Cronache dai Cie, altri pestaggi a Gradisca e Ponte Galeria

Nel centro friulano violenze della polizia contro un’intera camerata, a Roma trasferito chi era in sciopero della fame. Tentativi di fuga, proteste quotidiane nei lager dell’ultramodernità

Giorgio Ferri
Liberazione 4 ottobre 2009

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Ancora pestaggi, ancora violenze da parte delle forze di polizia dentro i centri d’identificazione ed espulsione. È difficile rincorrere la cronaca quotidiana in questi luoghi fatti d’orrore e abiezione, dove la burocratica banalità del male si accanisce contro esseri umani ridotti allo stato di non persone. È successo ieri per l’ennesima volta nel Cie di Gradisca d’Isonzo durante una perquisizione condotta con la solita tecnica provocatoria. Volano manganellate come niente fosse mentre agenti esagitati urlano e insultano. Un ragazzo è finito in infermeria perché colpito alla testa. La notizia è stata diffusa dal sito http://www.autistici.org/macerie/ che registra quotidianamente ciò che accade in questi lager dell’ultramodernità. Si è saputo anche che almeno una delle camerate era in sciopero della fame e ha rifiutato l’acqua. Un presidio antirazzista è stato indetto nel pomeriggio. A Brindisi, nel Cie di Restinco, è giunta notizia che otto internati sono in sciopero della fame e della sete da almeno sei giorni. Arrivati più di un mese fa a Lampedusa, trasferiti a Porto Empedocle e da lì a Brindisi, non sanno ancora nulla della sorte che li attende. Giovedì sera, invece, i reclusi di Ponte Galeria, il Cie a ridosso di Roma, hanno sospeso lo sciopero del vitto iniziato lunedì scorso. Dodici di loro, ritenuti dalla direzione gli animatori della protesta, sono stati chiamati in matricola con la scusa della scarcerazione. Una volta usciti dai reparti sono stati immobilizzati uno alla volta e preparati per il trasferimento in altri Centri. Chi li ha visti passare ha testimoniato che avevano i polsi legati col nastro isolante. Trasferimento che ha tutte le sembianze di un’azione di rappresaglia contro la protesta inscenata nei giorni precedenti. Nella notte successiva ci sono state urla dalle due fino alle cinque e trenta del mattino perché un internato si sentiva male e la Croce rossa non interveniva. La cronaca della giornata è proseguita con il suo calvario di brutalità: un altro dei protagonisti dello sciopero è stato trasferito verso una destinazione ignota mentre arrivava un gruppo d’internati algerini proveniente da Bari-Palese. Dopo un po’ si è scoperto che almeno due dei reclusi trasferiti la mattina erano finiti proprio a Bari. Un incrocio che ricalca perfettamente le pratiche punitive in uso nei penitenziari quando gli istituti sfollano i reclusi indesiderati. Intanto un altro degli internati che si era tagliato le vene martedì ha ripreso a camminare. Nella serata di venerdì quattro immigrati decidono il tutto per tutto e riescono a montare sui tetti. Da lì provano a scavalcare le reti e fuggire. Tre vengono bloccati subito, del quarto non si sa nulla. Nel campo c’è apprensione e speranza. Tutti si augurano che ce l’abbia fatta. La fuga anche di uno solo di loro sarebbe una vittoria simbolica per tutti. Purtroppo intorno alle dodici di ieri si diffonde la notizia della sua cattura. L’evaso è stato ripreso. Saltando dal tetto si è rotto una gamba e non è riuscito ad allontanarsi. Cosa che invece è riuscita a Torino nella notte tra domenica e lunedì, quando alcuni internati si sono dati alla fuga una volta passati all’esterno del Cie. Potremmo continuare a lungo. Le mura di questi luoghi dove regna lo stato di eccezione, le reti e le gabbie che trattengono questi individui assistono a una quotidiana battaglia tra oppressione e resistenza umana. Fuori gruppi di attivisti antirazzisti si mobilitano, presidiano l’esterno dei Centri, raccolgono le testimonianze degli internati. Giovedì scorso, all’ora di pranzo, una decina di militanti antirazzisti è entrata nella mensa del Politecnico di Torino esponendo uno striscione con la scritta “La Sodexho s’ingrassa sui lager” per poi distribuire volantini ai presenti. Studenti, cassiere e cuochi sono così stati informati che la grande multinazionale del catering Sodexho, oltre a gestire la mensa universitaria, ha anche l’appalto per la fornitura dei pasti agli internati dei Centri d’identificazione ed espulsione di via Corelli a Milano e di Roma Ponte Galeria. Spesso si tratta di cibo scadente come lamentano da sempre le persone rinchiuse nei Centri. Nel pomeriggio di ieri, invece, si è svolto a Firenze un corteo contro la presenza della Croce rossa all’interno dei Cie, e soprattutto contro la preannunciata costruzione di uno di questi centri in Toscana. Secondo le forze dell’ordine avrebbero partecipato circa 150 persone, almeno il doppio secondo gli organizzatori della manifestazione a cui hanno preso parte organizzazioni della sinistra radicale e dell’area antagonista, rappresentanti dei collettivi universitari, del movimento lotta per la casa e del gruppo “Perunaltracittà” presente in consiglio comunale.

