Oreste Scalzone, «Delle Chiaie mente su i fatti di Valle Giulia del 1968. E’ un manipolatore, sono pronto a sfidarlo pubblicamente»

Il fondatore di avanguardia nazionale, autore di un’autobiografia edulcorata che sorvola sui servigi prestati alla Spagna franchista e alle dittature militari latinoamericane per reprimere gli oppositori politici – in passato – ricorda Oreste Scalzone, insieme a Mario Merlino ha più volte sostenuto che la battaglia di Valle Giulia, nata dalla resistenza opposta dagli studenti al tentativo di sgombero della facoltà di architettura da parte della polizia, sarebbe stata preceduta da un incontro tra neofascisti e il comitato d’Ateneo della Sapienza del quale facevano parte, oltre a Scalzone e Roberto Gabriele, anche Franco Russo, Paolo Mieli, Paolo Flores D’Arcais, i fratelli Petruccioli, Alberto Olivetti, Luca Meldolesi e altri ancora. L’episodio è un falso storico clamoroso, ribatte Scalzone: «Delle Chiaie è un pessimo personaggio, un manipolatore che non merita nemmeno di esssere gratificato come nemico»

Camillo Giuliani
Calabria ora 28 settembre 2012

A prescindere dalla temperatura esterna, si prospetta un pomeriggio da autunno caldo a Cosenza. Il giorno dopo Renato Curcio arriva in città l’uomo nero, Stefano Delle Chiaie, e non sono pochi quelli che, da giorni, annunciano su internet manifestazioni per impedirgli di presentare “L’aquila e il condor”, il libro in cui il 76enne esponente della destra radicale racconta la sua versione su una stagione politica di cui fu (in)discusso protagonista. Ne abbiamo parlato con un altro primattore di quegli anni, Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio. «È difficile trovare due uomini più agli antipodi tra loro», il suo commento iniziale. Nonostante abbiano in comune l’attivismo politico – su sponde e con metodi differenti – e una lunga latitanza all’estero per sottrarsi alla giustizia italiana, Scalzone e Delle Chiaie, il rosso e il nero, sono come due rette parallele che non trovano mai un punto d’incontro.

Cosa pensa di Delle Chiaie?
«Sono solito parlare in modo critico di sistemi e non di singoli, ma quando si tratta di uomini pubblici con responsabilità come le sue un giudizio è doveroso: credo – anche sulla base di un riscontro pratico, dettaglio sintomatico – sia un pessimo personaggio».

Quali riscontri?
«Lui e Mario Merlino hanno fatto circolare falsità quale quella che prima di Valle Giulia loro avessero preso contatto col Comitato d’agitazione d’ateneo alla Sapienza, e che quindi quella fosse stata un’impresa comune. Un episodio che mostra inequivocabilmente l’indole manipolatrice di questo personaggio che ama rimestare nel torbido».

I fascisti con Valle Giulia non c’entrano?
«Basta aver letto, che so… Malaparte, per sapere che in una piazza in tumulto può esserci di tutto. Certo è che se c’erano i fascisti, il movimento non se ne accorse».

Che differenza c’era tra ribelli di sinistra e di destra?
«Molti giovani, anche per opporsi a un antifascismo trasformatosi in regime, diventarono fascisti pensando di ribellarsi all’ordine costituito. La ritengo una forma, certo malintesa – un tragico equivoco –  di ribellione vera. Delle Chiaie con loro non c’entra, la cosa peggiore è che abbia lavorato per i servizi segreti del Paraguay di Stroessner».

Franco Piperno ha definito i terroristi “delle ottime persone, anche se hanno ucciso”. Che ne pensa?
«Condivido il suo giudizio per quanto riguarda coloro che, a torto o ragione, si ribellano all’ordine costituito, dal basso verso l’alto. Camus diceva che “non ci sono angeli di luce e idoli di fango; gli umani vivono così, a mezz’altezza”. Ma quando qualcuno si comporta in tutta la carriera come un gerarca dalla parte di coloro che schiacciano altri, non vedo come gli si possano concedere riconoscimenti di una qualche nobiltà, quantomeno d’intenti».

