La lotta fantas(r)mata: alle radici della fraseologia dei Nuclei di azione territoriale

Il documento di fondazione del populismo armato

La fraseologia dei Nat ha come pantheon ideologico la letteratura giornalistica del populismo giustizialista, da Nanni Moretti a Beppe Grillo, da Marco Travaglio a Roberto Saviano. Ma agli imprenditori dell’emergenza del Viminale fa comodo diffondere un’altra versione che parla della presenza di analogie con la lotta armata degli anni 70, con le “vecchie Br”

Paolo Persichetti, 17 novembre 2009

Di cultura brigatista, nel documento che in calce porta la firma dei Nuclei di azione territoriale, inviato in questi giorni alle redazioni locali di alcuni giornali e tv, non c’è nulla. L’unico riferimento agli anni 70 è il richiamo alla memoria di Luca e Annamaria Mantini, militanti dei Nap trucidati dalla polizia a cavallo tra il 1974 e il 1975.
Eppure media e Viminale, per voce del ministro Roberto Maroni, hanno subito evocato «analogie con le vecchie Brigate rosse». La fretta con la quale gli apparati antiterrorismo accreditano la fondatezza di queste episodi è sospetta. Ricorda molto da vicino quanto Howard Becker spiegò in un libro divenuto un classico della sociologia, Outsiders. Gli apparati repressivi hanno tendenza a costruire e perennizzare il fenomeno considerato deviante che ne ha giustificato la creazione. A tale proposito Becker impiegava la nozione di «imprenditori», con riferimento agli «imprenditori morali», un complesso di enti specifici, associazioni, media e apparati, come fu per la creazione negli Usa di un ufficio centrale antinarcotici, che sul finire degli anni 20 costruirono, attraverso campagne specifiche di allarme sociale, il proibizionismo contro l’uso delle droghe leggere fino a quel momento considerato lecito. Becker osservò come la burocrazia repressiva messa in piedi smise presto di operare  come un apparato di contrasto al fenomeno ritenuto illecito, ma iniziò ad agire in modo creativo inglobando altri comportamenti nell’ambito della propria sfera di competenza.
Prendendo spunto da questo concetto si può parlare oggi della presenza sulla scena politico-sociale di un potente apparato di imprenditori dell’emergenza che hanno come specifico interesse quello di costruire in permanenza allarmi antiterrorismo, alimentando il fantasma della lotta armata e allargando a dismisura la griglia interpretativa dei fenomeni sociali da far rientrare all’interno di questa definizione.
Attenzione: non si tratta dell’ennesima versione delle teorie del complotto ma di una lettura stravolta dei fenomeni sociali.
Non sappiamo ancora se dietro la sigla Nat si celi qualcosa di veramente genuino, ovvero la presenza reale di nuclei territoriali in alcune città del nord Italia, come annunciato nel testo. Il precedente della sigla Nta (Nuclei territoriali antimperalisti), consiglia estrema prudenza.
Tuttavia, se la loro veridicità trovasse conferma saremmo di fronte a un fenomeno ancora più sconcertante. Va detto, infatti, che nella prosa utilizzata e nell’analisi proposta si scorge una lettura socio-politica della realtà italiana quanto mai sprovveduta, un impiego di termini banali, un linguaggio che rinvia più alle tematiche girotondine e giustizialiste presenti in blog come quello di Beppe Grillo o negli articoli di Roberto Saviano e Marco Travaglio, che alla conoscenza di Karl Marx.
Un guazzabuglio populista con fraseologia armata più che «lotta armata per il comunismo».

 

Uno stralcio del testo
«Lo scopo primo ed immediato di questo REGIME – è scritto in uno dei passi nel documento – è lo stravolgimento della costituzione nata dalla Resistenza e dalla lotta al fascismo e per una società più giusta. Destra e PD vogliono annacquare l’antifascismo e trasformare il 25 aprile e la resistenza da momento fondativi della Repubblica a festa nazionale di pacificazione in cui i partigiani ed i boia fascisti siano pari».

