Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

Gli scherzi della geopolitica – Abdullah Öcalan, il leader del Pkk imprigionato da 14 anni nell’isola carcere di Imrali, spiazza tutti. In occasione della festa kurda del Newroz (Norouz in persiano: نوروز ;  Nevruz in turco), l’equinozio di primavera festeggiato secondo l’antica tradizione zoorastiana, il dirigente del Partito dei lavoratori del Kurdistan ha lanciato un importante appello che chiede di mettere fine alla lotta armata in favore di una nuova strategia che per la lotta verso l’autodeterminiazione del popolo kurdo rappresenta una rivoluzione nella rivoluzione: abbandonare la vecchia prospettiva nazionalista che puntava alla rivendicazione monoetnica del “uno Stato un popolo” per passare ad una visione multiculturale, multinazionale e multietnica ispirata al confederalismo democratico.
Una svolta che in futuro potrebbe fare da battistarda anche per la soluzione del conflitto in terra Palestinese depotenziando l’attuale mina confessionale.
La sortita di Öcalan ha avuto una lunga gestazione con mesi di incontri e trattative riservate con i suoi carcerieri, gli emissari del governo turco, e scambio di messaggi con i vari dirigenti della diaspora kurda, incidenti di percorso ed episodi ancora non chiariti come l’uccisione, lo scorso gennaio, di tre esponenti della comunità kurda in esilio a Parigi, tra cui Sakine Cansiz, 55 ans, fondatrice del Pkk.

Soprattutto la mossa di “Apo”, spiegano gli analisti di geopolitica, trae alimento dal potenziale rischio di destabilizazzione che le “primavere arabe” e la crisi siriana hanno provocato sulla Turchia, socchiudendo come mai era accaduto prima d’ora una formidabile finestra d’opportunità per le sorti del popolo kurdo che ha visto così approssimarsi l’occasione irripetibile di dare vita ad una propria “estate di libertà”.
Dopo aver strumentalizzato per anni la questione kurda in funzione antiturca, il regime di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente siriano), che per anni aveva dato ospitalità e sostegno logistico e finanziario al Pkk, sia per una logica di campo (la Siria era un alleato improprio dell’Urss mentre la Turchia appartiene alla Nato) che per questioni strategiche regionali, legate alla gestione delle riserve idriche dell’Eufrate e del Tigri, i cui corsi nascono in Turchia e confluiscono in Siria, i due Paesi giunsero ad un compromesso sancito nel 1998 con gli accordi di Adana. Quel patto segnò la fine dell’appoggio di Damasco al Pkk e l’espulsione di Öcalan dal Paese. Dopo una breve permanenza nella Federazione russa, l’arrivo improvvissato in Italia dove gli venne negato l’asilo politico, il presidente del Pkk fu rapito in Kenya e condotto nelle carceri turche.
Dopo l’esplosione della guerra civile siriana, nel corso dell’estate 2012 le truppe di  Bachar Al-Assad hanno evacuato il nord del Paese lasciando territorio libero alle milizie armate del Pkk. Situazione che ha fortemente allarmato la Turchia per il timore che ciò potesse dare luogo alla nascita, di fatto, di una zona autonoma d’influenza kurda nel nord della Siria, sponsorizzata sia dall’Iran che dalla fazione lealista di Damasco. Da qui le trattative accelerate con il prigioniero Öcalan che non si è lasciato sfuggire l’occasione, tuttavia inquadrandola non in un semplice soluzione tattica del momento ma all’interno di una innovativa proposta di ampio respiro strategico, come spiega il testo di Michele Vollaro, che proponiamo qui sotto (dal blog baruda.net)


Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

di Michele Vollaro

«La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini».

