Dal vertice della Consulta: una replica alle critiche sul ruolo della Corte costituzionale

Francesco Amirante: «Bizzarro stupirsi per la bocciatura di una legge»

Paolo Persichetti
Liberazione 26 febbraio 2010

Non è stato un discorso di rito quello pronunciato dal presidente della Corte costituzionale, Francesco Amirante, nel corso della tradizionale relazione d’inizio anno sulla giurisprudenza costituzionale che precede il consueto incontro con la stampa a Palazzo della Consulta. Rispondendo alle critiche che erano piovute dopo la bocciatura del cosiddetto “lodo Alfano”, Amirante ha difeso il lavoro dei giudici costituzionali ribadendo che la Consulta: «non è un organo politico». Una replica alle dichiarazioni fatte da Gaetano Pecorella, parlamentare e avvocato di Silvio Berlusconi che, all’indomani della sentenza nella quale si dichiarava incostituzionale l’immunità prevista per le più alte cariche dello Stato, ricordava l’opposizione espressa da alcuni costituenti nel corso dei dibattiti che precedettero il varo della Corte costituzionale. Le riserve, se non la dichiarata ostilità, muovevano dal timore che le decisioni di una piccola pattuglia di giudici costituzionali si sovrapponesse all’azione legislativa delle assemblee parlamentari, espressione della volontà popolare. Pecorella aveva ricordato il giudizio molto netto espresso da Palmiro Togliatti in proposito: «La Corte costituzionale è una bizzarria, un organo che non si sa cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema della democrazia, per esserne i giudici». Opinione condivisa anche da molti esponenti del liberalismo pre-fascista, come Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando. Insomma la discussione è di spessore e rinvia ai fondamenti del pensiero democratico e costituzionale. In questo botta e riposta a distanza, Amirante ha replicato che nel dichiarare illegittima una legge votata dal Parlamento, «una Corte o un tribunale costituzionale non compie nulla di strano», ma esegue unicamente le proprie competenze, per concludere che «forse ora la vera bizzarria potrebbe consistere nel meravigliarsene». Nel suo intervento, il presidente della Consulta ha spiegato che «la nostra Costituzione rigida comporta l’abbandono della teoria giacobina, secondo la quale il popolo, esprimendo la volontà generale, può in ogni momento cambiare i principi e le regole della propria convivenza». In realtà, l’assemblea costituente trovò un punto d’incontro tra le due tradizioni filosofiche contrapposte, quella roussoiana e quella kantiano-kelseniana, o se vogliamo quella del potere costituente incarnato dalla sovranità popolare e quello della repubblica elitaria dei saggi, detentori di competenza e sapere. I costituenti non solo non concepirono una costituzione bloccata, l’articolo 138 ammette la riforma della carta sia pur con modalità complesse che richiedono maggioranze qualificate, ma stemperarono l’istituzione della corte attraverso la nomina parlamentare della maggioranza dei giudici in linea con quanto diceva Montesquieu: un giudice legislatore sarebbe arbitrario, un giudice governante oppressore.

Link
Il ruolo delle corti costituzionali tra costituzioni rigide e costituzioni aperte
La farsa della giustizia di classe
Processo breve: amnistia per soli ricchi

Il nuovo odio della democrazia
Cronache carcerarie
Populismo penale

Il ruolo delle corti costituzionali tra costituzioni rigide e costituzioni aperte

Scheda – Il ruolo delle corti costituzionali tra costituzioni rigide e costituzioni aperte