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Nuovi documenti e prove sui lager fascisti

Libri 2/Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento 
fascisti per civili jugoslavi, 1941-1943, Nutrimenti, euro 18

Una delle pagine più criminali della nostra storia

Sandro Padula
Liberazione
18 settembre 2008

Le ultime parole pronunciate da Gianfranco Fini alla festa di Azione giovani, e poi contestate, non hanno modificato la rappresentazione riduzionista del fascismo fatta propria dalla destra postfascista. Un giudizio storico che censura unicamente le leggi razziste del 1938 per salvaguardare tutto il resto, anche la spietata politica coloniale condotta durante il ventennio.
Una delle pagine più criminali della nostra storia rimossa dalla memoria nazionale e che il libro di Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, pp. 287) ha il pregio di riportare alla luce grazie anche ad una importante documentazione per buona parte inedita fatta di foto, lettere, testimonianze dei sopravvissuti.
Già dal 1866, allorché Il Giornale di Udine teorizzava la necessità di eliminare gli slavi «col benefizio, col progresso e colla civiltà», il confine orientale dell’Italia divenne «mobile» e fino alla Seconda guerra mondiale si spostò sempre più ad est, tanto da evidenziare un processo di annessione coloniale di «molti territori storicamente non abitati da gente di nazionalità e lingua italiane».
Nel 1920 Mussolini affermò a Pola che l’Adriatico doveva essere liberato dagli Slavi. Nel luglio di quello stesso anno, con la complicità della polizia e il sostegno della stampa triestina filoitaliana, una squadra fascista incendiò il Narodni Dom, la casa del popolo degli sloveni e croati di Trieste, provocando la morte di due persone e la distruzione di uno dei più significativi simboli del patrimonio culturale delle componenti slave della città. Il clamore di quell’attentato fu un campanello d’allarme per gli sloveni e i croati triestini, goriziani e istriani: ogni slavo diventava un possibile bersaglio della violenza razzista e fascista.
Nel marzo del 1921, tanto per fare un esempio, a Strunjan-Strugnano, un paese vicino a Capodistria, alcuni «squadristi fascisti spararono da un treno in corsa su un gruppo di bambini intenti a giocare, uccidendone due e ferendone gravemente cinque».
Con la presa del potere da parte di Mussolini, l’aggressività dei fascisti si trasformò in «leggi ben precise e provvedimenti di persecuzione culturale, economica e poliziesca». Alcuni sudditi italiani di nazionalità slovena e croata per non sfuggire alle persecuzioni accettarono di farsi «assimilare». Fra di essi «Giuseppe Cobol, italianizzato Cobolli, e poi Cobolli Gigli, che sarebbe diventato addirittura ministro dei Lavori Pubblici di Mussolini, e con lo pseudonimo di Giulio Italico insegnava canzoncine che minacciavano di gettare nella Foiba di Pisino chi non era un convinto italiano».