Ha letto “L’aquila e il condor”?
«Ci sono tante cose che non si riescono a leggere nella vita, mancanze che lasciano un rimorso, ma ammetto che difficilmente troverò il tempo di dedicarmi al libro di Delle Chiaie. Potrebbe anche avere un qualche interesse, tutto può essere. Ma la vicenda del Paraguay, ciò che si dice tra gli stessi fascisti di quest’individuo, il piccolo riscontro personale di cui sopra, mi fanno dubitare che in quelle pagine ci sia qualcosa di pregevole».

Scenderebbe in piazza per impedirne la presentazione?
«I movimenti sovversivi avrebbero ben altro da fare che impigliarsi in sceneggiate per vietare la parola a personaggi che converrebbe invece gratificare con un disinteresse e un silenzio eloquenti. Meglio sarebbe occuparsi di dare il fatto suo a gente più significativa, a partire dal dottor Marchionne».

Ha vissuto situazioni come quella che si attende per Delle Chiaie?
«Dopo il rientro ho ricevuto diverse contestazioni. All’università di Palermo lanciarono pietre contro le vetrate dell’aula dove si svolgeva l’assemblea, sembrava un cattivo remake del 16 marzo del ’68 alla Sapienza. L’onorevole signorina Meloni andava straparlando  di “bombaroli”, imitata da un tale Volontè deputato Udc…la sinistra di Stato annuiva. Quelle contestazioni, però, avevano origine nelle stanze del potere, non c’erano folle che si riunivano spontaneamente. Spero che i compagni cosentini non finiscano a chiedere alla questura di vietare l’evento, sarebbe una vera contraddizione in termini!».

Perché nemmeno una polemica per l’arrivo di Curcio?
«Il generale Dalla Chiesa, strenuo avversario delle BR, disse di Renato che era “uno che andava, non mandava”, manifestandogli quel rispetto che si concede a un nemico, nel senso più alto del termine. Lo stesso rispetto che Cossiga mostrò per Prospero Gallinari o Maurizio Ferrari che oggi, dopo 32 anni di prigione, è di nuovo rimesso e tenuto in galera per manifestazioni di lotta da un piccolo Vichinskij  (l’inquisitore per eccellenza della Russia di Stalin, ndr) come il procuratore Caselli. Ecco, l’intero percorso di Delle Chiaie non mi sembra suscettibile di raccogliere un rispetto della stessa natura».

Delle Chiaie è un suo nemico?
«Qualcuno ha detto che si è, o si diventa sempre un po’ alla misura del nemico che ci si sceglie. L’inimicizia, anche assoluta, è una relazione alta e non richiede di considerare l’altro un “sotto-uomo” – “Untermensch”, termine squisitamente nazista – o un demone. Escludendo dunque la passione triste ed autolesiva del risentimento o della diabolizzazione, non è necessario, tuttavia, gratificare qualcuno che non la meriti di una relazione simile. Comunque, se oggi qualcuno vuole telefonarmi per avere un confronto pubblico tra Delle Chiaie e me sulla questione di Valle Giulia, accetto la sfida di buon grado».

 

Piperno: «Cossiga, architetto dell’emergenza giudiziaria era convinto che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni»

Ostaggio e succube al tempo stesso del Pci. Era affascinato dalla cultura statolatrica di quel partito con cui mise in piedi un patto di ferro per combattere la rivolta sociale degli anni 70. Una intervista di Franco Piperno offre un ritratto assai diverso dalle commemorazioni ufficiali e dalla vulgata che circola in quel che rimane della sinistra estrema


Iaia Vantaggiato
il manifesto
19 Agosto 2010

Nel 1978, nei 55 giorni più lunghi e più tragici nella storia della Repubblica, erano schierati su fronti opposti. Franco Piperno, ex leader di Potere operaio, faceva quel che era in suo potere, e non era molto, per facilitare la trattativa e salvare la vita di Aldo Moro. Francesco Cossiga, ministro, faceva quel che poteva, ed era moltissimo, per impedire la trattativa, anche a costo di sacrificare Moro.