«Kant introduce il concetto di repubblica, invitando a non confonderla con la democrazia» da lui intesa come «la democrazia diretta teorizzata da Rousseau». Qui è in gioco un nodo teorico fondamentale di cui oggi si è persa la pregnanza. Nel corso della storia successiva, infatti, si è operato un lento slittamento semantico e concettuale che ha attribuito alla democrazia i requisiti della repubblica kantiana. Il contrasto tra Rousseau e Kant ruota attorno al fondamento della sovranità e alla nozione di rappresentanza. Per Rousseau la sovranità si fonda sulla volontà generale mentre per Kant il suo fondamento deriva dal possesso della competenza. Per il primo, tutto ciò che allontana l’esercizio della volontà generale (ometto, per semplicità, di ricordare che, secondo Rousseau, la volontà generale non coincide con la volontà di tutti), attraverso il meccanismo della delega, della rappresentanza, introduce un elemento d’alienazione politica, una espropriazione della volontà operata attraverso la costruzione di una separatezza decisiva tra governanti e governati. Lo scrutinio in una tale logica non è più il momento in cui si manifesta la volontà, ma il luogo in cui si realizza il furto della volontà. Non ho a memoria la definizione che Schumpeter offre della democrazia, ma più o meno ricalca il concetto roussoinano della designazione di coloro che più tardi sceglieranno per noi. Secondo Kant, una tale democrazia è inevitabilmente dispotica poiché introduce il rischio della dittatura delle maggioranze. La critica kantiana, però, non va nel senso di una correzione della concezione roussoiana, ma introduce un paradosso che fa della separatezza, della selezione di pochi, gli ottimi, i saggi, coloro capaci d’interpretare l’apriori del diritto naturale e dunque di esercitare secondo misura il governo, il requisito della repubblica. Il modello kantiano avvia il paradigma che ispirerà i regimi liberali, ovvero una rappresentanza di governo affidata a pochi, coloro che sono degni sulla base del censo e della proprietà. I “livellatori” inglesi avevano già teorizzato (contro gli “zappatori”) il nesso libertà-capacità autonoma di sostentamento. L’autonomia, e dunque la capacità di decidere politicamente fuori da possibili ricatti, è data – dicevano – dalla possibilità di provvedere autonomamente alla propria riproduzione sociale. Solo la piccola e la grande proprietà potevano dunque essere parte della polis. E la guerra con gli Ironsides di Cromwell avviene proprio sulla porzione di proprietà che doveva dare accesso alla rappresentanza politica. Chi dipendeva, per servitù o contratto, da un datore di lavoro, un padrone, non essendo emancipato socialmente dalla condizione di schiavitù economica restava indegno della cittadinanza politica perché ricattabile. La repubblica kantiana ricicla elementi della tradizione oligarchica antica. La capacità di distinzione è il suo filo conduttore: dare il governo ai migliori, ai competenti, a coloro che posseggono sapere e proprietà, inscindibile nelle epoche passate. Solo quando il movimento operaio acquisterà forza vi sarà una progressiva correzione con l’introduzione del suffragio universale, fermo restando che l’esercizio della delega resta monopolio dell’élite. Ricordo che gli attuali regimi di governo rappresentativo (che comunemente vengono definiti democrazia) sono il risultato di un compromesso tra tradizione roussoiana, riveduta e corretta, e modello kantiano. La sovranità popolare, mediata dalle rappresentanze parlamentari, è corretta dall’istituto delle corti costituzionali che fondano la loro sovranità non sulla volontà ma sulla competenza. Il dibattito che attraversa la nascita della nazione americana e del suo sistema istituzionale, riportato in quell’eccellente documento che è il Federalist, è interamente traversato dal configgere tra le due anime sociali, la radicalità dell’individualismo proprietario della piccola proprietà coloniale che vede nella tradizione roussoiana un’ispirazione e gli interessi della grande proprietà che guardano a Kant. Per dimostrare, però, quanto la questione sia complessa occorre ricordare che questo schema ottocentesco verrà capovolto a metà del Novecento, quando proprio il ruolo della corte costituzionale americana, ovvero l’istituto figlio della tradizione politica più moderata e aristocratica diventa il grimaldello utilizzato dal movimento dei diritti civili per imporre alla social majority wasp i diritti delle minoranze etniche, sessuali eccetera. Insomma l’esercizio dei saggi, i magistrati dell’alta corte capaci di interpretare la costituzione (rigida) facendovi rientrare i principi del diritto naturale, consente di sancire conquiste progressiste a discapito della volontà discriminatrice della maggioranza. Kant si vendica contro Rousseau ma anche contro coloro che lo avevano interpretato come un avamposto del privilegio. Ovviamente quanto più la costituzione è rigida, tanto più centrale è il ruolo politico della Corte costituzionale chiamata per il mezzo dell’interpretazione ad aggiornarne il senso. Con modelli di costituzione (di tipo giacobino) aperti all’aggiornamento-adeguamento con la costituzione materiale, il ruolo della Corte dovrebbe essere meno centrale e soprattutto meno politico.
Tutti i modelli d’autority, o di expertises politiques (l’attribuzione a esperti di rapporti e studi che contribuiscano a produrre la scelta politica finale) frequenti nella tradizione anglosassone, e ripresi anche da noi, appartengono alla visione kantiana della res pubblica, ovvero all’idea di una competenza legittimata a governare, vigilare e garantire, meglio degli istituti che traggono sovranità dalla volontà, come il parlamento.

