Sequestro Moro, le carte e le testimonianze che smentiscono le dietrologie su via Caetani /terza puntata

A partire dal 2010 alcune inchieste giornalistiche e libri pubblicati negli anni successivi, ripresi recentemente anche da una trasmissione televisiva della Rai, hanno diffuso una ricostruzione alternativa sulle ultime ore della vita di Moro, sulle circostanze della sua morte e del ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’analisi delle indagini condotte all’epoca, i documenti e le testimonianze dimostrano l’infondatezza di queste ricostruzioni dietrologiche

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 9 marzo 2024

Questa immagine fotografa la situazione di attesa: lo sportello posteriore destro della Ranault 4 è stato aperto, all’interno è stata verificata la presenza del corpo di Moro. Funzionari di polizia in borghese sono in attesa delle autorità. Davanti alla Renault la Fiat 500 del custode di palazzo Antici-Mattei, più avanti di traverso la Giulia bianca Alfa Romeo della Digos intervenuta per prima sul posto

Che cosa accadde davvero il 9 maggio del 1978 in via Caetani? Le dichiarazioni dell’ex vice segretario del Partito socialista Claudio Signorile a Report del 7 gennaio scorso, in un servizio su nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro, hanno riacceso l’attenzione sulle modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana. Da diversi anni Signorile sostiene che Cossiga (con lui presente) venne informato quella mattina della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata delle Brigate rosse. E lascia intendere intendere che a ucciderlo non furono i brigatisti, per il rifiuto di trattare da parte del governo e dei partiti schierati per la «fermezza», bensì forze straniere che condizionarono l’esito finale del sequestro: una volontà superiore a cui i brigatisti, semplici figuranti di un gioco più grande di loro, dovettero adattarsi. Forse addirittura cedendo l’ostaggio.

I ricordi tardivi
Storici, giudici e poliziotti, abituati a valutare le testimonianze e lavorare con la memoria, sanno bene che i ricordi tardivi dei testimoni rappresentano uno degli aspetti più problematici nella ricostruzione dei fatti, perché troppo esposti al rischio di inquinamento da informazioni e narrazioni circolate nel frattempo. Nelle ore successive al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani all’interno della Renault 4 color amaranto, digos e carabinieri condussero però serrate indagini sui testimoni passati fin dalle del prime ore del mattino in quella via o che lavoravano nei palazzi adiacenti. Queste testimonianze offrono un quadro esauriente per ricostruire quel che avvenne la mattina del 9 maggio 1978.
La signora Carla Antonini affermò di aver visto alle 8,10, mentre a piedi si recava al suo posto di lavoro, la Renault 4 parcheggiata quasi davanti al portone di palazzo Antici-Mattei dove era impiegata nella discoteca di Stato. La testimonianza venne rafforzata da successive dichiarazioni dell’attrice Piera Degli Esposti, sentita dopo il 2013 nell’indagine aperta per verificare la veridicità delle affermazioni di uno degli artificieri che bonificarono la Renault 4 quel giorno, Vitantonio Raso, secondo cui il cadavere di Moro fu trovato molto prima della telefonata delle Br e Cossiga si sarebbe recato sul posto una prima volta intorno alle 11 del mattino e una seconda dopo la diffusione ufficiale della notizia.
Degli Esposti smentì questa possibilità poiché quella mattina aveva atteso inutilmente, proprio nelle ore indicate da Raso, appoggiata inconsapevolmente sulla R4, il direttore del Dramma antico, i cui uffici si trovavano al terzo piano di palazzo Antici-Mattei. Anche altri testi sentiti hanno confermato questa ricostruzione: Annamaria Venturini della Biblioteca di storia contemporanea, Francesca Loverci e Giuseppe D’Ascenzo, entrambi dipendenti del Centro studi americani situato nello steso palazzo, e Francesco Donato che vi risiedeva come custode demaniale. Tutti e tre percorsero più volte via Caetani quella mattina senza mai scorgere presenza della polizia o assembramenti con personalità politiche.

L’arrivo della polizia dopo la telefonata delle Br
È D’Ascenzo a situare il momento in cui arriva sul posto la prima auto della polizia: era uscito dal lavoro alle 10,15 per rientrarvi alle 11 e uscire nuovamente un quarto d’ora dopo per rientrare alle 12,15 quando si accorgeva di una Alfa Giulia bianca in doppia fila accanto alla Renault 4, con a bordo persone in abiti civili che gli chiesero se ne conoscesse il proprietario. Era la pattuglia della Digos guidata dal commissario capo Federico Vito, che in una relazione di servizio scrive di essere stato avvisato dal brigadiere Mario Muscarà, addetto al servizio intercettazioni telefoniche, che era sopraggiunta una telefonata al professor Tritto in cui si annunciava che «il corpo di Moro si trovava in una Renault targata N…. parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure». Il brogliaccio redatto da Muscarà riferisce l’arrivo della telefonata alle 12,10 e la sua conclusione alle 12,13, oltre al tentativo fallito di individuare la cabina da dove la chiamata era partita.
Il commissario Vito si recava immediatamente sul posto con il brigadiere Domenico D’Onofrio, l’appuntato Angelo Coppola e la guardia Nicola Marucci. «Poiché nel bagagliaio si notava una coperta che ricopriva qualcosa di voluminoso – scrive – ho fatto aprire forzatamente l’auto da un Sergente artificiere ed ho constatato che, sotto la suddetta coperta, si trovava il cadavere dell’On.le Aldo Moro». Altre testimonianze, e soprattutto le foto e le immagini esclusive riprese dalla troupe di Gbr, emittente romana, con il giornalista Franco Alfano che riuscì ad entrare nel palazzo Antici-Mattei e riprendere dall’alto quello che avvenne, mostrano che i tempi di apertura della R4 furono molto più lunghi e laboriosi.

Cucchiarelli e la versione dell’artificiere
In una intervista con Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronovo, dopo l’uscita nel 2013 del suo libro La bomba umana, l’artificiere Raso conferma indirettamente la sequenza dei fatti descritta dal commissario Vito. Sostiene, infatti, di essere stato prelevato dalla «volante 23» per essere portato in via Caetani. Non poteva quindi essere sul posto alle 11, se la digos era arrivata solo alle 12,15 e Vito aveva chiesto il suo intervento solo successivamente (accusato del reato di calunnia per queste affermazioni, Raso ha patteggiato la condanna in tribunale).
Non solo: come dimostrano le immagini (e come riferisce il suo superiore Giovanni Chirchetta), Raso non tocca la Renault ma attende rinforzi. Mentre Chirchetta e il sergente Casertano giunsero sul posto dopo Raso. Nel frattempo, sono ormai le 13,35 circa, il custode di palazzo Antici-Mattei avverte gli impiegati delle voci sulla presenza di una bomba nella Renault, così tutti si precipitano all’uscita per spostare le auto.
È ancora il teste D’Ascenzo a riferire con precisione quel che accade: sceso all’ingresso del palazzo nota «che un uomo in borghese, probabilmente un agente di polizia, ha aperto la macchina e dopo aver guardato all’interno è venuto verso di noi dicendo: “È Moro”».

Un funzionario di polizia apre lo sportello della Renault
Chi era quel poliziotto? Tutte le immagini di quel giorno mostrano che lo sportello posteriore destro della R4 fu aperto molto prima che fosse forzato dagli artificieri con le cesoie il portellone posteriore. Un rapporto stilato dal commissario Vito consente di fissare con maggiore esattezza l’orario della prima apertura: si tratta del sequestro avvenuto alle ore 13,20 del borsello di pelle nera presente al suo interno e contenente effetti personali di Moro.
In una audizione del 2 maggio 2017, davanti alla commissione Moro 2, sarà Elio Cioppa a sostenere di avere aperto lo sportello e aver verificato che nel bagagliaio posteriore, sotto la coperta, c’era il corpo di Moro. Cioppa disse di esser arrivato in via Caetani dopo il commissario Vito con una cinquantina di uomini per predisporre il controllo dell’ordine pubblico nella zona. E le foto scattate in via Caetani prima dell’apertura del portellone posteriore e dell’arrivo delle autorità mostrano accanto alla R4 diverse persone in giacca e cravatta, tra cui si riconosce il tristemente famoso Nicola Ciocia, alias dottor De Tormentis, funzionario dell’Ucigos esperto di waterboarding per sua stessa ammissione.

Scatta il piano Mike
Le stesse immagini mostrano che all’arrivo di Cossiga, si può presumere dopo le 13,30, il portellone posteriore non era stato ancora forzato e che il ministro dell’Interno, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al capo della polizia Ferdinando Masone, si sporge sul vetro del lunotto per vedere il corpo di Moro. L’apertura avverrà solo in seguito, quando lo stesso Cossiga, stando agli artificieri, chiederà la bonifica del mezzo. Alle 13,45, come prevedeva il piano Mike, predisposto in precedenza dal ministero dell’Interno in caso di morte dell’ostaggio, venne avvertito il procuratore generale Pietro Pascalino, alle 13,56 il medico legale Silvio Merli e alle 14,02 il perito balistico Antonio Ugolini.

La Renault 4 fu sempre nella mani dei brigatisti
Rubata da Bruno Seghetti il primo marzo del 1978 nella stessa zona dove vennero prese gran parte delle vetture impiegate in via Fani, venne affidata alla brigata universitaria che si occupò di cambiarne la targa, contraffare i documenti, lavarla (il proprietario lavorava nei cantieri edili e la Renault era molto sporca) e spostarla periodicamente. Utilizzato per l’azione contro la caserma Talamo dei carabinieri a Roma, il 19 aprile del 1978, fu richiesta da Seghetti pochi giorni prima del 9 maggio, quando le Brigate rosse avevano deciso di concludere il sequestro. La decisione di giustiziare l’ostaggio e le modalità della sua esecuzione vennero prese l’8 maggio in una drammatica riunione della direzione della colonna romana tenutasi nell’appartamento di via Chiabrera 74, dopo le mancate dichiarazioni di apertura promesse da Fanfani attraverso il suo portavoce Bartolomei.