Nessun analista del Viminale, posto che ne abbia le capacità e non sia in malafede (i frequenti e clamorosi svarioni presenti nelle loro analisi, riportate dalla stampa, lasciano spesso supporre il contrario), potrà mai sostenere, testi alla mano, che nella letteratura delle Organizazzioni comuniste combattenti (Pl, Br, fino al 1989, e alle altre formazioni minori) fosse presente un apparato concettuale del genere, nel quale si propone una difesa dello spirito originario della costituzione fondato sui valori dell’antifascismo…

D’altronde leggendo un passo del genere sorge spontanea la domanda: ma se gli obiettivi annunciati sono talmente minimi, ben al di qua di qualsiasi proposito riformista o revisionista, limitandosi a difendere la costituzione e più genericamente gli spazi democratici e alcuni diritti sociali e civili calpestati, per quale ragione bisognerebbe operare nella clandestinità? Una strategia del genere ha poco senso, risulta assolutamente illogica, un vero regalo all’avversario. Si fa molta fatica ad accreditare, se non strumentalmente, valenza politica a simili discorsi.

La letteratura politica delle formazioni armate di sinistra (si consiglia ai più giovani la lettura dell’antologia, Le parole scritte. Progetto memoria, terzo volume, edizioni sensibili alle foglie) conteneva una critica durissima della politica e della forma Stato, che inglobava ovviamente un rigetto del patto costituzionale. Per non parlare dell’antifascismo, considerato dalle Br, come dalle fornazioni di cultura operaista in particolare, un diversivo, una contraddizione minore rispetto a quella principale, individuata nel conflitto capitale-lavoro per come si manifestava negli anni 70 e nella critica radicale alla società capitalista.

Siamo in presenza, dunque, di un fenomeno diverso. Per ora limitiamoci a dire questo in attesa di una conferma della reale consistenza di questa sigla e non di un’operazione di intossicazione politica. Il linguaggio abborracciato, l’insistenza sulla territorialità, il carattere localistico, potrebbero far pensare anche all’azione di spezzoni di osservanza leghista dei servizi ad uso e consumo del ministro degli Interni. Basta leggere le conclusioni dell’analisi di Renato Farina (l’agente “Betulla” che collaborava con l’officina del Sismi diretta da Pio Pompa), proposta sul Giornale del 18 novembre 2009: «Lavoro repressivo, condito con analisi sulle fucine di questi pensieri» per fare tabula rasa di tutte le realtà antagoniste, non allineate. Disturbano i cortei degli studenti contro la riforma Gelmini, le azioni operaie delle fabbriche in crisi. Disturba qualsiasi voce di dissenso.

Link
Allarme terrorismo: quel vizio del “Giornale” di imbastire false notizie
Nta, la sigla vuota utilizzata per lanciare intimidatori allarmi terrorismo
Progetto memoria, Le parole scritte
Annamaria Mantini
Roberto Maroni: Nat, analogie con vecchie Br

Il capo della Mobile: minacce non riscontrate. Lo scrittore: ho una condanna a morte

Il capo della Mobile: minacce non riscontrate. Lo scrittore: ho una condanna a morte.
L’intervista del poliziotto sul «Magazine» del Corriere: «Saviano non doveva avere la scorta»

Fulvio Bufi
Corriere della sera 14 ottobre 2009

NAPOLI – Il titolo che i lettori del Corriere troveranno giovedì 15 a pagina 78 del Maga­zine, a introdurre «L’intervi­sta » di Vittorio Zincone, è: «Sa­viano non doveva avere la scorta». Nell’occhiello c’è il no­me e cognome di chi sostiene questa tesi: Vittorio Pisani, ca­po della Squadra Mobile di Na­poli.

 Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramen­te di grande futuro. Un patri­monio della Polizia, se a nem­meno quarant’anni (oggi ne ha 42) gli fu affidato il coman­do di uno degli uffici investi­gativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e po­co avvezzo alla ribalta media­tica, ma nell’intervista a Maga­zine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabil­mente proprio su quella ribal­ta lo espone. Andare contro­corrente sul tema Saviano è impegnativo. Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: «A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce rice­vute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sul­l’assegnazione della scorta». E in tre anni non sembra aver cambiato idea: «Resto perples­so quando vedo scortare per­sone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistra­ti e giornalisti che combatto­no la camorra da anni». Nem­meno di Gomorra pare entu­siasta: «Ha avuto un peso me­diatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori». 

