Dal vertice della Consulta: una replica alle critiche sul ruolo della Corte costituzionale

Francesco Amirante: «Bizzarro stupirsi per la bocciatura di una legge»

Paolo Persichetti
Liberazione 26 febbraio 2010

Non è stato un discorso di rito quello pronunciato dal presidente della Corte costituzionale, Francesco Amirante, nel corso della tradizionale relazione d’inizio anno sulla giurisprudenza costituzionale che precede il consueto incontro con la stampa a Palazzo della Consulta. Rispondendo alle critiche che erano piovute dopo la bocciatura del cosiddetto “lodo Alfano”, Amirante ha difeso il lavoro dei giudici costituzionali ribadendo che la Consulta: «non è un organo politico». Una replica alle dichiarazioni fatte da Gaetano Pecorella, parlamentare e avvocato di Silvio Berlusconi che, all’indomani della sentenza nella quale si dichiarava incostituzionale l’immunità prevista per le più alte cariche dello Stato, ricordava l’opposizione espressa da alcuni costituenti nel corso dei dibattiti che precedettero il varo della Corte costituzionale. Le riserve, se non la dichiarata ostilità, muovevano dal timore che le decisioni di una piccola pattuglia di giudici costituzionali si sovrapponesse all’azione legislativa delle assemblee parlamentari, espressione della volontà popolare. Pecorella aveva ricordato il giudizio molto netto espresso da Palmiro Togliatti in proposito: «La Corte costituzionale è una bizzarria, un organo che non si sa cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema della democrazia, per esserne i giudici». Opinione condivisa anche da molti esponenti del liberalismo pre-fascista, come Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando. Insomma la discussione è di spessore e rinvia ai fondamenti del pensiero democratico e costituzionale. In questo botta e riposta a distanza, Amirante ha replicato che nel dichiarare illegittima una legge votata dal Parlamento, «una Corte o un tribunale costituzionale non compie nulla di strano», ma esegue unicamente le proprie competenze, per concludere che «forse ora la vera bizzarria potrebbe consistere nel meravigliarsene». Nel suo intervento, il presidente della Consulta ha spiegato che «la nostra Costituzione rigida comporta l’abbandono della teoria giacobina, secondo la quale il popolo, esprimendo la volontà generale, può in ogni momento cambiare i principi e le regole della propria convivenza». In realtà, l’assemblea costituente trovò un punto d’incontro tra le due tradizioni filosofiche contrapposte, quella roussoiana e quella kantiano-kelseniana, o se vogliamo quella del potere costituente incarnato dalla sovranità popolare e quello della repubblica elitaria dei saggi, detentori di competenza e sapere. I costituenti non solo non concepirono una costituzione bloccata, l’articolo 138 ammette la riforma della carta sia pur con modalità complesse che richiedono maggioranze qualificate, ma stemperarono l’istituzione della corte attraverso la nomina parlamentare della maggioranza dei giudici in linea con quanto diceva Montesquieu: un giudice legislatore sarebbe arbitrario, un giudice governante oppressore.

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