Il frontalino della Renault venne notato dalla signora Graziana Ciccotti, condomina della palazzina di via Montalcini 8, all’alba della mattina del 9 maggio quando scese nel garage dell’abitazione per andare al lavoro e incontrò sul posto Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento nel quale Moro fu tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro.
 Dopo l’uccisione dello statista all’interno del box dove era parcheggiata la Renault, il mezzo fu portato da Mario Moretti e Germano Maccari in via Caetani. All’altezza di piazza Monte Savello, a ridosso del ghetto ebraico, furono “scortati” da Bruno Seghetti e Valerio Morucci, che all’interno di una Simca fecero da staffetta armata nella parte più delicata del tragitto fino a via Caetani, dove la sera prima lo stesso Seghetti aveva parcheggiato la sua Renault 6 verde per preservare il posto dove lasciare la Renault 4. Poco dopo il mezzo fu visto dalle testi Antonini e Degli Esposti. Negli ultimi giorni del sequestro i brigatisti non persero mai il controllo dell’ostaggio.

Il caffè di Signorile – seconda puntata

Nell’ultima stagione delle dietrologie sul sequestro Moro un ruolo importante è stato attribuito a nuove testimonianze, o meglio nuovi di ricordi di vecchi testimoni che improvvisamente hanno riacceso la loro memoria sopita per decenni. Ne abbiamo già scritto in una precedente puntata. Oggi affrontiamo la singolare storia del “caffè di Signorile” recentemente tornato alle cronache grazie ad una nota trasmissione televisiva.

«La persona informata sui fatti – ha scritto il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è «una sorta di di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato che il testimone deve soltanto ritrovare […] Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..]».
Ne abbiamo avuto l’ennesima prova nella puntata di Report del 7 gennaio scorso, dedicata alla scoperta di nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro e dove l’ex segretario del partito socialista Claudio Signorile ha sostenuto che Cossiga fu avvisato della morte di Moro molto prima che giungesse la telefonata dei brigatisti. Dichiarazioni che hanno riacceso l’attenzione sui tempi e le modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana.

Ricordi ad orologeria
Da circa un decennio a questa parte l’ex parlamentare socialista sostiene di avere assistito. la mattina del 9 maggio 1978, alla telefonata che avvisò Cossiga della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata ufficiale fatta da Valerio Morucci al professor Tritto, lasciando intendere che a uccidere l’uomo politico non furono i brigatisti, alla fine del lungo sequestro e del rifiuto di trattare da parte del governo e delle forze politiche schierate per la «fermezza», ma forze straniere che ne condizionarono l’esito finale. Volontà superiore a cui i brigatisti dovettero adattarsi, se non addirittura cedere l’ostaggio perché ridotti a semplici figuranti di un gioco più grande di loro.
Quelle di Signorile sono dichiarazioni molto tardive rispetto ai fatti e vanno ad arricchire, come abbiamo visto nella precedente puntata (leggi qui), la lista di quei «nuovi testimoni» che pretendono di cambiare con i loro ricordi ad orologeria quello che è stato il corso della storia. Se è vero che il 9 maggio si trovava nell’ufficio di Cossiga per perorare la causa della trattativa in favore della liberazione di Moro, per trent’anni l’orario dell’arrivo nel sua stanza, invitato a «prendere un caffè» dal ministro dell’Interno, e la circostanza della telefonata giunta in anticipo sulla notizia ufficiale, non destò mai il suo interesse tantomeno quello dei suoi interlocutori. Signorile non denunciò mai la strana circostanza, non approfondì la questione, non ne parlò con il suo segretario Bettino Craxi che, come lui, si era impegnato per la trattativa.
Sull’Avanti, organo del partito socialista, come in parlamento, mai fu sollevata la questione. Un silenzio davvero singolare soprattutto se si considera la posizione in cui egli venne a trovarsi all’epoca. Signorile, Craxi e i socialisti in generale, si dovettero difendere dalle accuse mosse per aver tentato di aprire un canale di contatto con i rapitori tentando di favorire una soluzione politico-umanitaria del sequestro. Il dibattito pubblico – infatti – in quegli anni verteva attorno alla legittimità della «linea della trattativa», con il suo portato di sospetti e accuse di connivenze mosse dai sostenitori della fermezza che ritenevano quella posizione solo una strumentale manovra per rompere il patto Dc-Pci.

Sotto accusa
Sospetti pesanti che Signorile dovette chiarire in più circostanze: davanti al magistrato che conduceva le prime indagini, poi il 13 novembre 1980 difronte alla prima commissione Moro, dove venne incalzato da personaggi del calibro di Violante, Pecchioli e Flamigni nel corso di una lunghissima seduta (38 pagine di verbale). In quella circostanza sotto la pressione delle domande, Signorile fu protagonista di un lapsus che lo portò a confondere l’ora dell’appuntamento con Cossiga, le 11, con quello della telefonata che avvertì il ministro dell’Interno della morte di Moro, cioè un’ora e dieci minuti prima della chiamata delle Br. Nemmeno in quella ghiotta circostanza i suoi accigliati e sospettosi esaminatori ebbero qualcosa da eccepire. E non lo fecero nemmeno negli anni a venire.
E ancora qualche tempo dopo davanti alla corte d’assise, nel primo processo Moro, lungamente interrogato dal presidente Santiapichi e poi da agguerrite parti civili, che in realtà erano suoi avversari politici: gli avvocati del Pci Fausto Tarsitano e Giuseppe Zupo (responsabile giustizia Pci). Infine nel 1999, difronte alla commissione Pellegrino che lo obbligò a ritornare sulla vicenda della trattativa. In tutte queste deposizioni mai fu menzionato da Signorile o dai suoi interlocutori il problema dell’orario della telefonata giunta a Cossiga.

Il racconto della trattativa sceneggiato dalla rivista Metropoli

L’intervista ad Alessandro Forlani
Signorile corresse l’errore dell’80 in una intervista telefonica (la trovate qui, la versione integrale qui) del 4 maggio 2013 rilasciata al giornalista Rai Alessandro Forlani, durante la presentazione del libro La zona franca, che per la prima volta introduceva sospetti e costruiva una nuovo teorema dietrologico sulla morte di Moro e le modalità della riconsegna del suo corpo. Signorile quel giorno fu molto chiaro: era andato da Cossiga alle 11, invitato per un caffè, la telefonata che avvertiva il ministro dell’Interno del ritrovamento del cadavere era giunta intorno a mezzogiorno. Ricordava tutto ciò grazie ad un riferimento mnemonico preciso: dovette avvertire Craxi che era in viaggio per Grosseto e riuscì a raggiungerlo al telefono quando questi si trovava all’altezza di Civitavecchia.
Successivamente ha cambiato versione, l’ora del caffè preso al Viminale ha così cominciato lentamente a scivolare fino all’inizio della mattinata trascinando con sé la telefonata ricevuta da Cossiga. Cosa era successo?

La svolta
Le polemiche sulla trattativa e il canale di contatto con i brigatisti si erano esaurite da qualche anno. Nel frattempo il quadro politico era profondamente mutato e i partiti che avevano animato i fronti contrapposti della fermezza e della trattativa erano scomparsi sotto le macerie del muro di Berlino e le inchieste contro la corruzione che misero fine alla prima repubblica. I sopravvissuti si erano rimescolati e ricompattati su una posizione comune: Moro non era morto perché abbandonato dai fautori della linea della fermezza o perché i sostenitori della trattativa si mossero troppo tardi e troppo timidamente, traditi per giunta dal presidente del Senato Fanfani che non fece le dichiarazioni di apertura promesse il 7 maggio attraverso il suo portavoce Bartolomei e ancora meno la mattina del 9, durante la riunione della direzione democristiana in piazza del Gesù, ma perché forze superiori e straniere interferirono sul sequestro. 
Nel 2014 sull’onda di alcuni scoop che poi si rivelarono delle clamorose fake news, una nuova commissione parlamentare d’inchiesta venne istituita per indagare sui presunti misteri ancora irrisolti, le cosiddette «verità indicibili». Il rinnovato tema del complotto funzionava come ultimo alibi per quel ceto politico residuale scampato a Tangentopoli e che ebbe un ruolo ai tempi del sequestro. E’ in quel preciso momento che Signorile inizia a cambiare versione, sollecitato da una inchiesta di Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronuovo, anticipando di molto l’appuntamento con Cossiga e l’arrivo della telefonata che lo informò del ritrovamento del cadavere di Moro.

Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda

di Paolo Morando, Domani 11 gennaio 2024

Davvero l’ex esponente socialista e l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga seppero della morte di Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?

Davvero Claudio Signorile e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, il 9 maggio 1978, seppero della morte di Aldo Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?
È solo uno dei tanti elementi del servizio di Report di domenica scorsa sul rapimento e l’uccisione dello statista democristiano da parte delle Brigate rosse, ma è forse quello più suggestivo, tra le miriadi di dubbi, zone d’ombra e presunti misteri su cui dopo decenni si discute ancora oggi, a oltre 45 anni dai fatti.
Tutto ruota attorno a una questione sostanziale: quell’agguato, quel rapimento e quell’uccisione furono tutta farina del sacco brigatista? Oppure vi fu chi “diresse” (o “facilitò”) quell’operazione? E, seguendo questa ipotesi, chi? Servizi segreti, P2, Cia, Kgb, Mossad: da questa maionese impazzita nessuno è stato lasciato fuori. Ma la giustizia ha da anni chiuso la partita, attraverso più processi. E neppure le due inchieste ancora aperte a Roma, condotte dalla procura ordinaria e da quella generale, sembrano fare passi in avanti.
Nel frattempo si è fatto strada un inesauribile filone di pubblicazioni in controtendenza con quanto è stato appurato nelle Corti d’assise. E oltre ai processi ci sono le commissioni parlamentari d’inchiesta. A una prima, specifica, istituita nel 1979 e che chiuse i propri lavori nel 1983 (gli atti sono contenuti in centotrenta volumi, ognuno dei quali composto mediamente da svariate centinaia di pagine), in anni recenti se n’è aggiunta una seconda, la cui documentazione pure consta di migliaia di carte.
Anche commissioni d’inchiesta istituite su altri temi (stragi, P2, Mitrokhin, Antimafia) di Moro si sono lungamente occupate. Aggiungete a tutto questo più opere cinematografiche, una moltitudine di inchieste giornalistiche sulla stampa o in tv, romanzi di para-fiction, opere teatrali… E poi i dibattiti in rete, in cui si discute senza sosta su particolari più o meno rilevanti della vicenda.

