I signori della borsa: quei terremoti nei mercati finanziari creati ad arte dagli speculatori

Non esiste una finanza buona e una cattiva. Anche i fondi sovrani e i fondi pensione ricorrono alla speculazione per avere profitti immediati

Paolo Persichetti
Liberazione 22 luglio 2011

Di fronte all’ennesima tempesta che si è abbattuta sui mercati finanziari sono state riproposte grosso modo due chiavi di lettura. La prima, sostanzialmente assolutoria nei confronti dei circuiti borsistici, si ispira alla teoria liberista che postula la piena efficienza dei mercati finanziari. La ricerca sfrenata di ricchezza privata che muove le speculazioni borsistiche – sostengono i paladini di questa posizione – non entrerebbe in contrasto con l’interesse generale delle economie dei vari Paesi, perché il principio di concorrenza sarebbe in grado di generare delle mediazioni finanziarie efficaci. Insomma il giudizio dei mercati non si discute poiché sarebbe il solo in grado di produrre soluzioni razionali e performanti capaci di offrire quella liquidità monetaria indispensabile agli Stati per finanziare il debito pubblico interno. Più che una filosofia siamo di fronte ad una teologia che introduce nei fatti un nuovo fondamento della sovranità. Le implicazioni collegate a questo assunto sono gravide di conseguenze importanti. Esse fuoriescono dalla semplice sfera economica per investire dimensioni politico-filosofiche che modificano il funzionamento, oltre che il significato, dei modelli politici pluralisti che per comodità passano sotto il nome di democrazie. In Italia il Pd ha sposato integralmente questa lettura dei fatti cercando nella sanzione espressa dai gruppi speculativi che hanno attaccato i bond governativi una legittimità alla propria candidatura alla guida del Paese. Perplessità sull’operato dei mercati borsistici sono venute, invece, da settori della destra di governo fornendo l’ennesima prova di quel paradossale capovolgimento di senso dei punti cardinali della politica.

L’altra chiave di lettura ricorre, al contrario, alla tesi dell’anomalia dei comportamenti tenuti in Borsa, al mancato rispetto delle regole finanziarie. E’ grosso modo la strada perseguita dalle associazioni che hanno denunciato azioni di manipolazione del mercato, depositando degli esposti presso la magistratura nei quali additano il ruolo ambiguo delle agenzie di rating, ritenute le capofila della filiera speculativa. In questo caso il profitto speculativo, oltre ad essere ritenuto un vettore che provoca danni per la comunità, bruciando risorse, impedendo investimenti keynesianamente virtuosi nel ciclo produttivo, è percepito come immorale. Posizione ideologica che trae legittimità dalla vecchia etica calvinista del capitale e rispecchia gli interessi dei ceti medi, dei piccoli azionisti e risparmiatori vittime delle bufere che traversano i mercati finanziari. Un atteggiamento ammantato d’ipocrisia morale poiché trova al contrario accettabile l’estrazione di plusvalore, la spremitura della forza lavoro umana.

Esiste tuttavia una terza interpretazione che non considera le ricorrenti crisi dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni l’effetto di errori, incidenti o comportamenti irrazionali ma il risultato del pieno rispetto del libero gioco borsistico. E’ la tesi sostenuta in particolare da André Orléan, studioso francese di scuola regolazionista, che in un volume apparso nel 2010 (Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria, Ombre corte) ritiene le crisi conseguenza «non del fatto che le regole del gioco finanziario siano state aggirate ma del fatto che sono state seguite». A differenza di quel che accade nell’economia reale, sui mercati finanziari domanda e offerta agiscono in modo diverso, nota l’autore. L’aumento della domanda di un bene non ne fa aumentare solo il prezzo ma anche la richiesta, a causa dei rendimenti accresciuti che lo rendono ancora più attraente. Le crisi, in sostanza, sarebbero il fondamento stesso del funzionamento del sistema borsistico che agisce in modo autoreferenziale, investendo su prodotti finanziari “derivati” alla ricerca di rendimenti decorrelati, cioè sempre più scollegati dall’economia reale. Orléan ne indaga in modo accurato la dimensione ideologica ed emotiva, la rincorsa mimetica dei diversi operatori che suscitano momenti di euforia (da cui fuoriescono la cosiddette “bolle”) e le fasi di panico che caratterizzano la sua strutturale volatilità. La finanziarizzazione dell’economia capitalistica agisce come un continuo processo d’inclusione-esclusione che per certi versi sembra una riedizione continua dell’accumulazione primitiva con i suoi caratteri brutali.