Cominciamo dalla trattativa, quella tentata da te e da Lanfranco Pace.
L’idea fu di Paolo Mieli e Livio Zanetti, allora direttore dell’Espresso, l’unico giornale che aveva seguito le diverse fasi del movimento e col quale molti di noi avevano una certa consuetudine. Zanetti mi chiamò e mi disse che Claudio Signorile voleva incontrarci.

Tutto nasce nell’entourage craxiano?
Suppongo di sì anche se non ne ho le prove. All’epoca, eravamo nell’aprile del ’78, io ero già in Calabria e la donna con cui ero sposato – Fiora Pirri – era stata arrestata da poco. Per questo all’inizio provai una forte resistenza ad accettare quell’incontro, temevo di infilarmi in qualcosa che avrebbe avuto come conseguenza quella di peggiorare la posizione di Fiora, accusata – insieme a un numero sterminato di persone – di essere stata a via Fani.

Poi però all’incontro con Signorile decidesti di andare.
A convincermi fu una nuova telefonata di Paolo Mieli ma anche il peggioramento della situazione di Fiora. Pensai che se Moro fosse stato ucciso sarebbe stato un guaio per tutti noi. Così venni a Roma e incontrai Signorile diverse volte – prima da solo, poi con Lanfranco Pace che più di me aveva modo di far arrivare rapidamente alle Br le proposte che venivano da questa parte del Psi che faceva capo a Craxi e non a Giacomo Mancini – in una casa di via del Corso abitata da uno dei finanziatori del partito socialista. Eravamo a buon punto. Lo pensavo io e lo pensava Signorile.

Qual era la proposta?
Un esponente della Dc, nello specifico Amintore Fanfani, avrebbe dovuto pubblicamente riconoscere la disponibilità a trattare coi brigatisti sulla base della scarcerazione di alcuni di quelli che erano stati arrestati ma soprattutto della chiusura del carcere dell’Asinara, un carcere particolarmente crudele, direi al limite della tortura. Questo esponente della Dc avrebbe dovuto dimostrare disponibilità a compiere o a proporre non a realizzare una misura che era nell’ambito della legalità. L’oggetto concreto della trattativa si sarebbe precisato successivamente. In quel momento la cosa importante era interrompere quell’abbrivio, l’uccisione di Moro, e dare un segnale individuando tra le richieste delle Br quali erano legalmente accettabili da parte dello Stato. E tutto ciò andava fatto non da qualcuno che ricopriva un incarico di Stato ma da Fanfani che ricopriva solo incarico politico.

Dicevi che la trattativa sembrava quasi conclusa. Dove s’inceppò?
La sera del venerdì precedente all’uccisione di Moro venne da Signorile il consigliere militare del presidente della Repubblica e anche un motociclista carabiniere che avrebbe dovuto portare queste «indicazioni» a Fanfani. Così io me ne andai quel venerdì sera convinto che le chance di salvare Moro fossero alte. Ammetto per onestà intellettuale che non avevo nessuna simpatia per Moro e che di per sé non è che fossi in preda all’angoscia se l’uccidevano o meno. Quello che mi sembrava evidente è che uccidere Moro, oltre che un crimine, sarebbe stato un gigantesco errore per le conseguenze che avrebbe portato non tanto alle Br che erano clandestine ma soprattutto al movimento.

Fu Cossiga a far fallire la trattativa?
Non sono in grado di dirlo. Di certo uno degli errori fu che al posto di Fanfani parlò un uomo della sua corrente che si chiamava Bartolomei. Me la ricordo quella dichiarazione trasmessa al tg della notte: confusa e timida. Sulle Br non poteva avere nessun effetto.

Torniamo a Cossiga.
Cossiga aveva deciso che era meglio sacrificare Moro. Glielo dissi anche, anni dopo. E credo che nella sua decisione abbia avuto un’influenza determinante l’atteggiamento del Pci. Penso che coloro che hanno messo un veto totale a ogni possibilità di trattativa siano stati proprio i dirigenti del Pci. Cossiga si allineò per tenere in piedi il rapporto col Pci e per salvare il compromesso storico. E su questo c’era anche il consenso dell’allora segretario della Dc, Benigno Zaccagnini. Mentre Fanfani, secondo quanto lo stesso Signorile mi disse, era per provare.