La perizia balistica del 2016 che Report non cita
Lo spazio non consente di riprendere qui punto per punto le mille suggestioni di Report, basate principalmente sui lavori della commissione Moro 2, quella presieduta da Giuseppe Fioroni.
Nella trasmissione, a un certo punto, è però stato detto che mai sono state eseguite perizie balistiche aggiornate rispetto a quelle di oltre quarant’anni fa. Lo si diceva a supporto dell’ipotesi secondo cui a sparare il 16 marzo 1978 in via Fani non sarebbero stati solo quattro brigatisti (Fiore, Morucci, Gallinari e Bonisoli), ma anche un altro paio, finora sconosciuti.
E che lo avrebbero fatto non da sinistra, come nella ricostruzione fin qui accreditata, bensì da destra. Ebbene, proprio la Moro 2 si è invece giovata nel 2015 di una perizia balistica compiuta dalla polizia scientifica. E i risultati, che avvalorano la versione brigatista, sono stati recepiti nella stessa relazione del presidente Fioroni conclusiva dell’attività di quell’anno.

Dubbi sull’uso di una moto nell’azione. Le bugie del testimone Marini e il parabrezza mai attinto da colpi di mitraglietta
Non solo. Sempre nella relazione, si sottolineano «due acquisizioni» raggiunte dalla polizia scientifica: «La prima riguarda la scoperta che il parabrezza di Marini non è stato attinto da colpi d’arma da fuoco come finora si è creduto».
E si tratta di quell’ingegnere a bordo di uno scooter che sarebbe stato preso di mira da due motociclisti in fuga da via Fani: vicenda del tutto destituita di fondamento, come lo stesso Marini dovette ammettere in un verbale ancora nel 1994. Il che, per inciso, pone in discussione l’esistenza stessa di quella motocicletta, della cui presenza in via Fani parlarono solo tre degli oltre trenta testimoni a suo tempo messi a verbale.

Nessun superkiller
Ancora, sempre citando Fioroni: «Il secondo punto acquisito dalla polizia riguarda la messa in crisi dell’idea che a via Fani abbia operato un super killer. È vero infatti che vi fu una bocca di fuoco che sparò da sola quarantanove colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata (da quell’arma soltanto sei colpi andarono a bersaglio, attingendo l’agente Iozzino)».
Altro che super killer. Il fatto che poi quella perizia sia stata «oggetto di un’attenta analisi critica da parte di alcuni componenti della Commissione», come scrive Fioroni, conferma una volta di più che anche elementi scientifici possono servire per tirare l’acqua al proprio mulino.

La prigione di Moro fu una sola
Altra questione ampiamente analizzata da Report: davvero Moro è stato tenuto prigioniero nell’appartamento di via Montalcini 8? È stata citata una mezza dozzina di possibili covi alternativi, dei quali pure si parla da anni. Si può però davvero pensare che le Brigate rosse abbiano spostato l’ostaggio più volte nella Roma militarizzata di quelle settimane? Ma soprattutto: perché farlo se davvero le Br erano protette da entità indicibili?

Signorile da Cossiga e la questione dell’ora
Si diceva però di Signorile. La sua presenza nell’ufficio di Cossiga la mattina del 9 maggio è circostanza da tempo nota. Ma davvero al ministro la notizia della morte di Moro arrivò molto prima della telefonata con cui Morucci, alle 12.13, diede notizia al professor Tritto, assistente di Moro, che lo statista era stato ucciso e di dove si sarebbe potuto ritrovare il corpo? Rivedendo Report, ci si accorge che a dire «le 9.30-10» non è Signorile, bensì l’intervistatore.
Signorile peraltro lo lascia parlare senza interrompere, quindi di fatto conferma. Se così fosse, lo capite, si aprirebbero scenari vertiginosi – pure sviluppati da Report – su cui da anni la cosiddetta dietrologia non si è risparmiata. Qui il punto riguarda la validità delle testimonianze orali, soprattutto quelle di coloro avanti con l’età e rese a tanti anni dai fatti su cui la memoria viene sollecitata.
Inoltre, l’impossibilità di riscontrare tali testimonianze con tutti i protagonisti (in questo caso Cossiga). Anche perché l’orario dell’alert al ministro – si scopre rileggendo le tante dichiarazioni di Signorile – è ballerino. Come pure la rilevanza che diede alla questione l’esponente socialista.
Già nel 1980 (commissione Moro 1) Signorile raccontò quella mattina, collocando l’avviso a Cossiga della morte di Moro alle 11: orario inconciliabile con i fatti accertati. Nessuno dei parlamentari però pensò di chiedergli maggiori dettagli sul punto (e della commissione faceva parte pure il comunista Sergio Flamigni, da sempre capofila di chi non crede alle versioni “ufficiali”), probabilmente pensando che Signorile con quell’orario intendesse quello dell’appuntamento con Cossiga al Viminale.
Davanti alla Corte d’assise di Roma invece, nel 1982 in un lungo interrogatorio come testimone, Signorile non sfiorò minimamente la questione di quello strano orario. E anche nel 1999, davanti alla commissione Stragi (quella presieduta da Pellegrino), nuovamente nessun accenno: eppure non si trattava di una questione banale.
Poi, nel gennaio 2010 ne riparlò in una intervista all’Ansa: «Dopo pochi minuti che ero nella sua stanza, erano le 10 e mezzo-11, sentiamo l’altoparlante della centrale operativa, annunciare che la nota personalità era stata ritrovata al centro di Roma», disse a Paolo Cucchiarelli (autore di più libri a cui si è ispirato il servizio di Report). Non risulta che Cossiga abbia smentito.
Ma neppure che qualcuno ne abbia mai chiesto conferma all’allora senatore a vita. Tre anni più tardi (ma attenzione: Cossiga nel frattempo era morto, nell’agosto 2010), parlando con l’Huffington Post, Signorile tornò sulla questione: e collocò invece a mezzogiorno l’allarme a Cossiga. Mentre nel 2020, in una lunga intervista al Corriere della Sera (e l’intervistatore era Walter Veltroni), ecco ancora una volta il racconto di quella mattinata al Viminale. Ma senza alcun riferimento (e relativo sospetto) all’orario in cui Cossiga fu avvisato.
Nel frattempo Signorile era stato sentito anche dalla commissione Moro 2, il 12 luglio 2016: «Io vi sto testimoniando la telefonata vera, quella cioè della questura che chiama il ministro dell’Interno», disse. E all’allora senatore Miguel Gotor, che indicava come orario le 11, rispose: «Più o meno a quell’ora, sì».

L’artificiere Raso e Signorile si smentiscono a vicenda
Va detto che nel 2012 era stato pubblicato un libro di memorie dell’artificiere che intervenne quella mattina in via Caetani, Vitantonio Raso, il quale ha sostenuto di essere arrivato lì tra le 10.30 e le 10.45. E di aver parlato con Cossiga, che era già presente in strada. Peraltro non c’è traccia di sue relazioni di servizio.
Le affermazioni di Raso, per inciso, contrastano con quelle di Signorile: se Cossiga stava già in via Caetani, come poteva essere alla stessa ora con Signorile al Viminale? La procura di Roma, comunque, a suo tempo incriminò Raso per calunnia. E della cosa non si è più sentito parlare.
Che cosa ci dice tutto questo? Quanto meno che quell’orario non è riscontrato (né è più riscontrabile).

Gli orari della centrale operativa dei carabinieri
D’altra parte, il registro delle comunicazioni telefoniche della legione Roma dei Carabinieri di quel giorno attesta alle 13.50 il rinvenimento del cadavere nella R4 rossa, alle 13.59 la sua identificazione e dalle 14.01 in poi l’informazione a tutte le autorità, a partire dalla Presidenza della Repubblica. Ce n’è insomma abbastanza per prendere la cosa (assieme a molte altre) con tutte le molle possibili.

Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile

Nel corso della trasmissione in onda su Report in questo momento l’ex vice segretario del partito socialista Claudio Signorile afferma di essere stato convocato al Viminale dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga la mattina del 9 maggio. Nel corso dell’incontro – afferma – Cossiga sarebbe stato avvisato da una telefonata del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. La comunicazione sarebbe giunta, secondo Signorile non oltre le 10.00 del mattino, perché ricorda che prese con un caffé «e il caffé non si prende a tarda mattinata». La telefonata che Valerio Morucci per conto delle Brigate rosse fece al professor Tritto è delle 12.13 minuti. La notizia venne diramata dall’Ansa alle 13.59 mentre il centralinio della sala operativa dei carabinieri riceve comunicazione del ritrovamento di un corpo all’interno di una Ranault 4 in via Caetani alle 13.50 e alle aale 13.59 conferma che si trattava del cadavere di Aldo Moro.
La testimonianza di Signorile lascia intendere dunque che apparati dello Stato erano al corrente del rinvenimento del corpo dello statista democristiano prima della telefonata della Brigate rosse. Una ricostruzione che porterebbe a ritenere provato il coinvolgimento di questi apparati nella esecuzione o comunque nella conoscenza delle ultime mosse fatte dalle Brigate rosse in quelle ore.

