potrebbe voler dire nulla. Pure questo fa parte del gioco. Non è successo quasi niente. Tutti a casa.
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Più case meno Pound