Diversa sorte toccava ai non assimilati: «dei 979 processi del Tribunale speciale ben 131 furono celebrati contro sloveni e croati della Venezia Giulia. Di 47 condanne a morte, pronunciate da questo tribunale fascista, ben 36 riguardavano sloveni e croati, e 26 furono eseguite (a Basovizza e Opicina, presso Trieste e al Forte Bravetta, a Roma)». Tutti questi avvenimenti costituirono le premesse storiche che, dopo l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia e la sua spartizione (attraverso un piano che Alessandra Kersevan ritiene simile allo «smembramento della Jugoslavia che si è attuato negli anni Novanta»), condussero all’ipertrofia delle azioni sanguinarie, terroriste e liberticide dello Stato italiano. Furono circa 200 mila i civili «ribelli» che, senza neanche un processo, morirono sotto il piombo dei plotoni di esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia, Bocche di Cattaro e Montenegro (di cui ha scritto Giacomo Scotti sul Manifesto del 4 febbraio 2005, «Così iniziò la stagione di sangue»).
Furono inoltre circa 100 mila i civili jugoslavi, fra sloveni, croati, serbi e montenegrini, che vennero internati nei lager italiani nel periodo che va dal 1941 all’8 settembre 1943, quindi anche dopo la caduta del governo fascista avvenuta il 25 luglio 1943 e durante i primi 45 giorni del governo Badoglio voluto da Vittorio Emanuele III. Tra i circa 100 mila internati ne morirono per fame e malattie 4141 nei campi e molti altri nei trasferimenti da un campo all’altro. I lager, sia quelli gestiti dall’esercito (in molti casi, a parte l’apparato di sorveglianza, simili a tendopoli recintate da filo spinato) che quelli gestiti dal ministero dell’Interno («spesso insediati in vecchi edifici, ex conventi, opifici o ville padronali, lontani dai centri abitati ma anche in mezzo al paese»), venivano organizzati come parte integrante di una strategia di guerra e di antiguerriglia.
I campi di concentramento per civili jugoslavi più tristemente famosi furono: Arbe-Rab (un’isola annessa dall’Italia il 18 maggio 1941 e oggi appartenente alla Croazia ); Gonars, un paese a sud di Udine; Visco, un comune della provincia udinese; Monigo, un comune della provincia di Treviso; Chiesanuova di Padova; Cairo Montenotte, un comune della provincia di Savona; Renicci in provincia di Arezzo e in riva al Tevere; Colfiorito, una frazione del comune di Foligno (PG); Fraschette di Alatri, campo gestito dall’autorità civile in provincia di Frosinone.
L’obiettivo di Benito Mussolini e del generale Mario Roatta, autentico ideatore di questo specifico circuito concentrazionario, era quello di rinnovare la politica di pulizia etnica e di annientare ogni possibile appoggio alla resistenza jugoslava. Le modalità di organizzazione, le regole istituzionali interne e le condizioni di vita degli internati non erano diverse da quelle di tutti i circuiti dei sistemi segregativi del passato o attuali, in cui lo Stato spende poco denaro, supera le fasi giuridiche dei processi, accentua formalmente e sostanzialmente la differenziazione del «sistema dei diritti» tanto da creare un diritto extralegale e/o «emergenziale», sviluppa politiche razziste e inevitabilmente offre il massimo della sofferenza ai segregati non collaborazionisti.

I lager italiani per civili slavi erano divisi in due categorie fondamentali: i «repressivi», per amici e parenti dei presunti partigiani antifascisti, e i «protettivi» per i collaborazionisti. In genere i due gruppi erano dislocati in settori diversi di un medesimo lager. In ogni campo c’erano poi i «capi baracca» e le condizioni di vita degli internati variavano in base alla classe sociale di provenienza, alle condizioni di salute, alla possibilità o meno di acquistare delle merci, alla possibilità o meno di ricevere pacchi con viveri e indumenti da parenti o gruppi di solidarietà, alla loro eventuale funzione lavorativa, al sesso e all’età.
In generale l’alimentazione degli internati, oltre ad essere in media dimezzata rispetto a quella dei soldati, era caratterizzata da un sistema definito «fisso decrescente»: una quantità fissa di alimenti che decresceva qunato più si stava in basso nella gerarchia degli internati. I collaborazionisti e i «capi baracca» erano quelli meglio alimentati. Dopo di loro, come avveniva nel campo di Gonars, venivano gli internati che lavoravano nel campo, i medici e gli infermieri, gli ammalati dell’infermeria e infine i non lavoratori, i ragazzi e i bambini. All’interno dei lager, la maggior parte degli internati mangiava solo un po’ di brodaglia e un pezzetto di pane al giorno, non riceveva adeguate cure mediche e viveva nella sporcizia. L’affamamento era causa di precise direttive dei vertici del governo fascista, oltre che di numerose speculazioni commerciali di ditte private. «Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo», questo scriveva in un appunto del 17 dicembre 1942 il generale Gastone Gambara, l’allora comandante dell’XI Corpo d’Armata. Donne, bambini e anziani, stante questo scenario, morivano a migliaia di fame e malattie Morivano in silenzio e morendo facevano risparmiare altro denaro allo Stato. Il libro di Alessandra Kersevan ci ricorda tutto ciò. Emoziona e fa riflettere. Leggendolo si ha la sensazione di ascoltare le voci di donne, uomini e bambini che dai lager italiani del 1941-1943 urlano contro vecchie e nuove rimozioni della verità storica.

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L’amnistia Togliatti
La legenda degli italiani brava gente
I redenti