Una memoria scivolosa che cambia nel tempo
Tuttavia la testimonianza attuale di Signorile contrasta con quanto da lui affermato in passato.
A pochi anni di distanza dal ritrovamento del corpo di Moro, nei primi anni 80 davanti alla corte d’assise dove si svolgeva il primo processo sul sequestro dello statista democristiano, Signorile lungamente interrogato dal presidente e dalle parti civili non fece mai riferimento all’incontro conn Cossiga e tantomeno alla telefonata da lui ricevuta con largo anticipo sull’orario ufficiale sul ritrovamento del corpo di Moro.
Nel 1980 audito dalla prima commissione Moro accennò per la prima volta all’incontro con Cossiga, dove si era recato per perorare la causa della trattativa. quella mattina infatti si riuniva la direzione della Dc e Fanfani, da lui convinto, avrebbe dovuto prendere la parola in favore di un’apertura verso la trattativa. Disse che intorno alla 11 giunse la telefonata che avvertì Cossiga del ritrovamento del corpo di Moro. In commissione nessuno eccepì sull’orario, in largo anticipo con quello ufficiale, eppure erano presenti i vari Flamigni e compagni. Probabilmente intesero nell’orario inesatto di Signorile che volesse intendere in tarda mattinata o che le 11 era l’ora in cui fosse arrivato all’appuntamento.
Nel 1999 davanti alla commissione Pellegrino, Signorile tornò sull’incontro con Cossiga la mattina del 9 maggio 1978 senza riferire della telefonata giunta in anticipo.
Nel 2010 Francesco Cossiga è morto.
Nel 2013 l’artificiere Vittantonio Raso che la mattina del 9 maggio giunse in vai Caetani per le verifiche di sicurezza e l’apertura del portellone della Renault 4 dove si trovava Moro affermò di esser giunto sul posto con largo anticipo rispetto all’orario poi divenuto ufficiale e disse di aver visto Cossiga giungere una prima volta da solo e poi succesivamente, quando la notizia venne diffusa, con le altre autorità. L’inchiesta che ne seguì però smenti le sue affermazioni tanto da finire indagato per falsa testimonianza. Dopo le parole dell’artificiere, improvvisamente Claudio Signorile ritrovò la memoria per affermare che il 9 maggio era andato da Cossiga, stavolta non più per parlare della trattativa e di Fanfani ma convocato dal ministro dell’Interno che gli sarebbe apparso molto teso. Anche l’orario cambiava, non più le 11 ma tra le 9 e le 10, perché il caffé, che presero insieme, si prende presto e così anche la telefonata, il cicalino che suonò sulla scrivania del minsitro, si fece sentire molto prima. Insomma la polizia e Cossiga avrebbero saputo del ritrovamento del corpo la mattina del 9 maggio e questo perché forze straniere avrebbero agito quel giorno sostituendosi e imponendosi sulle Brigate rosse.
Da allora Signorile ha ribadito questa versione in interviste e in davanti la seconda commissione Moro nel 2016.
Insomma una memoria scivolosa quella dell’ex segretario del partito socialista che si arricchisce nel tempo di dettagli per decenni dimenticati e soprattutto quando chi potrebbe smentirlo e morto. Forse Signorile ha bisogno di dire queste cose per farsi perdonare il suo convolgimento nel tentativo di dare vita ad una trattativa che salvasse Moro.

Esterno notte, l’ex Br Persichetti: «Bellocchio scrive il romanzo del potere Dc»

«Per il regista il brigatismo è una nevrosi»
15 novembre 2022 https://www.adnkronos.com

Bellocchio scrive «il romanzo del potere Dc», disegna «il ritratto di un interno di Regime» in una «introspezione del mondo democristiano abbastanza riuscita» mentre non comprende il brigatismo, raccontato come «una nevrosi» e vissuto come «una ingiustificata eresia del comunismo». Così l’ex Br Paolo Persichetti, autore di libri e inchieste sul caso Moro, commenta all’Adnkronos Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio che sta andando in onda su Rai 1 (stasera la seconda puntata e il 17 l’ultima).

«La scelta iniziale di mostrare cosa sarebbe stato il piano Victor con Moro rinchiuso in una clinica che riceve la visita dei maggiorenti democristiani, Andreotti, Cossiga e Zaccagnini, e la voce fuoricampo che legge il brano contro la Dc mi è sembrata una scelta autoriale molto azzeccata – osserva Persichetti – Non è funambolica e sognatrice come il Moro che passeggia libero di ‘Buongiorno, notte’ ma intrisa di verità storica. Quel piano era stato predisposto e quelle parole Moro le ha scritte per davvero». L’ex Br è colpito anche dalla scena in cui Cossiga conversa con il professor Ferracuti, membro di spicco del comitato di crisi che al Viminale gestì la strategia del governo sul sequestro. «Bellocchio fa mostra di una perfidia sottile – sottolinea – nella scena Ferracuti spiega che alla notizia del sequestro i nevrotici esultano diversamente da paranoici e psicopatici. Se stiamo a queste categorie aggiungerei che gli psicopatici erano i fautori della linea della fermezza e i paranoici i complottisti».

Persichetti, da vero e proprio esegeta del caso Moro, di cui ha provato a ricostruire la dinamica in anni e anni di ricerche, riconosce nella fiction «alcune imprecisioni di dettaglio». Per esempio, spiega, «non è vera la descrizione del primo controllo di polizia in via Gradoli. Non era una ispezione di massa ma un controllo discreto, una verifica alla porta: i Br non erano in casa e mai seppero di quell’episodio altrimenti avrebbero subito smobilitato la base».

L’ex brigatista contesta anche «qualche sorvolo di troppo sulla figura di Berlinguer, poco approfondita, e del Pci in generale il cui ruolo fu decisivo per osteggiare la liberazione di Moro in quei 55 giorni». Anzi, sottolinea, «sarebbe ora che si raccontasse quello che loro si dicevano nelle riunioni di Direzione, e la reazione brutale davanti alla scelta di Moro di cambiare la lista dei ministri del nuovo governo cancellando i tre indicati dal Pci».

Al di là di queste osservazioni, tuttavia, «il giudizio su queste due prime puntate non è negativo – dice – Bisogna vedere il resto, anche se già si comprende che il racconto del movimento del 77, delle Br e delle figure militanti in generale resta sullo sfondo, fatto di figure caricaturali, sfocate, mai sapientemente approfondite. Non si capisce perché Moro viene rapito, chi erano i brigatisti, da dove venivano, come e perché sono arrivati a tanto? Il problema sta nella poca curiosità di Bellocchio, disattenzione e pregiudizio forse legati alle incrostazioni del suo passato dottrinario di militante maoista che percepiva le Brigate rosse come una ingiustificata eresia del comunismo». E poi, aggiunge, «le frequentazioni con lo psicoterapeuta Massimo Fagioli lo portano a categorizzare il brigatismo come una nevrosi».

«Al contrario i ritratti dei politici Dc sono efficaci, veritieri e penetranti sia nella dimensione politica che in quella personale e privata, molto triste. Una introspezione del mondo democristiano abbastanza riuscita. Fin qui è un romanzo del potere Dc, ritratto di un interno di Regime», sottolinea ancora Persichetti, che annota: «Micidiale la frase rivolta al Pci messa in bocca a Cossiga dopo l’arrivo della lettera che Moro gli aveva indirizzato: ‘Loro gli stanno già facendo il funerale e noi li seguiamo con i ceri accesi’. Che poi è il riassunto di quello che accadde nei 55 giorni».

Cossiga e gli ex Br, «Ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”»

Il titolo della edizione cartacea del Corriere della sera uscito in edicola il 7 agosto 2020 citava le «lettere inedite», titolo che si ritrova anche nella stringa (https://www.corriere.it/…/cossiga-ex-br-lettere-inedite-mi-…).  Stranamente nell’edizione online, quelle lettere «inedite» sono diventate «segrete». Un malizioso stravolgimento del pezzo firmato da Bianconi e della realtà dei fatti, perché l’epistolario di Cossiga non fu segreto né tantomeno inedito

 

cossiga_a_chicago_ans-908-560-820833

Chi ricorda l’estate del 1991, sa bene come andarono le cose, a partire dai quattro decreti di grazia d’ufficio proposti (cioè promossi direttamente dalla presidenza della Repubblica e non richiesti da Curcio) e rifiutati dall’allora Guardasigilli Martelli (che secondo la Costituzione avrebbe dovuto controfirmare). Questione poi avocata dal presidente del consiglio Andreotti che, a sua volta, pose il veto del governo, spalleggiato dal Pci. Ne scaturì un conflitto di attribuzioni di natura costituzionale che celava anche un conflitto politico. Cossiga graziando Curcio con motivazioni dichiaratamente politiche voleva aprire la stagione dell’amnistia e chiudere con l’emergenza giudiziaria, convinto che questa avesse creato un vulnus nella tradizione giuridica, inasprendo il codice Rocco rispetto alla versione originale d’epoca fascista e soprattutto introducendo palesi criteri d’iniquità nei trattamenti processuali, penali e penitenziari: dove pentiti e dissociati a parità di reati si avvalevano di trattamenti di favore rispetto a chi aveva rifiutato di accedere a quei dispositivi mantenendo la propria dignità personale e politica. Non solo, ma Cossiga aveva capito che la delega fornita alla magistratura aveva favorito il suo ingresso negli affari politici, iniziando a destabilizzare l’equilibrio tra poteri previsto dalla costituzionalismo liberale. Cossiga era cosciente di aver innescato lui stesso una profonda ferita nella tradizione giuridica italiana quindi pensava all’amnistia come ad uno dei modi per disinnescare l’emergenza giudiziaria, ricollocare la sfera giudiziaria nel suo alveo naturale e rilanciare una più corretta dialettica politica e sociale. Intravedeva all’orizzonte quel che poteva accadere di lì a poco e poi accadde: la fine della Prima repubblica e l’avvento del protagonismo politico delle procure che deflagrò con le inchieste per «Mani pulite». Mesi prima aveva avviato un duro braccio di ferro con il Consiglio superiore della magistratura sulla definizione di alcuni ordini del giorno, uno di essi riguardava la vicenda Gladio, fino al ritiro della delega al vicepresidente Giovanni Galloni. Nel novembre successivo inviò la forza pubblica nell’aula del Csm, giustificando la presenza in aula dei Carabinieri con i ‘poteri di polizia delle sedute’ a lui attribuiti. Da quello scontro venne fuori la stagione delle “esternazioni», del «presidente picconatore».

Il 28 luglio, in una delle sue sortite Cossiga disse: «Quando noi, alla fine degli Anni Settanta, ci battevamo con tutta la forza di cui poteva disporre lo Stato contro la banda armata detta Brigate rosse, il partito comunista di mio cugino Berlinguer portava in quella lotta anche un impegno ulteriore, per un fatto propriamente politico, che andava oltre quello, comune a tutti, della difesa dello Stato dall’eversione. A quei tempi il Pci voleva impedire a qualsiasi costo che una guerriglia, in qualsiasi maniera legittimata, potesse pretendere di occupare uno spazio alla sua estrema sinistra. Guai se, dal punto di vista del Pci, la guerriglia brigatista avesse ottenuto una legittimazione alla maniera dell’Olp. Questo interesse in qualche misura privato del Pci si aggiungeva allora al nostro, che era semplicemente quello di difendere lo Stato, battere quei nemici, ma senza rinunciare a capirli: per far fallire il loro piano dal punto di vista morale e politico, e poi anche sul terreno dello scontro militare. Quello volevamo ottenere e quello ottenemmo. Io fui sconfitto col caso Moro, è vero. Ma sono stato un combattente di prima linea in quella guerra». Ed ancora, «I comunisti sono stati i più scatenati contro di me in questo momento. Mi dispiace per loro, perché io credo che proprio a sinistra sia stato capito nel modo giusto quello che era mia intenzione sottolineare dando la grazia a Curcio […] Il Pci – mi scusi, io seguito a chiamarlo Pci – è rimasto in braghe di tela. Politicamente sono sconfitti: non hanno saputo cogliere neanche una questione così delicata e importante per la sinistra, qual era e resta la questione del terrorismo e del partito armato. Io ho proposto la grazia per Curcio perché sento di essere il capo di uno Stato forte. Loro sono apparsi deboli», (La Stampa, 15 agosto 1991).