Link
Dal vertice della consulta una replica alle critiche sul ruolo della corte costituzionale
Il nuovo odio della democrazia
Cronache carcerarie
Populismo penale

L’abolizionismo penale è possibile, ora e qui

Una corrente di pensiero radicata nella cultura occidentale convenzionale

Vincenzo Ruggiero
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Carcere e castigo


L’abolizionismo è stato paragonato a un vascello carico di esplosivo che naviga nei mari della giustizia penale. Non sono d’accordo. In maniera molto semplice l’abolizionismo, direi piuttosto, è una corrente di pensiero che considera il sistema della giustizia criminale, nel suo complesso, come uno dei maggiori problemi sociali. Rassicuriamoci, quindi, e lasciamo in disparte, per altre occasioni, le immagini di deflagrazione. Forme di abolizionismo penale sono già in funzione, ad esempio, tutte le volte che alcuni segmenti dell’amministrazione centralizzata della giustizia vengono sostituiti da modalità decentrate, autonome, di regolazione dei conflitti. E va chiarito immediatamente che gli autori più noti comunemente associati con questa scuola di pensiero non hanno mai propugnato la chiusura di tutte le carceri domani o dopodomani. L’abolizionismo non è un semplice programma di smantellamento dell’esistente sistema punitivo, un programma che del resto troverebbe non pochi alleati tra chi prova vergogna di fronte alla stragrande maggioranza degli istituti di pena nel mondo.
L’abolizionismo consiste in un approccio, una prospettiva, una metodologia, insomma in un modo diverso di guardare al crimine, alla legge e alla punizione. Osservando i presupposti e studiando le matrici culturali dalle quali prende vita, si può rimanere addirittura imbarazzati nello scoprire che una simile ‘esplosiva’ corrente di pensiero si colloca comodamente nella cultura occidentale convenzionale, che guida i comportamenti di ognuno e che ognuno potrebbe mobilitare a giustificazione della propria condotta. Cominciamo da un modo ‘diverso’ di guardare al crimine. Gli abolizionisti sono consapevoli che alcuni atti generano danno, ma che non tutti gli atti dannosi vengono ritenuti criminali. A loro modo di vedere, lo sviluppo delle società porta con sé delle forme di patologia e i sistemi non possono fiorire se alcuni settori che ne sono parte mostrano evidenti segni di fallimento. E’ questa una nozione aristotelica, che ribadisce un’idea condivisa da molti, vale a dire che l’ineguaglianza crescente crea ostacoli alla realizzazione del bene comune. Non sento deflagrazioni in questa idea. Sento piuttosto una critica alle elaborazioni platoniane secondo cui il bene e il male si distinguono in quanto chi pratica il primo dimostra di ‘ignorare’ i precetti della ‘vita buona’, chi persegue il secondo rivela di conoscerne i principi fondamentali. Gli abolizionisti, al contrario, suggeriscono che l’ignoranza caratterizza le istituzioni della giustizia criminale, nel senso che i professionisti che la popolano non conoscono le circostanze, le interazioni e le dinamiche che producono le situazioni problematiche definite in fretta come crimini. Vedo anche molto Rousseau in questo suggerimento, segnatamente il Rousseau critico della concorrenza che genera ‘inganni violenti’, e che al declino della moralità pubblica fa corrispondere la crescita degli strumenti artificiali del controllo delle condotte.