È la prima volta che un uo­mo dello Stato mette in di­scussione il fenomeno Savia­no, sia per quanto avrebbe in­ciso con il suo libro nella lotta alla camorra, sia per i rischi ai quali quel libro lo avrebbe esposto. Ma Pisani rischia di rimanere solo. Saviano, con­tattato dal Corriere per una re­plica, sceglie ufficialmente il silenzio, ma è chiaro che l’ha presa malissimo. E comun­que ci tiene a far sapere di ave­re avuto in questi anni confer­me di essere stato condanna­to a morte dai casalesi, anche da persone in passato vicine al clan capeggiato da France­sco «Sandokan» Schiavone e dai superlatitanti Mario Iovi­ne e Michele Zagaria.

 Non risponde direttamente a Pisani, ma prende chiara­mente le distanze, invece, il procuratore di Salerno Franco Roberti, fino a pochi mesi fa capo della Direzione distret­tuale antimafia di Napoli. «Non commento l’opinione personale del dottor Pisani – dice – ma vorrei ricordare che il comitato presieduto dal prefetto che assegnò la scorta a Saviano lo fece sulla base di una serie di informazioni an­che confidenziali e tutte con­vergenti. E quindi non ho dubbi che lo siamo di fronte a un soggetto da proteggere as­solutamente». 

Del resto la decisione di as­segnare o meno la scorta a qualcuno viene presa anche considerando un contesto am­bientale che può non avere ri­scontri certi dal punto di vista giudiziario. Per esempio non sono mai stati individuati gli autori delle scritte contro Sa­viano sui muri di Casal di Principe, né dei volantini tro­vati nella buca delle lettere dei genitori dello scrittore. Ma quegli episodi rappresen­tano una minaccia. Come fu una minaccia il proclama in aula durante il processo Spar­tacus contro Saviano, il giudi­ce Raffaele Cantone e la gior­nalista Rosaria Capacchione. Per quell’episodio, però, un ri­svolto giudiziario c’è e c’è un’inchiesta che vede imputa­ti Iovine e l’altro boss dei casa­lesi Francesco Bidognetti. Ar­chiviata, invece, l’indagine sulla preparazione di un atten­tato con autobomba per ucci­dere lo scrittore. Se ne parlò come della confidenza di un pentito, ma in realtà non era vero niente. Non solo l’orga­nizzazione dell’attentato ma nemmeno la confidenza del pentito.

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Il capo della Mobile di Napoli: controproducente la figura dell’eroe solitario

Vittorio Zincone
Corriere del Mezzogiorno 14 ottobre 2009


Vittorio Pisani, 42 anni, capo della Squadra Mobile di Napoli, mi accoglie nella sua stanza sommersa dai modellini di auto della polizia. (…) Nell’era di Roberto Saviano, scrittore anti­camorra, star dei teatri, sotto scorta, osannato dalle piazze e dai lettori, appena cito Gomorra, Pisani sbuffa: «Già… questo Gomorra». Lui non ce l’ha con Saviano, ma brechtianamente col savianismo. Ricordate la riga arcinota di Brecht nella Vita di Galileo? «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi».

Partiamo da qui. Pisani, che cosa c’è che non va con Gomorra?
«Il libro ha avuto un peso mediatico eccessi­vo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori».

Saviano ha permesso ai non addetti ai lavo­ri di conoscere una realtà criminale mostruo­sa.
«E questo è un merito. Ma nel libro ci sono inesattezze».

È un romanzo. E ora Saviano vive sotto scorta, in una caserma. È amatissimo, ma fa una vita infame.
«A noi della Mobile fu data la delega per ri­scontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli ac­certamenti demmo parere negativo sull’asse­gnazione della scorta».

Saviano è stato minacciato pubblicamente durante un’udienza del processo Spartacus.
«Io faccio anticamorra dal 1991. Ho arresta­to centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimo­niato… Beh, giro per la città con mia moglie e con i miei figli, senza scorta. Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magi­strati e giornalisti che combattono la camorra da anni. Non ho mai chiesto una scorta. Anche perché non sono mai stato minacciato. Anzi, quando vado a testimoniare gli imputati mi sa­lutano dalle celle».

Ripeto: Saviano le minacce le ha ricevute.
«Bisognerebbe avere il coraggio di andare a cercare la giusta causa della minaccia».