L’epistolario di Cossiga è una diretta conseguenza di quella clamorosa stagione di cui si trova traccia nelle emeroteche. Dopo il rifiuto della grazia, Cossiga rese visita in carcere a Curcio, da qui il resoconto che questi scrisse del loro incontro. Negli anni successivi arrivarono le altre lettere a Gallinari e Maccari, il biglietto per il libro intervista di Mario Moretti del 1993, che ricostruiva la storia delle Brigate rosse e il sequestro Moro. Nel 2002 la lettera al sottoscritto, pervenuta nel reparto di isolamento del carcere di Marino del Tronto, immediatamente dopo la mia estradizione dalla Francia, salutata da tutti i media italiani come la fine della dottrina Mitterrand. Lettera che fece il giro del mondo, finendo davanti alle giuridizioni francesi, argentine e brasiliane. Questi messaggi, e le dichiarazioni del 1991 di Cossiga, meriterebbero una riflessione più approfondita. Per il momento mi limito a sottolineare solo una cosa: Renato Curcio ricevette la visita di Cossiga dopo il rifiuto della grazia, sucessivamente chiese al tribunale di Sassari un cumulo di pena che gli avrebbe permesso l’uscita dal carcere. I magistrati sardi glielo negarono. Terminò di scontare la pena molto più tardi. Prospero Gallinari e Gennaro Maccari sono morti durante l’esecuzione della loro condanna. Mario Moretti è ancora “fine pena mai”, ha raggiunto ormai il suo 39vesimo anno di carcere. Il sottoscritto ha terminato la pena nel 2014, scontata fino all’ultimo giorno (quindici anni e alcuni mesi). L’interlocuzione con Cossiga verteva su una soluzione generale della prigionia politica che alla fine non ci fu. Quelle di Cossiga furono le lettere di uno sconfitto, un capo di stato maggiore che aveva vinto la battaglia contro la lotta armata ma aveva perso la guerra contro l’emergenza, da lui stesso creata.

Documenti – Un articolo di Giovanni Bianconi racconta la corrispondenza privata, resa pubblica dalla Camera dei deputati, che l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ebbe con alcuni esponenti delle Brigate rosse dal 1991 fino al 2002

Corriere della sera del 7 agosto 2020
di Giovanni Bianconi

Un anno dopo il fallito tentativo di concedergli la grazia nell’estate 1991, l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontrò Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Il colloquio avvenne a quattr’occhi, nel carcere romano di Rebibbia, il 25 novembre 1992, quando Cossiga aveva lasciato il Quirinale da sei mesi. Parlarono di molte cose, dal «carattere sociale e politico del fenomeno armato», che l’ex capo dello Stato non definiva terrorismo bensì «sovversivismo di sinistra», al caso Moro, alla vicenda della grazia abortita. 

Cossiga spiegò che nelle sue intenzioni quell’atto di clemenza unilaterale doveva essere un primo passo per superare le leggi di emergenza a cui lui stesso aveva contributo, prima da ministro dell’Interno e poi da presidente del Consiglio, quando le Br avevano lanciato il loro «attacco al cuore dello Stato». I vertici delle forze di sicurezza erano d’accordo, ma i parenti delle vittime no, al pari di alcune forze politiche; in primo luogo l’ex Pci divenuto Partito democratico della sinistra.
Lo scritto di Curcio
«Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare», ha scritto Curcio in un resoconto dell’incontro conservato nell’archivio privato del presidente emerito. Insieme e a un biglietto inviato al fondatore delle Br per ringrazialo dell’incontro che «è stato per me di grande interesse politico, culturale, e soprattutto umano». Risposta dell’ex brigatista: «Debbo dirle che dopo anni di fuoco, non solo metaforico, e di K (nell’estrema sinistra il ministro dell’Interno del ’77 veniva chiamato Kossiga, con la doppia S stilizzata come il simbolo delle SS naziste, ndr), ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale… Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato». 

Curcio comincerà a uscire dal carcere solo l’anno successivo, in un periodo in cui Cossiga (non più Kossiga bensì il «picconatore» del sistema di cui era stato parte) ha intrattenuto rapporti epistolari e diretti con molti ex terroristi. In prevalenza di sinistra, ma non solo. Nel suo archivio donato alla Camera dei deputati, oltre al carteggio con Curcio ci sono le lettere inviate ad altri brigatisti come Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, militanti dell’Unione dei comunisti combattenti, pentiti come Marco Barbone e l’ex di Prima linea Roberto Sandalo, esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia per evitare il carcere, a cominciare da Toni Negri. Il quale, una volta rientrato in Italia per finire di scontare la pena, si rivolse all’ex presidente per chiedere una buona parola con un dirigente della Digos.

La vacanza di Toni Negri
Su sollecitazione di Cossiga, in virtù di un’antica conoscenza personale e «come primo effetto della reciproca smobilitazione ideologica», Negri gli dava del tu, e il 12 aprile 1998, giorno di Pasqua, gli scrisse per fargli gli auguri e «per chiederti di intervenire eccezionalmente in mio favore». Dopo un primo diniego, il professore detenuto aspirava a ottenere un permesso per «una brevissima vacanza», però serviva che la polizia «dichiarasse insussistente, come in realtà è, il pericolo di fuga». Così Negri s’era rivolto al presidente emerito: «Mi permetto di insistere con te perché, se ti è possibile, tu faccia questo intervento. Ti ringrazio fin d’ora per quello che potrai fare». 

All’ex carceriere di Moro Prospero Gallinari, scarcerato per motivi di salute, Cossiga scrisse il 5 maggio ’94: «Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena». Aggiungendo il rammarico perché nell’ex Pci c’era chi considerava le Br «uno strumento della Cia e della P2! Che vergogna e che falsità, che viltà e che malafede! Ma non se la prenda. Se viene a Roma me lo faccia sapere». 

In una lettera a Mario Moretti, il «regista» del caso Moro, l’ex presidente lo ringrazia per il libro sulla storia delle Br scritto nel 1994, e ribadisce la sua idea di un fenomeno «radicato socialmente e radicalmente nella società e nella sinistra italiana, e collegata alla divisione ideologica dell’Europa».

L’omicidio Giorgieri
È per questa sua analisi che Cossiga, morto dieci anni fa, è stato e continua ad essere pressoché l’unico politico apprezzato dagli ex militanti della lotta armata di sinistra. Compresi i giovani aderenti alla fazione brigatista che nel 1987 uccisero il generale Licio Giorgieri, come Francesco Maietta e Fabrizio Melorio. «Le sue esternazioni hanno avuto per me lo stesso effetto di rottura e di nuovo punto di partenza delle considerazioni del professor De Felice in materia di fascismo e resistenza», gli scrive Maietta dalla cella nel 1993; cinque anni dopo Cossiga sarà ospite al matrimonio dell’ex brigatista, uscito dal carcere. 

E al suo compagno di cella Melorio, che all’ex presidente aveva raccontato il passaggio dall’essere suo nemico giurato nel ’77 a «condividere molte delle cose che lei sostiene», Cossiga confida: «Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ “colpevole” della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori».

La mamma di Mambro
Nel 2002 il «picconatore» manda una lettera a Paolo Persichetti, altro ex dell’Udcc appena estradato dalla Francia e chiuso in prigione: «Ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato». 

In un altro faldone, insieme a documenti e atti parlamentari e giudiziari sulla strage di Bologna di quarant’anni fa, sono conservate alcune lettere inviate a Cossiga da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando ancora erano sotto processo per la bomba alla quale si sono sempre proclamati estranei. Dopo la condanna nell’appello bis, a luglio ’94, gli scrisse pure la mamma di Francesca Mambro: «Io e i miei figli Le chiediamo aiuto per la ricerca della verità, perché chi è dalla parte della Giustizia si senta anche dalla parte della difesa di Francesca e Valerio». Ma un anno dopo arrivò l’ergastolo definitivo.

Il testo della lettera di Cossiga
Francesco Cossiga, Eravate dei nemici politici, non dei criminali
La fotocopia della lettera di Cossiga

L’intervista alla Stampa
Persichetti, «Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni 70»

Un ritratto di Cossiga
Franco Piperno, Cossiga architetto dell’emergenza giudiziaria. Era convinto che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni

Estradizioni, «L’Italia ha sempre aggirato regole»

lettera_cossiga_1

La lettera che Cossiga scrisse il 27 settembre 2002 all’ex Br Paolo Persichetti

L’Italia “non ha mai ottenuto un’estradizione con una procedura corretta, ha sempre aggirato le regole. Questo vale per il mio caso, per quello di Rita Algranati, arrestata al Cairo e rimpatriata senza alcuna procedura formale, e, ancora di più, per quello di Cesare Battisti“. A parlare all’AdnKronos è Paolo Persichetti, negli anni ’80 nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti, primo (e unico) ex terrorista estradato in Italia dalla Francia. Il suo fu un caso giudiziario e politico. Nel 1993 Persichetti venne arrestato a Parigi, dove era arrivato legalmente prima della condanna in contumacia a 22 anni per banda armata e concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri. Venne arrestato e liberato dopo 14 mesi, grazie all’intervento del presidente francese François Mitterand, e, nonostante alla fine il governo Balladur avesse deciso a favore della sua estradizione in Italia, a stopparne l’esecuzione fu l’arrivo all’Eliseo di Jacques Chirac, contrario a rimettere in discussione la dottrina Mitterrand. La vicenda si chiuse quasi dieci anni dopo: il 24 agosto del 2002, dopo essere stato fermato dalla polizia francese, l’ex Br venne consegnato nel corso della notte alle autorità italiane sotto il tunnel del Monte Bianco in virtù di quell’estradizione concessa ma mai eseguita.