Nel discorso abolizionista c’è posto addirittura per Hegel, il quale vede gli individui, isolati e competitivi, allontanarsi dalla sfera pubblica e smarrire ogni sentimento di obbligo verso gli altri. La patologia che ne risulta porta ognuno a delimitare la propria area intima e a delegare alle autorità la soluzione dei problemi sociali. Una volta designati i guardiani della moralità, gli individui possono curarsi dei propri interessi e permettere nell’indifferenza che il successo venga premiato e il fallimento severamente castigato. Veniamo all’universo sacro della legge. L’equità giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni statali per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In altri termini, la legge potrebbe essere interpretata come diritto alla mutua coercizione. Chi non rispetta la libertà degli altri nega a costoro lo statuto di persone libere. La legge, in simili casi, interverrebbe per negare questo diniego e per restaurare la situazione iniziale. Gli abolizionisti rispondono che una simile astrazione potrebbe soltanto applicarsi in società nelle quali eguale accesso alla legge viene accompagnato da eguale accesso alle risorse. Nelle società che conosciamo, al contrario, la legge non fa altro che negare la libertà a coloro che ne posseggono veramente poca, i quali vengono così doppiamente colpiti. Leggo in questa argomentazione un pensiero consolidato nella cultura occidentale, vale a dire un’idea di conflitto e una nozione distributiva della giustizia che attraversano tutta la filosofia e il pensiero sociologico che conosco, da Weber a  Durkheim, da Marx a Galbraith, da Simmel a Bauman.
Abbiamo, insomma, numerose coordinate entro le quali collocare il pensiero abolizionista, e se esaminiamo l’analisi abolizionista della punizione le coordinate si affollano, si sovrappongono, al punto che ognuno può scegliere quelle più vicine alla propria sensibilità. Abbiamo in Louk Hulsman un abolizionismo che riflette il suo Cristianesimo sociale, che si ispira all’ecumenismo di San Francesco, ma anche alle sacre scritture, al Vangelo di Luca e Marco, e particolarmente al rivoluzionario Paolo, il quale nega ogni validità alla legge umana, quella divina essendo sufficiente a farci discernere il bene collettivo dal benessere dei pochi. In Hulsman troviamo l’eco della teologia radicale e della teologia della liberazione, ma anche dell’anarchismo di Bakunin, secondo il quale la realizzazione della libertà richiede azione condotta religiosamente. Tolstoy e Hugo fanno capolino nelle sue argomentazioni, specialmente quando vengono riferite ai temi della redenzione e del castigo, dell’autogoverno, la misericordia e la pietà. Questo sincretismo caratterizza anche il pensiero di Thomas Mathiesen, il quale si schiera a favore di una sociologia del diritto pluralista e interdisciplinare. Allora, i suoi referenti sono Marx e Engels, ma i suoi compagni di strada sono i detenuti e gli emarginati, che il marxismo ortodosso escluderebbe dai processi di emancipazione e mutamento sociale. Da eretico, Mathiesen crede che la ricerca sociale debba coinvolgere i soggetti che la ispirano, quegli attori coinvolti nel conflitto che, attraverso la conoscenza acquisita, sono in grado di perpetuare la conflittualità collettiva.
Pensiamo infine a Nils Christie, che  raccomanda a chiunque si accinga a comporre un testo scritto di avere in mente la propria zia preferita. Ebbene, Kropotkin raccomandava altrettanto, chiedendo ai militanti politici di tenere sempre in mente a chi erano destinati i loro opuscoli. La critica mossa da Christie verso i professionisti della legge e della pena ricorda le invettive anarchiche contro la proliferazione delle leggi, che abituano gli individui alla delega e ne atrofizzano la capacità di giudizio etico e politico. Il suo apprezzamento del conflitto come ‘risorsa da tenere a cuore’ rimanda all’idea secondo cui i problemi possono essere risolti solo se chi vi è coinvolto possiede risorse autonome sufficienti a risolverli. Dobbiamo solo rallegrarci se troviamo difficoltà nel collocare l’abolizionismo in un quadro di riferimento unico e coerente in termini politici, sociologici o filosofici. I suoi tratti sono inclusivi, non esclusivi, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di individuarvi almeno un aspetto del proprio pensiero.

Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Il suo prossimo libro, Penal Abolitionism: A Celebration, verrà pubblicato quest’anno da Oxford University Press.


Link
Antigone: “Piano carceri, unica novita i poteri speciali a Ionta”
Già piu di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento
Cronache carcerarie
Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo
Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione
Punizioni e premi, la funzione ambigua della rieducazione
L’abolizionismo penale è possibile ora e qui

La haine de la démocratie/Il nuovo odio della democrazia

Libri – Jacques Rancière, La haine de la démocratie (l’odio per la democrazia), la Fabrique éditions, Paris septembre 2005, pp. 106

Paolo Persichetti
Liberazione
23 febbraio 2006

Quando il pianeta intero ha capito che la presenza delle armi di distruzione di massa, evocata per giustificare la guerra contro l’Irak, altro non era che una menzogna, i comunicatori politici dell’amministrazione Bush hanno dovuto correre ai ripari estraendo dal cilindro un nuovo argomento capace di rivestire il loro intervento militare d’importanti orizzonti 414kvk33a5l_ss500_morali. L’esportazione della democrazia nel mondo si è trasformata così in una nuova ideologia di sostituzione impiegata per legittimare la strategia della guerra preventiva. Corollario degli interventi e della presenza militare occidentale in varie parti del pianeta è diventata, allora, la promozione di posticce cerimonie elettorali. Anche nell’ex cintura sovietica, le ex democrazie popolari si sottraggono all’influenza dell’attuale “gassocrazia” russa riconvertendosi in cleptocrazie, grazie all’azione congiunta di vere e proprie organizzazioni politiche camuffate da Ong e interamente finanziate e formate in Occidente, alla pressione politico-economica statunitense ed europea, alla promessa di eldorado commerciali e arricchimenti fulminei per le lobby emergenti.
«Nessuno ama i missionari armati[…] il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di considerarli nemici», diceva Robespierre nel suo lungimirante discorso contro la guerra (recentemente ripubblicato proprio da Liberazione). Nessuna industria delle bandierine a stelle e strisce, come quelle distribuite dal Pentagono per far credere davanti alle tv che delle truppe di occupazione sono accolte come dei liberatori, è mai riuscita a cancellare questa verità. Ma se è indiscutibile che i nuovi «valori democratici» agitati come feticci celano altri interessi, il ricorso all’argomento della democrazia segnala anche la presenza di un nuovo tipo di vincolo dal quale Bush non può esimersi per costruire la propria legittimazione. Oggi gli Usa non possono più permettersi il lusso di esportare o foraggiare dittature, appoggiando sanguinosi colpi di Stato e insediando feroci regimi. Ma a questo punto la posta in gioco diventa il significato stesso della parola democrazia. Quale senso e quale uso viene fatto di questo concetto? Una delle possibili forme di governo, come l’aveva rappresentata Aristotele? Un dispositivo procedurale, come alla fine si era limitato a riassumere Bobbio? Possiamo tranquillamente acquietarci di fronte all’interpretazione consensuale che sembra dominare l’attuale campo semantico e fare della democrazia un semplice labello legittimante?
Jacques Rancière, professore emerito presso l’università di Parigi 8, contesta queste letture addomesticate e ritiene invece che alla parola democrazia vada riconosciuta ancora la potenza di scandalo contenuta alle sue origini. Nell’antica Grecia «democrazia» fu innanzitutto un insulto, uno stigma associato all’idea di tumulto e nei confronti del quale si esprimeva odio. Un’ostilità vomitata soprattutto da quelli che vedevano nel governo delle «classi pericolose», nella presa di parola della plebe, nella trasformazione in soggetto politico della «canaglia», la rovina di ogni ordine legittimo. Un abominio per tutti coloro che ritenevano l’esercizio del potere non un attributo condivisibile da chiunque, ma detenuto unicamente da chi ne aveva titolo perché interprete della legittimità divina, oppure degno sulla base del censo, della proprietà o della conoscenza. Ma insieme all’odio, la democrazia ha conosciuto nel corso della sua storia anche numerose