Dunque uno scontro tra due correnti della Dc.
Esattamente. La sinistra Dc era schierata sulle posizioni del partito comunista che non avrebbe mai tollerato un qualsiasi riconoscimento indiretto delle br per le conseguenze che ci sarebbero state anche a livello di organizzazione dello stesso Pci, a cominciare dalle grandi fabbriche. Del resto lo si è capito quando l’anno dopo Dalla Chiesa ha arrestato in una notte sola 80 operai. Nelle fabbriche c’era una presenza brigatista che il Pci vedeva come «concorrenza».

Insomma tu dici che la Dc, o almeno una parte della Dc, avrebbe trattato e che la linea della fermezza fu un «regalo» al Pci. E quella parte non era quella di Cossiga.
Quello fu un episodio rivelatore della cattiva coscienza del ceto politico italiano, là mentivano tutti. La Dc avrebbe trattato come ha fatto in altre occasioni e come del resto è stato fatto in altri paesi, prima e dopo Moro. Non dico che Berlinguer volesse uccidere Moro. Dico che se anche se fosse stato rapito un loro dirigente, il compagno Pajetta per esempio, l’avrebbero sacrificato. Era nella logica del Pci. Tutto tranne che accettare una qualche richiesta che sarebbe servita a legittimare una corrente terroristico-sovversiva. I comunisti di allora erano chiaramente avviati verso una politica di superamento della «contrapposizione tradizionale» e dell’idea che il partito dovesse portare a un ribaltamento sociale.

Rapimento Moro come momento di verità, allora?
Sì e la crisi della I Repubblica è cominciata allora perché i comunisti sono diventati i fautori dell’ordine, cosa che non era mai successa prima . Sono stati loro che capillarmente hanno denunciato i compagni. Pensa che, a Torino, Giuliano Ferrara come capogruppo del Pci e insieme a Fassino hanno promosso le denunce anonime.

Ma le leggi speciali le ha fatte Cossiga.
Cossiga è stato un esecutore, certo non un rozzo esecutore, ma in quell’occasione ha realizzato sostanzialmente le richieste del partito comunista. E lui sapeva di aver toccato il fondo del barile della legalità con le leggi speciali contrariamente ai comunisti che mentivano. Mi ricordo quando venne in Canada e chiese di vedermi tramite una suora che adesso è morta, suor Teresilla. Parlammo di amnistia. C’era anche Pace. Vedi, lui era tra quelli convinti che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni. Quelle leggi, lui lo sapeva, avevano profondamente alterato la consuetudine legale italiana. La presenza della magistratura negli affari politici è cominciata allora. Cossiga era cosciente di aver innescato una profonda ferita nella tradizione giuridica italiana quindi pensava all’amnistia come a uno dei modi di attenuare questa ferita.

Però le Br come soggetto politico le ha riconosciute mentre il movimento lo ha massacrato.
Le ha riconosciute dopo. Durante quei giorni lui è stato spietato. Pensa – e questo è rilevatore della sua schizofrenia – che lui ha negato che le lettere di Moro fossero autentiche. Diceva delle cose che lui stesso ha ammesso, parlando con me, essere false. Certo è stato una personalità notevole ma era sardo e i sardi hanno due anime, l’ascaro e il ribelle. Pensa alla Brigata Sassari che lui ha voluto ricostituire dove si parla il sardo e dove il sardo va a morire al posto del sovrano. Cosa successa al tempo dei Savoia e che Cossiga ha rimesso in piedi. In Cossiga coesistevano entrambi gli elementi. Quando ha avuto responsabilità di governo e di influenza diretta e operativa sul Paese si è comportato come un ascaro, anzi come un generale degli ascari.

Ascaro col movimento e ribelle poi?
Esattamente. Lui è stato spietato e ha anche lasciato fare manifestazioni perché le cose si incancrenissero. Pensa all’episodio in cui muore Giorgiana Masi: una trappola. Poi ha ripreso la sua natura ribelle arrivando sino a rivendicare l’appartenenza a una famiglia di pastori in contrapposizione a quella aristocratica di Berlinguer. Cossiga è un caso estremo e alla fine si è preso la libertà dei matti: quella di dire delle verità in punto di morte.

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Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni 70
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Anni Settanta