«Io, di fatto, nel 2002 venni arrestato perché mi sospettavano di essere implicato nel delitto Biagi, cosa assolutamente falsa – spiega Persichetti -. Se avesse voluto agire nella legalità, l’Italia avrebbe dovuto emettere un mandato di arresto internazionale, supportato appunto da prove certe, e procedere a una nuova richiesta di estradizione. Ma nulla di tutto questo accadde».

E ora che il fronte delle estradizioni si è riaperto? «Le immagini di Battisti esibito terrorismo_foto_paolo_persichetticome un trofeo, il ghigno feroce di un ministro dell’Interno che vuol decidere al posto della magistratura e che lascia morire in mare profughi che fuggono da guerre e miseria, dovrebbero far riflettere la società e le autorità francesi. Chiunque verrà riconsegnato all’Italia, come è accaduto a me, non verrà punito per le vecchie condanne ma per il reato di esilio».

LA LETTERA DI COSSIGA – «Non perda mai la Sua dignità di uomo neanche in carcere, luogo non fatto e non gestito certo per ‘redimere’ gli uomini! E non perda mai la speranza”. Si concludeva così la lettera che il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga scrisse il 27 settembre 2002 all’ex Br, in risposta a un’intervista che Persichetti aveva fatto dal carcere in cui, tra l’altro, ricordava le posizioni di Cossiga, Macaluso ed Erri De Luca sull’amnistia. “Quando mi consegnarono quella busta in cella pensai che fosse un falso – racconta ora Persichetti all’AdnKronos -. Non me lo aspettavo. Poi però quella lettera venne usata innumerevoli volte, in tutti i casi di opposizione all’estradizione. Cossiga diceva alcune cose fondamentali, che oggi sono più attuali che mai».

Cossiga, rivendicava di aver «combattuto duramente il terrorismo» ma spiegava come si trattasse di un «fenomeno politico» che «affondava le sue radici nella particolare situazione sociale politica del Paese, e non invece un ‘humus delinquenziale’. “Voi siete stati battuti dall’unità politica tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, e per il fatto che non siete stati in grado di trascinare le masse in una vera e propria rivoluzione – scriveva tra l’altro Cossiga -. Ma tutto questo fa parte di un periodo storico dell’Italia che è concluso; e ormai la cosiddetta ‘giustizia’ che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o ‘vendetta’ o ‘paura’, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati, non con il voto popolare e con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le Forze di Polizia e di Sicurezza dello Stato».

Per questo, aggiungeva Cossiga, «io che sono stato per moltissimi di voi: ‘Cossiga con la K’ e addirittura ‘un capo di assassini e un mandante di assassinii’, oggi sono perché si chiuda questo doloroso capitolo della storia civile e politica del Paese, anche ad evitare che pochi irriducibili diventino cattivi maestri di nuovi terroristi, quelli che hanno ucciso D’Antona e Biagi che, per le Forze di Polizia e per la giustizia, è facile ricercare tra di voi, perché voi siete stati sconfitti politicamente e militarmente con l’aiuto della sinistra: andare a cercarli altrove potrebbe essere forse più imbarazzante…».

«Purtroppo ogni tentativo mio e di altri colleghi della destra o della sinistra di far approvare una legge di amnistia e di indulto si è scontrato soprattutto con l’opposizione del mondo politico che fa capo all’ex partito comunista», si rammaricava il presidente emerito.

Poi un passaggio più personale: «Leggo che Le hanno rifiutato l’uso di un computer, che onestamente non sapevo costituisse un’arma da guerra! Qualora Lei lo richieda ancora e ancora glielo rifiutassero, me lo faccia sapere, che provvederò io a farglielo dare. Non perda mai la Sua dignità di uomo neanche in carcere, luogo non fatto e non gestito certo per ‘redimere’ gli uomini! E non perda mai la speranza».

lettera_mitterand.JPGLA LETTERA DI MITTERAND – Era invece il 17 gennaio 1995 quando il presidente francese François Mitterand per la prima volta entrò direttamente nella vicenda che riguardava un fuoriuscito italiano che aveva trovato riparo a Parigi; l’unico che poi, sette anni dopo, verrà estradato: Paolo Persichetti.

Con la ‘coabitazione’ tra il gollista Edouard Balladur al governo e Mitterand all’Eliseo, la ‘dottrina’ varata dal presidente francese a tutela dei terroristi italiani espatriati in Francia era in piena crisi. Arrestato nel novembre del 1993, Persichetti si oppose alla estradizione sostenendo il carattere politico dei reati che gli venivano contestati. Dopo oltre 14 mesi di detenzione e uno sciopero della fame di 19 giorni venne liberato nel gennaio 1995, grazie alla presa di posizione del presidente Mitterrand. Che, in quella occasione per la prima volta, prese posizione su un singolo caso.

«Avete voluto richiamare la mia attenzione sulla situazione di Paolo Persichetti – scrisse Mitterand in una lettera in risposta all’Abbé Pierre, che lo aveva sollecitato a intervenire sul caso -. Osservo con voi che la durata della sua carcerazione raggiungerà presto un anno e mezzo, mentre non può essere assimilata a una detenzione provvisoria trattandosi di una procedura di estradizione in corso d’esame. Ho quindi chiesto che l’attenzione del ministro della Giustizia sia richiamata su questa situazione in modo che venga data una stretta applicazione delle regole sia nazionali che internazionali in materia».

Quando Ferdinando Imposimato sosteneva che dietro le Brigate rosse c’erano…. le Brigate rosse

Da Campagnadiprimavera.wordpress.com

ImposimatoFerdinando Imposimato, scomparso lo scorso 2 gennaio all’età di 82 anni, è stato un uomo dalle molte vite e anche dalle prese di posizione più diverse e contraddittorie. Prima di diventare magistrato era stato vicecommissario di polizia, una esperienza che portò con sé nella successiva carriera di giudice istruttore. In carcere alcuni esponenti della grande “Mala” raccontavano dei suoi metodi poco ortodossi quando gli interrogatori non facevano progressi. Fu protagonista tra la fine degli anni 70 e il decennio 80 delle maggiori vicende giudiziarie che occuparono la scena romana: dalle indagini sul sequestro e l’uccisione del leader democristiano Aldo Moro, all’istruzione del processo contro la colonna romana della Brigate rosse, che poi sfociò nel cosiddetto Moro Ter, all’inchiesta contro la banda della Magliana, all’attentato contro il pontefice Woitila e il sequestro di Emanuela Orlandi. Utilizzò senza scrupoli, come tutti i suoi colleghi, gli strumenti e le facilitazioni inquisitorie che gli erano stati forniti dalla legislazione speciale varata in quegli anni. Un diciannovenne romano arrestato nei primi anni 80 per banda armata dopo aver già trascorso alcuni mesi di isolamento venne convocato e si vide contestare la richiesta fatta ai propri familiari di una copia del libro di Lenin Stato e rivoluzione. «Non vuoi proprio cambiare idea, ti ostini ancora con certe idee!» – gli disse Imposimato infliggendogli altri mesi di isolamento. Allora i giudici istruttori prendevano posto alla destra di Dio, avevano un potere inquisitorio enorme che non conosceva bilanciamenti. Per evitare le scarcerazioni per scadenza dei termini di detenzione cautelare nell’inchiesta Moro ter non ebbe scrupoli ad incriminare in automatico decine di imputati, si arrivò così al maxi processo per «insurrezione contro i poteri dello Stato», istruito contro oltre 600 militanti delle Brigate rosse, che si concluse con un’assoluzione generale. Lo Stato si rese conto che alla fine una condanna sarebbe valsa come un riconoscimento della politicità assoluta di quei nemici che tentava di criminalizzare in ogni modo. Imposimato distolse lo sguardo anche davanti alla denuncia delle torture subite da Enrico Triaca, il tipografo delle Br arrestato una settimana dopo il ritrovamento del corpo dello statista democristiano in via Caetani e sottoposto al waterboarding da una squadra speciale del ministero dell’Interno comandata dal funzionario dell’Ucigos Nicola Ciocia. Fu senza dubbio un magistrato integerrimo dell’emergenza, poco amato però dai dietrologi dell’epoca, detestato da Sergio Flamigni perché nel corso delle sue indagini aveva identificato la base dove era stato rinchiuso il presidente del consiglio nazionale della Dc, l’appartamento al piano rialzato di via Montalcini 8, nella zona Portuense di Roma. C’era arrivato per gradi e per logica, come spesso aveva sostenuto difendendo a spada tratta quella scoperta che tanto faceva e fa ancora infuriare i complottisti. Forse fu sulla scia di quelle polemiche e ancora di più dopo lo choc causato dall’uccisione nell’ottobre del 1983 del fratello sindacalista, ritorsione di alcuni clan camorristici, che Imposimato cambiò gradualmente atteggiamento. Appartiene proprio a questa nuova stagione l’articolo che potete leggere qui sotto (fonte Acs, Migs busta 20): un testo apparso nel 1988 su una pubblicazione di una delle tante correnti della Dc nel quale l’allora giudice istruttore censura chi «rimasto comodamente nell’ombra e al riparo dai pericoli di una guerra spietata e sanguinaria […] con assoluta mancanza di obiettività, frutto di ignoranza dei fatti […] conclude che del sequestro Moro, dei suoi autori e mandanti, della sua dinamica, delle complicità e delle conseguenze politiche non si sa nulla, contribuendo a creare in questo modo nell’opinione pubblica un senso di sgomento, di frustrazione e di sospetti indiscriminato». Nel suo intervento Imposimato, in polemica con gli approcci complottisti, individua in ben altre ragioni i fattori che avrebbero facilitato il successo della lotta armata, come «il ritardo culturale dello Stato rispetto al fenomeno […] la profonda ignoranza di fatti e personaggi che da anni erano sulla scena del terrorismo», per concludere che l’ipotesi «un “grande vecchio” che abbia ordito e attuato la strategia della tensione e lo stesso sequestro dell’on. Aldo Moro significa proporre una verità di “comodo” che non tiene conto della complessità della situazione del terrorismo di questi anni».
Una posizione molto netta che spinse Imposimato, una volta entrato in politica nel decennio 90 ed eletto parlamentare Indipendente nelle fila del Pci, ad appoggiare anche l’ipotesi di un’amnistia per i reati politici degli anni 70. Nello stesso periodo ebbe anche degli incarichi all’Onu come consulente per la lotta al terrorismo e al narcotraffico. Qui conobbe Louis Joinet, il magistrato francese consulente dell’Eliseo che negli anni 80 fu l’archietto della dottrina Mitterrand e che Imposimato voleva accusare di favoreggiamento della lotta armata quando era giudice istruttore. Eletto presidente onorario della corte di cassazione dopo il 2000 divenne avvocato della famiglia Orlandi e di Maria Fida Moro, la figlia da sempre più irrequieta del leader democristiano ucciso dalle Br, con cui condivise fino al parossismo l’ultima stagione della sua vita che lo portò ad inseguire le paranoie complottiste più estreme, come la denuncia del ruolo che avrebbe giocato il gruppo Bilderberg nelle vicende italiane, da piazza Fontana, al sequestro Moro, alle stragi di mafia. Tesi sostenute in due volumi: Doveva Morire, scritto con Sandro Provvisionato (dietrologo di razza fin dai tempi in cui venne condannato, insieme a Vittorio Feltri, allora direttore dell’Europeo, per una bufala gigantesca sulla vicenda di via Montenevoso) e La Repubblica delle stragi impunite, pubblicazione che ebbe un grande successo di vendite ma lo vide vittima di un clamoroso raggiro, quello di un falso testimone del rapimento Moro, poi incriminato dalla magistratura, che lo convinse come si narra in un capitolo del libro di una mancata irruzione delle forze di polizia nella base brigatista dove era tenuto lo statista democristiano. Ormai senescente ed in guerra anche contro i vaccini Imposimato divenne una delle icone più amate del Movimento 5 stelle che lo candidò alla presidenza della Repubblica. Tuttavia neppure questa sua finale radicalizzazione ultradietrologica l’ha reso ben accetto nella comunità dei complottisti: la terza relazione cha ha chiuso i lavori della seconda commissione Moro lo indica, insieme al suo collega Rosario Priore, a Ugo Pecchioli del Pci, Francesco Cossiga, ministro dell’Interno durante il sequestro Moro e agli apparati di sicurezza, tra i massimi responsabili della «verità negata» sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. L’ultima generazione dei dietrologi sembra aver messo in soffitta il vecchio paradigma del «doppio Stato» e punta l’indice contro il primo Stato, quello un tempo ritenuto la parte sana delle istituzioni. Lapidario l’epitaffio pronunciato da Gero Grassi, membro della commissione Moro, all’annuncio della sua morte: «Per quanto riguarda il caso Moro sono convinto che anche Imposimato, come prima Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli si porti via qualche segreto. Che riposi in pace». Decisamente non c’è più gratitudine!