Una dichiarazione storica che potrebbe chiudere il trentennale conflitto che oppone il Partito dei lavoratori kurdi (PKK) e lo Stato turco. Un annuncio clamoroso destinato a mettere fine alla lotta armata che ha causato oltre 40.000 vittime. Così è stato definito da più parti il messaggio di Abdullah Ocalan, letto a Diyarbakir il 21 marzo durante la celebrazione del Newroz. Un messaggio che gli abitanti del Kurdistan, forzati da decenni alle politiche assimilazioniste delle autorità turche, hanno accolto con gioia e trepidazione, convinti ormai anch’essi da tempo della necessità di trovare una strada alternativa alla lotta armata per vedere riconosciuti i propri diritti e, ancor di più, condizioni di vita dignitose, in una società come quella kurda caratterizzata da marginalità, oppressione, povertà e disoccupazione. In poche parole dall’assenza assoluta di una qualsiasi prospettiva per riuscire anche solo ad immaginare di realizzare le proprie aspirazioni personali, siano esse la possibilità di scegliere un lavoro, di viaggiare liberamente o anche semplicemente di parlare la propria lingua madre. Chi ben conosce questa situazione e la storia recente del Kurdistan ha giustamente salutato il messaggio di Ocalan come un fondamentale punto fermo per un dialogo che può cambiare definitivamente le condizioni di vita nella regione.

L’inganno geopolitico
Qualcun altro, invece, ha visto in questo messaggio la definitiva abdicazione del popolo kurdo ai propri diritti e alla propria autodeterminazione, interpretando la scelta del fondatore del PKK come una capitolazione a più forti interessi internazionali. Un presunto accordo dettato da ipotetici interessi geopolitici per non danneggiare la ‘crociata’ imperialista a sud del confine turco, dove le potenze occidentali starebbero complottando il rovesciamento di un regime nemico, quello siriano, amato e sostenuto dalla propria popolazione. Il popolo kurdo avrebbe quindi venduto la propria anima al diavolo per ottenere chissà quale vantaggio ai danni di quello siriano. Non credo valga nemmeno la pena soffermarsi ad evidenziare l’assurdità di quest’interpretazione, che sembra uscita più da un tabellone da gioco di Risiko dove ognuno guarda alle proprie immaginifiche bandierine anziché essere fondata su condizioni di fatto.

Una rivoluzione di paradigma: dallo Stato-nazione al confederalismo democratico
Ben più interessante e produttivo sarebbe in realtà concentrare l’attenzione su un paio di osservazioni. Alcune, che potrebbero essere utili a comprendere meglio cosa accade o potrebbe accadere in Kurdistan e in generale all’interno della Turchia, da tempo immemore considerata la porta o il ponte tra Oriente ed Occidente e quindi già solo per questo degne di un necessario approfondimento, ma ancora più fondamentali per la “rivoluzione” (qualcuno probabilmente storcerà il naso a leggere questo termine) non solo sociale e politica, ma anche e soprattutto di categorie interpretative che il Medio Oriente vive ed ha vissuto negli ultimi anni. Altre, più vicine invece a precedenti diversi, anche della storia italiana, accomunabili alla vicenda di Ocalan per certe somiglianze che potrebbero consentire di guardare ad eventi, usi e giudizi già espressi nel passato recente.
Cominciamo dal locale e particolare, che interessa come accennato lo stravolgimento di categorie tradizionali. Il discorso di Ocalan può essere riassunto nella frase “Siamo ora giunti al punto in cui le armi devono tacere e lasciare che parlino le idee e la politica”. Al di là delle notizie di cronaca sull’inizio o meno di un cessate-il-fuoco da parte delle fazioni armate e dell’avvio di un processo di pace tra PKK e Stato turco, è stato notato in modo più che corretto che questo indica un mutamento di strategia. Anche se non è proprio una novità: sono anni che l’agenda politica kurda è incentrata sul principio della “autodeterminazione democratica”, un concetto promosso allo stesso tempo da Adbullah Ocalan e dal Partito della pace e della democrazia (BDP) dove l’affermazione dell’identità del popolo kurdo e la democratizzazione dell’intera Turchia diventano le due facce della stessa medaglia. Ma questo è giusto un dettaglio o anche solo una puntualizzazione da addetti ai lavori. Si potrebbe osservare infatti che nonostante le numerose tregue dichiarate in passato dal PKK, per un motivo o per un altro, le armi non sono state ancora abbandonate dai guerriglieri e questa è stata infatti la risposta del ministro turco dell’Interno, Muammer Güler, che pur concedendo ad Ocalan di aver usato un linguaggio di pace ha aggiunto che “ci vorrà tempo per vedere se le parole saranno seguite dai fatti”.
Lo stesso Ocalan ha detto che “Oggi comincia una nuova era. Il periodo della lotta armata sta finendo, e si apre la porta alla politica democratica. Stiamo iniziando un processo incentrato sugli aspetti politici, sociali ed economici; cresce la comprensione basata sui diritti democratici, la libertà e l’uguaglianza”. In questo, si evidenzia come il discorso era sì rivolto ai guerriglieri kurdi affinché depongano le armi, ma al tempo stesso è anche una sfida al governo turco.
“Negli ultimi duecento anni le conquiste militari, gli interventi imperialisti occidentali, così come la repressione e le politiche di rifiuto hanno provato a sottomettere le comunità arabe, turche, persiane e curde al potere degli stati nazionali, ai loro confini immaginari e ai loro problemi artificiali – prosegue ancora Ocalan – L’era dei regimi di sfruttamento, repressione e negazione è finita. I popoli del Medio Oriente e quelli dell’Asia centrale si stanno risvegliando”. Più avanti aggiunge “Il paradigma modernista che ci ha ignorato, escluso e negato è stato raso al suolo” e “Questa non è la fine, ma un nuovo inizio. Non si tratta di abbandonare la lotta, ma di cominciarne una nuova e diversa. La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini”.