copj13asp forme di critica. Più che dal rigetto contro se stessa, la democrazia moderna ha preso forma proprio dalla capacità della critica antidemocratica a comporre con una realtà oramai non più contenibile, per ricavarne con la costruzione dell’ideale repubblicano – come testimonia la costituzione americana – la salvaguardia dei due princìpi a cui teneva di più: il governo oligarchico e la difesa dell’ordine proprietario. In effetti, riassume Rancière, non esiste da nessuna parte al mondo un governo che possa dirsi interamente democratico. «I governi sono sempre un esercizio dell’attività di una minoranza su una maggioranza», il governo dei competenti sugli incompetenti. Questo perché l’irrisolto democratico ruota attorno all’ambiguità costitutiva del concetto di popolo, termine che indica al tempo stesso la realtà sociologica della massa degli esclusi, dei diseredati, delle classi lavoratrici, ma anche il soggetto costitutivo della politica democratica, un’astrazione che ne fa il luogo dell’unità del corpo politico, dove popolo è la nazione intera, il fondamento della sovranità nel quale si fondono e scompaiono le distinzioni sociali, addirittura con accenti etnici e razziali per quelle tradizioni che identificano popolo e stirpe, sangue e nazione, o teocratico, lì dove popolo diventa chi detiene la rivelazione della fede o è l’eletto di un Dio.
Non è un caso, dunque, se la forma che prende la democrazia moderna è quella che introduce una separazione costitutiva tra il popolo reale, la massa sociale di ceti e classi, e l’astrazione del popolo politico che fonda la sovranità degli eletti. Ed è proprio contro questa separatezza che si è sempre scagliata la critica iper-democratica filiata da Rousseau e Marx. Facendo leva sulla denuncia della «finzione democratica», ne disvela l’inganno proprietario celato dietro l’eguaglianza formale dei diritti, fino a ritenere una vera e propria alienazione politica il furto della volontà posto a fondamento della rappresentanza. Interpretazione ripresa anche dalla tradizione realista, che con Schumpeter definisce la democrazia: l’elezione periodica di un governo oligarchico.
Democrazia altro non è dunque che una forma di «governo rappresentativo» sorretto dal «principio di distinzione», l’unico reale fondamento della sovranità che ispira la dottrina parlamentare liberale ontologicamente censitaria. Una tradizione corretta solo dalle lotte del movimento operaio che hanno imposto il riconoscimento, quantomeno formale, del principio d’uguaglianza nell’esercizio della rappresentanza. Ciò non toglie che, secondo le parole di Rancière, le democrazie contemporanee restano l’espressione di una contraddizione tra «Stati oligarchici di diritto», governati dai chierici di una nuova teologia delle compatibilità economiche, e quella sovranità popolare che sprigiona l’eccedenza democratica e per questo viene dipinta come irragionevole, bulimica, egoista, corporativa, eversiva.
Oggi, però, la democrazia è posta di fronte ad un rinnovato odio che non ne critica più le carenze sostanziali, ma al contrario ne denuncia l’eccesso di vitalità democratica, alimentando una nuova ideologia reazionaria fondata su un doppio linguaggio: l’esportazione demagogica delle virtù democratiche all’estero e la riduzione di democrazia all’interno, attraverso politiche di controllo e riduzione dell’intensità democratica. Dietro la nuova apologetica della democrazia mondiale, si cela in realtà una critica della società democratica, vista come corruttrice del buon funzionamento dei governi. Le istituzioni democratiche sarebbero insidiate dal demos, dal protagonismo del popolo reale. Se il totalitarismo era descritto come lo Stato che divorava la società, il protagonismo democratico attuale è visto come il segno di una società che vorrebbe divorare lo Stato. Allora, come in una sorta d’ingiunzione paradossale, l’unica democrazia buona diventa quella senza popolo.
Ma chi sono questi nuovi reazionari? Rancière ne rintraccia la genealogia partendo dall’operazione ideologica che 56613ricollocò, sul finire degli anni 80, il terrore nel cuore della rivoluzione democratica. Gli orfani dell’anticomunismo, infatti, hanno trasferito le radici del totalitarismo nel cuore della democrazia rivoluzionaria, ma in fondo l’oggetto del loro odio è rimasto immutato: se prima era il proletariato che incarnava la sua emancipazione nel progetto comunista, oggi lo è la vitalità debordante di una moltitudine sociale ebbra d’impazienza e voglia di partecipazione. Nell’uno come nell’altro caso, il nemico resta sempre lo stesso e prende forma in quella realtà composita che sono le «classi pericolose»: avide, insaziabili e ingrate, quando bocciano la costituzione europea; sediziose e terroriste quando non si limitano ad essere spettatrici ma invadono le piazze, si radunano sotto i palazzi del potere, scioperano, picchettano, boicottano, occupano case, praticano le autoriduzioni, rivendicano reddito e salario, pretendono potere di decisione.
Nel suo saggio Rancière attacca alcuni intellettuali francesi ascrivibili all’interno di una nuova corrente ideologica neorepubblicana, una nuova destra che già nel 2002 Daniel Lindenberg aveva qualificato come i «nuovi reazionari». Ma i nomi contano poco, ogni paese ha i suoi. L’importante, invece, è sapere che quel nemico di cui parlano siamo noi.