I dietrologi dell’Isis su Moro

Che cosa è la dietrologia, o meglio quel format mediatico intitolato “i misteri del caso Moro” cha da quasi 40 anni ci viene propinato? Una antistoria, anzi una distruzione della storia, ci spiega Francesco Piccioni in questo fulminante articolo: «per alimentare la misteriologia bisogna far strage di prove, equiparandole ai sospetti, alle domande, alle idiozie, mescolando il tutto in un calderone bollente e più volte centrifugato, al punto che nulla conta più nulla. Tranne la volontà del cuoco, che accende il fuoco quando vuole e indica agli attoniti spettatori questo o quel componente che viene portato in superficie dal suo mestolo e poi rapidamente scompare nella sbobba. Siamo al masterchef della Storia, in cui è sempre ammesso un nuovo pirla che porta un nuovo componente o – sempre più spesso, visto quanto tempo è passato – semplicemente un pezzo già usato e dimenticato. Ribollito»

Francesco Piccioni
Contropiano 10 marzo 2015

I dietrologi dell'Isis su Moro

Leggendo le cronache avventurose – sul piano mentale – della nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro di Aldo Moro, ad un certo punto mi è passata davanti l’immagine dell’Isis che distruggeva i resti della civiltà assira. Che c’entrano dei benestanti e benpensanti parlamentari con dei tagliagole che distruggono il passato per affermare il loro eterno presente (secondo loro) dettato da un dio?
La forma mentis, direi.
Il format mediatico intitolato “i misteri del caso Moro” ha quasi 40 anni, assicura a tutti gli interpreti qualche minuto di successo, un portafoglio gonfio, a volte persino una poltrona da parlamentare. Fin qui tutto bene, è la banalità dell’imbrancarsi in un gregge guidato da pastori con mano ferma.
Il problema è che per alimentare la misteriologia bisogna far strage di prove, equiparandole ai sospetti, alle domande, alle idiozie, mescolando il tutto in un calderone bollente e più volte centrifugato, al punto che nulla conta più nulla. Tranne la volontà del cuoco, che accende il fuoco quando vuole e indica agli attoniti spettatori questo o quel componente che viene portato in superficie dal suo mestolo e poi rapidamente scompare nella sbobba. Siamo al masterchef della Storia, in cui è sempre ammesso un nuovo pirla che porta un nuovo componente o – sempre più spesso, visto quanto tempo è passato – semplicemente un pezzo già usato e dimenticato. Ribollito. Che so, “la moto Honda”…
L’audizione dell’ex viceparroco di Santa Lucia, amico di Moro, ora nunzio apostolico in Gran Bretagna è stata un capolavoro di dimostrazione di quanto vado dicendo. Presentata – immancabilmente – come l’evento che avrebbe “permesso di fare chiarezza su uno dei punti più oscuri della vicenda”, si è aperta con il placido prete costretto a premettere che era l’ottava volta che veniva chiamato a deporre sulla stessa cosa. La seconda, davanti a una commissione parlamentare. Non proprio una “prima”… Nella vicenda storica il suo ruolo era stato decisamente minore: allora giovane prete, era stato destinatario di alcune lettere scritte da Moro, perché le girasse alla famiglia. Non serve essere degli esperti in sequestri di personaggi di spicco per sapere che in questi casi la famiglia è sottoposta a controlli stringenti, “blindata” da uomini armati che filtrano ogni spillo in entrata o in uscita dall’abitazione. Un giovane prete senza alcun potere, un collega di università (come il prof. Tritto) o altri personaggi simili diventano una buona “intermediazione” per mandare lettere. Non c’erano i social network, allora; e presumibilmente nessun brigatista li avrebbe usati visto che sono “tracciati” in ogni passaggio. Su di lui era stato sparso uno dei tanti “misteri” della dietrologia, addirittura per bocca di Francesco Cossiga. Che aveva ipotizzato – non saprei dire se a mo’ di battuta mal riuscita o soprassalti di rimorso per piste non seguite – che quel giovane prete fosse stato a sua volta sequestrato per un giorno, portato nella prigione di Moro e lì avesse impartito l’estrema unzione. Sette interrogatori o audizioni non erano bastate a convincere nessun dietrologo che lui, in via Montalcini, non c’era stato. Ed anche ieri, al termine dell’ottava audizione ha commentato tristemente “non penso di aver convinto nessuno”. Lo si può capire. Qualsiasi protagonista di quella vicenda – i brigatisti, Cossiga, l’archivista della stessa commissione stragi, storici, poliziotti e magistrati, ecc – abbia provato a mettere la parola fine su uno qualsiasi dei misteri è stato rapidamente derubricato a “opinione” fra le tante, probabilmente falsificata ad arte, comunque irrilevante. Finendo rapidamente tra i tanti componenti della sbobba che ogni tanto riprende a bollire.Leggiamo come ricorda don Mennini quei giorni:

Ci venne indicato un sacerdote dei pallottini con presunte doti di sensitivo: fu lui ad indicare su una mappa un punto dell’Aurelia. Ne parlai con il professor Tritto (assistente di Moro, ndr) e lui disse che era importante, che dovevamo dirlo al ministro e ottenne un appuntamento. Fummo ricevuti al Viminale dove ci tennero a bagnomaria per 3 o 4 ore, ogni tanto Cossiga entrava e chiedeva a Tritto se era possibile avere qualche indumento di Moro, qualche scritto, ipotizzando pure il coinvolgimento del sensitivo consultato nel caso dell’omicidio di Milena Sutter”. Era un clima “poco esaltante”, “ogni tanto veniva il capo di gabinetto che parlava di una fila di persone importanti che chiedevano biglietti omaggio per lo spettacolo pasquale dell’Opera. A me fu rimproverato di non aver informato la polizia del contatto telefonico con le Br, ma non volevo rischiare di bloccarlo, volevo solo essere utile a una persona alla quale volevo bene e fare nel mio piccolo tutto quello che potevo. E poi, quello che ho visto quel giorno al Viminale mi era bastato..  Tornato a casa, parlando con i miei dissi ‘se le cose funzionano così, Moro può salvarlo solo la Madonna o la Provvidenza’”.

Cioè nessuno. La dietrologia si regge sull’idea che la Storia sia governata da una Spectre onnipotente e onnisciente, che ordisce complotti e sa come intervenire ogni volta che si rischia siano scoperti. La Spectre è insomma un dio oscuro, contro cui il “vero fedele” può soltanto esercitare il rifiuto di tutto ciò che sfugge all’idea di “mondo regolato” che deriva dalla parola del “vero dio”. L’Isis della dietrologia è questa bestia qui, che distrugge tutto – passato, prove, credibilità, ecc – per affermare soltanto la sua esistenza e pretesa di dominio. Anche Moro subì, ancor vivo e prigioniero, lo stesso trattamento: le lettere che scriveva non erano “moralmente ascrivibili” a lui. Tanto da dichiararlo “pazzo” quando, obliquamente e moderatamente, scriveva parole non concilianti con qualche notabile del suo stesso partito iscritto al nuovo e infame “partito della fermezza”. Il partito della dietrologia è una filiazione diretta del “partito della fermezza”. E’ stato messo in piedi dagli stessi uomini, dagli stessi partiti. Vomita merda da quasi 40 anni e ha avvelenato i pozzi a cui si abbeverano i cervelli. Non c’è più – o quasi – un giornalista capace di distinguere una bufala clamorosa da un’ipotesi allettante; e in ogni caso una prova è per loro irriconoscibile. Non esiste, non può esistere un punto fermo, una verifica definitiva – da laboratorio – di quel che è falso e di quel che è vero. Non ci sono testimonianze, né carte, né riscontri che possano mettere in crisi il “mistero”. Non c’è perché non ci deve essere, finirebbe il gioco… Guardiamo ancora dall’audizione di ieri. Grande sorpresa – sia tra i parlamentari della commissione che tra i giornalisti mandati a seguire l’audizione – quando don Mennini ha ricordato che il papa, l’allora Paolo VI, aveva fatto preparare 10 miliardi di lire per un eventuale riscatto in denaro. Una “rivelazione”? Ma se il rifiuto del riscatto compare addirittura in uno dei nove volantini delle Br emessi durante il sequestro… Era ipotesi avanzata su tutti i giornali di quelle settimane, oggetto di “dibattito” tra esperti, politici, giornalisti, specie dopo la richiesta ufficiale di scambiare Moro con 13 prigionieri politici. Tutto cancellato, tutto dimenticato. Solo il “mistero” ha diritto ad esistere, picconando reperti, statue, storie, prove… Continuerà così in eterno, fin quando qualche bastardo vi troverà un guadagno.