Basta con i nazionalismi
L’oggetto della polemica è l’ideologia politica che è all’origine di molta parte dei problemi dell’ultimo secolo, quel nazionalismo che insieme alla sua creatura principe, lo Stato-nazione, sono ormai da oltre un decennio indicati come profondamente in crisi, ma sembrano restare pur sempre la risposta più immediata e semplice come misure di reazione agli stravolgimenti in corso. Restando in Medio Oriente basti pensare alle spinte centrifughe in Libia o in Iraq dopo la fine dei precedenti regimi, dove ognuno degli interessi dominanti localmente punta alla creazione di una propria entità statuale sostenendo la necessità di un territorio pacificato sulla base della propria univocità sia essa “etnica” o di qualsivoglia altro titolo; un altro esempio emblematico è anche la sciagurata scelta dell’opzione di “due popoli, due Stati” per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Il dibattito sul tema del nazionalismo non è di certo un argomento nuovo intorno alla questione kurda. Senza andare troppo indietro, già a partire almeno dal 2005 Ocalan si era interrogato sui legami tra etnicità e nazionalismo indicando proprio nella creazione degli Stati-nazione in Medio Oriente l’origine della crisi attuale della regione (Abdullah Ocalan, Democratic Confederalism, 2011). Servirebbe lo spazio di almeno un libro per ripercorrere l’archeologia del dispositivo statuale moderno, ma ciò porterebbe il discorso troppo lontano. Nondimeno sarebbe senz’altro sano ed essenziale ragionare sulla necessità di individuare nuovi percorsi che leggano la realtà del mondo contemporaneo per mezzo di una lente o un’idea cosmopolita.
Riguardo alla situazione kurda, va dato atto ad Ocalan di essere stato abile in questi ultimi anni ad argomentare e proporre le proprie idee per un nuovo modello di società, che includesse nuove istituzioni per funzionare e un nuovo vocabolario per definire concetti ed idee necessari a descrivere ed immaginare quello che si propone di essere appunto non soltanto un classico processo di pace, ma piuttosto un cantiere per una nuova costruzione sociale.