E quale sarebbe secondo lei?
«Non lo so. Ma nel rapportarsi con la crimi­nalità organizzata ci sono regole deontologi­che, come il rispetto della dignità umana, che vanno rispettate».

Potrebbe essere più chiaro? Un esempio?
«Quando ho bussato alla porta di un superla­titante per arrestarlo, lui mi ha chiesto di aspet­tare un minuto perché la moglie era svestita. Io gli ho proposto di far entrare due agenti don­ne. Lui ha acconsentito e ringraziato».

Ammetterà che l’arresto di un super lati­tante e la denuncia giornalistica di un crimi­ne, sono un po’ più importanti del bon ton con cui li si effettua.
«Certo. Ma ci sono modi e modi. E poi, a pro­posito della vita sotto scorta, dare un’immagi­ne eroica della lotta alla criminalità rischia di essere controproducente».

L’eroe anticamorra dà speranza. E aiuta a sensibilizzare i cittadini sui fenomeni crimi­nali.
«Ma rischia di allontanarli da una collabora­zione reale con lo Stato. Noi dobbiamo trasmet­tere sicurezza. Se un cittadino vede che chi combatte la criminalità per professione ha biso­gno di vivere blindato sotto scorta, pensa: “Io, che sono indifeso, non posso fare nulla”».

Ora è da cinque anni a capo della Squadra Mobile di Napoli. Dopo la guerra di Scam­pia…
«La città è più pacificata. Quasi tutti i capi clan sono detenuti e non c’è più la sensazione di impunità di un tempo. Si è passati da 250 a 70 omicidi l’anno».

Un numero mostruoso di morti.
«Se si pensa che a Napoli ci sono circa 70 clan, non sono nemmeno troppi».

In alcune zone lo Stato non ha nessun con­trollo. A Secondigliano gli spacciatori fanno quello che vogliono.
«Siamo poco incisivi anche perché il costo del delitto, e cioè la possibilità di finire in carce­re per molto tempo, è ridicolo rispetto alla faci­lità con cui si crea profitto».

Il primo crimine di cui si è occupato?
«Una rapina al centro tecnografico delle Po­ste. I ladri scapparono, ma recuperammo i 52 miliardi di refurtiva. Dopo quattro mesi sulle volanti, passai alla Squadra Mobile».

Lì, di che cosa si occupava?
«Ho cominciato con la sezione Omicidi. Per strada. Poi la sezione Catturandi, quella che dà la caccia ai latitanti, e la Sezione reati economi­ci. Nel ’97, a trent’anni, ero capo della Omicidi. Sono stato promosso per merito straordina­rio ».

Quale era questo merito?
«Ricostruimmo la cosiddetta “Alleanza” di Secondigliano. Arrestammo i latitanti Giusep­pe Lo Russo, Pietro Licciardi, Gaetano Bocchet­ti ed Egidio Annunziata. Subito dopo venni in­dagato ».

Lei? E perché?
«Omissione di atti di ufficio. Ero in contatto telefonico con il latitante Guglielmo Giuliano».

Super esponente di un clan camorrista.
«Era un confidente, leale. Ora è collaborato­re di giustizia. Il questore Arnaldo La Barbera mi disse: “Nel nostro mestiere l’accusa che ti fanno vale più di un encomio”».

Come ne uscì?
«Pulito. Ma lasciai Napoli. Andai al Servizio Centrale Operativo (Sco) di Roma. Mi diedero l’incarico di cercare il contrabbandiere puglie­se Francesco Prudentino. Lo arrestammo nel di­cembre del 2000, dopo sei mesi di caccia, in Grecia. Tre anni dopo feci il concorso per diven­tare primo dirigente. E arrivai primo». (…)

Qual è l’arma più importante in mano a un investigatore?
«Dipende dal delitto. Ma penso che i confi­denti siano l’arma in più».

Per l’eccessiva vicinanza di alcuni agenti ai confidenti dei clan, la Mobile di Napoli è sta­ta “chiacchierata”. (…)
«Falsi moralismi».

Lei gira con la pistola?
«Certo».

Ha mai sparato?
«Una volta. Per avvertimento».