Fonte: http://contropiano.org/interventi/item/29576-i-dietroogi-del-isis-su-moro

La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro è già stato interrogato 7 volte

I lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda Moro sembrano dei minestroni riscaldati e pure insipidi. L’audizione di monsignor Mennini è stata spacciata come una svolta voluta da papa Bergoglio che avrebbe autorizzato l’attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna a rivelare finalmente chissà quali segreti. In realtà don Mennini in passato, tra interrogatori davanti alla magistratura e audizioni di fronte alle precedenti commissioni d’inchiesta, è stato già ascoltato 7 volte. Al giornalista Antonio Padellaro smentì di essere mai entrato nella casa di via Montalcini dove era trattenuto Moro per confessarlo. Una congettura diffusa da Francesco Cossiga che non si dava pace del fatto che la sua polizia non era mai riuscita a beccare sul fatto i postini delle Br e i loro canali di comunicazione. Mennini, in realtà, fu messo sotto controllo a partire dal 22 aprile 1978, quando si scoprì che nei giorni precedenti aveva consegnato delle lettere di Moro alla famiglia. Pubblichiamo di seguito una ricostruzione molto autorevole realizzata dal sito cattolino Aleteia delle dichiarazioni di Mennini fatte davanti alle varie autorità: magistratura, commissioni parlamentari e stampa, nel corso dei decenni passati. Come si può leggere non è affatto vero che il nunzio si sia mai sottratto alle convocazioni e abbia utilizzando come scudo la sua immunità diplomatica. Una maldicenza messa in giro in perfetta malafede dalla solita vulgata dietrologica

 

Chiara Santomiero 7 marzo 2015
Fonte http://www.aleteia.org (http://www.aleteia.org/it/politica/articolo/la-verita-sul-caso-moro-5226074065600512)

Domani, lunedì 9 marzo, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro si terrà l’audizione di mons. Antonio Mennini. Non sarà la prima volta che parla del suo ruolo

Mennini aula bunker Rebibbia

Don Mennini nell’aula bunker del processo Moro

Riuscirà mons. Antonello Mennini, attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna, a sollevare alcuni dei veli che pesano sul caso Moro? E’ quanto viene auspicato dalla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che lo attende per un’audizione lunedì 9 marzo a Palazzo S. Macuto. “Ci aspettiamo – ha affermato il presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni – un contributo di conoscenza da parte dell’uomo che più di tutti fu spiritualmente vicino ad Aldo Moro. Tanti i punti che potrà affrontare: il suo ruolo in quei giorni, i suoi contatti, l’impegno enorme di Paolo VI ad avviare una trattativa per restituire Moro vivo al Paese e alla sua famiglia e perché questo tentativo non andò in porto” (AdnKronos 27 febbraio).
Mennini, figlio di un importante funzionario della banca vaticana dello Ior, formatosi dai gesuiti del collegio Massimo, era nel 1978 vice parroco a Santa Lucia e in rapporti di confidenza e amicizia con Moro che, dalla sua prigione, lo indicò come “postino” per recapitare alcune lettere.
La convinzione circolata con frequente convinzione nei 37 anni trascorsi dal 16 marzo 1978, il giorno in cui il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro fu ritrovato nella famosa Renault rossa in via Caetani a Roma, è che l’allora trentenne don Antonello si sia recato nella “prigione del popolo” in cui le Brigate Rosse detenevano lo statista per recargli il sacramento della Confessione prima che fosse ucciso.
Allo stesso modo si è affermata la convinzione che don Antonello sia stato sottratto in fretta e furia dal Vaticano al confronto con le autorità giudiziarie che investigavano sul caso Moro e infilato in un incarico diplomatico dopo l’altro affinchè non potesse rispondere alle domande sul suo coinvolgimento nella vicenda. Almeno su questo punto, però, è possibile riscontrare una evidenza diversa.
Don Mennini partì per la sua prima destinazione in Uganda, nel 1981, cioè ben tre anni dopo la tragica conclusione del caso Moro. E in, realtà, fu sentito tra procure, corti d’assise e commissioni parlamentari almeno 7 volte. Basta consultare, tra l’altro, l’indice degli atti della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (http://www.archivioflamigni.org/doc/indice-atti-commissione-moro.pdf) istituita nel 1979.
Il 2 giugno del 1978 Mennini fu sentito dalla Procura della Repubblica di Roma e il 12 gennaio 1979 il Tribunale di Roma lo esaminò in merito a “confessione di Moro”. Nel febbraio del 1979 il sostituto procuratore di Roma, Domenico Sica, volle nuovamente ascoltarlo dopo la pubblicazione nel gennaio di quell’anno di un articolo sul Corriere della Sera a firma del giornalista Antonio Padellaro sempre in merito alla presunta confessione avvenuta nella prigione della BR. Padellaro, ex alunno del Massimo come Mennini, aveva chiesto al vice parroco di Santa Lucia se davvero si fosse recato da Moro e questi aveva risposto: “Magari avessi potuto farlo! Purtroppo non mi è stata data la possibilità di offrire consolazione a una persona che mi onorava di affetto e amicizia”.
Il 22 ottobre del 1980 Mennini testimoniò davanti alla Commissione d’inchiesta su via Fani. Il 21 settembre 1982 fu convocato, ma non ascoltato, davanti alla Corte di Assise di Roma dove si svolgevano i procedimenti riunificati Moro uno e Moro bis con la presidenza del giudice Severino Santiapichi. Di lui, però, aveva parlato davanti alla stessa Corte nell’udienza del 19 luglio la vedova di Aldo Moro, la signora Eleonora Chiavarelli. Al presidente Santiapichi il 28 settembre Mennini inviò una lettera informando che stava ripartendo per il servizio diplomatico in Uganda ma restava a disposizione.
Il servizio diplomatico (consigliere di nunziatura in Uganda e Turchia, nel 2000 nunzio apostolico in Bulgaria, dal 2002 presso la Federazione Russa e successivamente anche in Uzbekistan, quindi dal 2010 nel Regno Unito) non impedì a Mennini di tornare davanti dalla Procura di Roma che indagava per il Moro ter nel settembre del 1986 e davanti alla Corte d’Assise per il Moro-quater, di nuovo con il presidente Santiapichi, nel 1993.
Forse è per questo motivo che Mennini richiesto di una nuova audizione dalla cosiddetta seconda Commissione Moro, la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, istituita nel 1988, inviò una lettera al presidente Giovanni Pellegrino per chiedere, “rispettosamente” come si legge, alla Commissione di fare riferimento alle precedenti deposizioni rese alle autorità sia parlamentari che giudiziarie che confermava e rispetto alle quali non aveva nulla da aggiungere. In ogni caso, non trincerandosi dietro lo status di cittadino del Vaticano e “il ruolo ivi ricoperto” come è stato spesso riportato.
“Un comportamento quest’ultimo – afferma la relazione della Commissione parlamentare – che la Commissione non può omettere di valutare almeno a livello indiziario, per affermare dotata di probabilità, sia pur non elevata a certezza, l’ipotesi che tra la famiglia Moro e le Brigate Rosse si fosse stabilito un cosiddetto ‘canale di ritorno'”. Cioè che le lettere dello statista fatte arrivare all’esterno possano avere avuto una risposta diretta e non solo attraverso i mass media. Una lettera indirizzata da Moro a Mennini, ma che il sacerdote non ricevette, e trovata tra le pagine dattiloscritte scoperte nel covo di via Monte Nevoso a Milano nel 1990, sembrava suggerire questa direzione.
Secondo Francesco Cossiga, nel 1978 ministro dell’Interno, Don Mennini entrò nel covo Br e lo confessò durante i 55 giorni. “Ho sempre creduto – affermò Cossiga- che don Antonello, allora suo confessore, abbia incontrato Moro prigioniero delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell’esecuzione dopo la condanna a morte. Come ministro dell’Interno allora mi sentii giocato. Mennini ci scappò. Seguendolo avremmo potuto trovare Moro. Ma ancora oggi il Vaticano è riuscito a fare in modo che Mennini non potesse essere interrogato mai da polizia e carabinieri. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini. Io credo che le Br gli abbiano permesso di recarsi nel covo per incontrare e confessare Moro. Almeno lo spero. Anche se Moro non ne aveva certo bisogno”.
In realtà il telefono di don Mennini, come risulta da un rapporto della Digos agli atti del processo Moro, era già sotto controllo il 22 aprile 1978, cioè il giorno dopo aver consegnato alcune lettere fattegli recapitare da Moro e precedute da due telefonate del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio Morucci: una il 20 aprile e una, di controllo, la mattina del 21 aprile.
In questi anni monsignor Mennini ha mantenuto il riserbo sulla vicenda che lo ha coinvolto: “Sono sempre stato molto discreto quanto al rapporto che avevo con l’onorevole Moro – ha confermato al giornalista Gian Guido Vecchi -. In tante vicende, vuoi in Italia che altrove, la curiosità della gente, non di rado alimentata dai media, è spesso spinta in una ricerca quasi ossessiva di segreti, misteri non chiariti, fatti taciuti, per cui non ci si contenta mai di stare alla realtà dei fatti verificati e storicamente provati. Va quasi da sé che la tragica scomparsa dell’onorevole Moro, cui possiamo associare tante altre persone vittime innocenti della barbarie del terrorismo, resta una ferita ancora aperta: soprattutto, credo, nel cuore dei suoi famigliari, di quanti gli erano più vicini e lo hanno sinceramente amato, come pure di coloro che si sono trovati a dover compiere delle scelte terribili” (Corriere della Sera 27 dicembre 2010).

Per ulteriori approfondimenti
Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia  /1a puntata
Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol /2a puntata
Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi /3a puntata