La “pazzia” di Öcalan
Un’ultima osservazione che mi preme sottolineare è quella sul contesto in cui sono maturate le ultime dichiarazioni del leader kurdo. Ocalan si trova dal 1999 nel complesso carcerario di Imrali, in una struttura di massima sicurezza svuotata di tutti gli altri detenuti per poter “ospitare” unicamente il fondatore del PKK, che quindi può vedere soltanto i suoi avvocati e i suoi carcerieri. Questa situazione ha portato più volte qualcuno a sostenere che Ocalan avrebbe perso il contatto con il movimento da lui guidato e sarebbe anzi manipolato per sostenere gli interessi dello Stato turco e i presunti suoi alleati nella partita geopolitica.
Riprendo qui l’introduzione di un libro dello storico Massimo Mastrogregori. “Ci sono autorità, più o meno visibili, che sollecitano e ascoltano la voce del prigioniero. Il quale cerca, ancora una volta, di vincere la partita politica in corso e di agire più liberamente che può, anche nel fondo della prigione, in nome di ciò in cui ha sempre creduto. E sa che cercando di vincere, ancora una volta, avrà fatto qualcosa di utile anche se perde”. Queste parole, che sembrano calzare alla perfezione per il caso di Ocalan, sono invece scritte per raccontare la storia parallela di altri due prigionieri, apparentemente diverse ed opposte per le loro esperienze personali e separate da cinquant’anni di distanza, quella di Antonio Gramsci e di Aldo Moro (Massimo Mastrogregori, I due prigionieri, 2008). Lo storico italiano osserva come analogie e comparazioni tra due storie così diverse possano aiutare a vedere cose nuove, rivelando connessioni nascoste e parallelismi a partire dall’esperienza carceraria e dall’uso fatto o meno e dai giudizi espressi sulla voce che esce dalla prigione. Mi soffermerò solo brevemente su questo aspetto. In occasione del sequestro Moro, in una maniera che effettivamente lascia un po’pensare, l’intera comunità mediatica italiana, quasi tutti coloro che parlando pubblicamente trovano uno spazio, la cui parola è riprodotta sui giornali, i politici e i grandi giornalisti, si accordano sul fatto che la voce che sta parlando non appartiene a Moro. Sempre Mastrogregori sottolinea la rapidità con cui si sia “compattato” questo schieramento che sostiene l’inautenticità degli scritti di Moro durante la sua prigionia. “Moro perde il dominio sulla sua firma, ciò che Moro firma non vale; sono scritti originali, autentici, non che ci sia il dubbio che la grafia non sia la sua (all’inizio c’è anche quello); ma anche quando si scopre che la grafia è effettivamente la sua, le condizioni in cui quel testo viene elaborato portano alla conclusione univoca che non è Moro che sta parlando. Si presuppone che le BR dettino e che Moro scriva, con una serie di gradi diversi, con distinguo, eccetera. Le eccezioni a questa posizione sono veramente pochissime. Ciò aveva una conseguenza che, nel tempo, verrà tratta, che Moro aveva perso la capacità di intendere e di volere, era regredito alla condizione di bambino e cose del genere, che era drogato”.
Il tema del discorso che proviene dal fondo della prigione, della voce di chi è incarcerato è interessante perché si oppone nel modo più assoluto ai discorsi che solitamente ottengono la più grande circolazione e visibilità, cioè quelli che provengono da una posizione autorevole e sopraelevata, come potrebbe essere un professore dalla sua cattedra o un giornalista da un quotidiano. Il prigioniero è il caso limite opposto, quello che dice non ha l’autorità che viene da qualche piedistallo. Ma se decide di scrivere, lo fa per riguadagnare, in qualche modo, con vari sistemi, quel margine di libertà che chi lo domina gli ha sottratto. Perché un prigioniero scrive? Anche per riguadagnare uno spazio di libertà.

Per saperne di più
Il discorso di Öcalan per il Newroz
Dalla Mesopotamia social forum finito ieri a Giyarbakir