Le hanno mai sparato?
«Sì. Senza colpirmi. Eravamo intervenuti su segnalazione di un confidente per sventare l’in­cendio di un negozio di bibite. Cominciarono a partire colpi nella nostra direzione. Non riu­scendo a individuare chi ci sparava, non rispon­demmo al fuoco».

Qual è l’arresto che le ha dato più soddisfa­zione?
«Quello degli assassini di Silvia Ruotolo e di altre persone uccise per errore. Beccare i colpe­voli di un delitto in cui la vittima è una persona per bene è il top».

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Saviano, la nuova figura dello scrittore embedded

CAMORRA: SENTENZA SPARTACUS, IN AULA ANCHE SAVIANOIl “civismo” di Saviano non appartiene alla categoria dell’impegno riassunto nella figura dell’écrivain engagé, ma a quella del volontario che si arruola nella legione militare della scrittura di guerra, che ne fa un author embedded, uno scrittore-soldato che agita l’etica armata, il moralismo in uniforme, l’epica della scorta militare come arma di devastazione di massa dell’intelligenza e della critica. «E’ roba nostra. E’ un patriota, un cazzuto, uno che sa tenere una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero», aveva scritto con veemenza Pierangelo Buttafuoco su Libero del 12 maggio 2010. Un’icona perfetta dell’immaginario superomista, della politica come potenza, un vero divulgatore di valori e codici di destra. Buttafuoco non aveva torto, il discorso di Saviano è intriso di postulati d’ordine, ispirato da paradigmi autoritari e purificatori che si coniugano inevitabilmente col verbo legalitario e securitario. Incuriosisce semmai che un autore del genere, legato per giunta alle proprie origini ebraiche, sia tanto irresistibilmente calamitato dal mondo della criminalità organizzata e dalla letteratura antisemita («Come scrittore – spiegò a Panorama il 22 dicembre 2009 – mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt. E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore»), quasi fosse soggiogato dal fascino oscuro e demoniaco del male, attratto da ciò che egli designa come il suo contrario ma rispetto alla quale lascia trasparire una seduzione inconfessabile.
All’inizio, però, l’avventura di Saviano era nata in un altro modo. L’ambizione che muoveva in origine il giovane autore di Gomorra era quella di seguire le orme dell’impegno, declinato tuttavia in una forma che ne preannunciava da subito l’esito: lo spirito di crociata e gli anatemi moralisti preferiti all’esercizio della critica. Elementi caratteristici di una funzione intellettuale che ricorda la categoria degli imprenditori morali, il prototipo dei creatori di norme descritto dal sociologo Howard S. Becker in Outsiders: «opera con un’etica assoluta: ciò che vede è veramente e totalmente malvagio senza nessuna riserva e qualsiasi mezzo per eliminarlo è giustificato. Il crociato è fervente e virtuoso, e spesso si considera più giusto e virtuoso degli altri».
Saviano escogita una tecnica particolare: mostra di mettere in gioco se stesso, presentando la propria figura pubblica come un discrimine tra bene e male. Da una parte la sua probità morale, il suo coraggio civile, la sua denuncia politica, quella che alcuni arriveranno a definire addirittura «parrhesia» (il coraggio di dire la verità, il parlare franco); dall’altra tutti i suoi nemici, di sempre e di turno. Un mondo diviso tra buoni e cattivi, con un linguaggio accusato di nutrirsi di narcisismo mediatico e manicheismo.
Saviano non esita a raccontarsi ad ogni occasione in questo modo, evocando a più riprese Pasolini, di cui annuncia di voler diventare l’erede, recitando in maniera stucchevole «l’io so» e sentendosi in questo modo il verbo incarnato di una nuova verità.
Per rafforzare la sua credibilità introduce un nuovo principio di autorità che impiega come una stampella per sorreggere la propria attività pubblicistica, facendo leva sulla postura cristica e l’interpretazione vittimistica del proprio ruolo che in questo modo può garantire sulla verità morale del suo discorso. C’è chi non esita a definirlo per questo un «martire a pagamento», non trovando alcun riscontro le continue “lagne” contro la censura e il timore di rappresaglie.
Insomma fin da subito Saviano lascia intravedere una cifra conformista, mettendo in mostra un fiuto da bottegaio furbastro, uno spirito codino, l’esatto contrario dell’intelligenza anticipatrice e della coscienza critica.

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