Esistono delle soluzioni? A parte l’oltrepassamento del capitalismo, utili ma non risolutivi sarebbero certamente degli interventi in favore della tassazione delle operazioni borsistiche, la messa al bando di alcuni prodotti finanziari e tecniche speculative. Gran parte del problema tuttavia riguarda il nodo del debito pubblico e del suo finanziamento, attorno al quale ruota – come abbiamo visto – il problema della sovranità. La globalizzazione finanziaria ha tolto agli Stati la capacità di controllo sull’andamento dei titoli un tempo confinati in prevalenza nel mercato nazionale. Le proposte fioccano: separare i circuiti bancari da quelli finanziari, ristabilire in controllo politico sulle banche centrali, favorire un fondo comune europeo per il finanziamento del debito pubblico, liberarsi dalla dittatura delle agenzie di rating, tornare all’economia reale.

2/fine

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Il ruolo delle corti costituzionali tra costituzioni rigide e costituzioni aperte

Scheda – Il ruolo delle corti costituzionali tra costituzioni rigide e costituzioni aperte

«Kant introduce il concetto di repubblica, invitando a non confonderla con la democrazia» da lui intesa come «la democrazia diretta teorizzata da Rousseau». Qui è in gioco un nodo teorico fondamentale di cui oggi si è persa la pregnanza. Nel corso della storia successiva, infatti, si è operato un lento slittamento semantico e concettuale che ha attribuito alla democrazia i requisiti della repubblica kantiana. Il contrasto tra Rousseau e Kant ruota attorno al fondamento della sovranità e alla nozione di rappresentanza. Per Rousseau la sovranità si fonda sulla volontà generale mentre per Kant il suo fondamento deriva dal possesso della competenza. Per il primo, tutto ciò che allontana l’esercizio della volontà generale (ometto, per semplicità, di ricordare che, secondo Rousseau, la volontà generale non coincide con la volontà di tutti), attraverso il meccanismo della delega, della rappresentanza, introduce un elemento d’alienazione politica, una espropriazione della volontà operata attraverso la costruzione di una separatezza decisiva tra governanti e governati. Lo scrutinio in una tale logica non è più il momento in cui si manifesta la volontà, ma il luogo in cui si realizza il furto della volontà. Non ho a memoria la definizione che Schumpeter offre della democrazia, ma più o meno ricalca il concetto roussoinano della designazione di coloro che più tardi sceglieranno per noi. Secondo Kant, una tale democrazia è inevitabilmente dispotica poiché introduce il rischio della dittatura delle maggioranze. La critica kantiana, però, non va nel senso di una correzione della concezione roussoiana, ma introduce un paradosso che fa della separatezza, della selezione di pochi, gli ottimi, i saggi, coloro capaci d’interpretare l’apriori del diritto naturale e dunque di esercitare secondo misura il governo, il requisito della repubblica. Il modello kantiano avvia il paradigma che ispirerà i regimi liberali, ovvero una rappresentanza di governo affidata a pochi, coloro che sono degni sulla base del censo e della proprietà. I “livellatori” inglesi avevano già teorizzato (contro gli “zappatori”) il nesso libertà-capacità autonoma di sostentamento. L’autonomia, e dunque la capacità di decidere politicamente fuori da possibili ricatti, è data – dicevano – dalla possibilità di provvedere autonomamente alla propria riproduzione sociale. Solo la piccola e la grande proprietà potevano dunque essere parte della polis. E la guerra con gli Ironsides di Cromwell avviene proprio sulla porzione di proprietà che doveva dare accesso alla rappresentanza politica. Chi dipendeva, per servitù o contratto, da un datore di lavoro, un padrone, non essendo emancipato socialmente dalla condizione di schiavitù economica restava indegno della cittadinanza politica perché ricattabile. La repubblica kantiana ricicla elementi della tradizione oligarchica antica. La capacità di distinzione è il suo filo conduttore: dare il governo ai migliori, ai competenti, a coloro che posseggono sapere e proprietà, inscindibile nelle epoche passate. Solo quando il movimento operaio acquisterà forza vi sarà una progressiva correzione con l’introduzione del suffragio universale, fermo restando che l’esercizio della delega resta monopolio dell’élite. Ricordo che gli attuali regimi di governo rappresentativo (che comunemente vengono definiti democrazia) sono il risultato di un compromesso tra tradizione roussoiana, riveduta e corretta, e modello kantiano. La sovranità popolare, mediata dalle rappresentanze parlamentari, è corretta dall’istituto delle corti costituzionali che fondano la loro sovranità non sulla volontà ma sulla competenza. Il dibattito che attraversa la nascita della nazione americana e del suo sistema istituzionale, riportato in quell’eccellente documento che è il Federalist, è interamente traversato dal configgere tra le due anime sociali, la radicalità dell’individualismo proprietario della piccola proprietà coloniale che vede nella tradizione roussoiana un’ispirazione e gli interessi della grande proprietà che guardano a Kant. Per dimostrare, però, quanto la questione sia complessa occorre ricordare che questo schema ottocentesco verrà capovolto a metà del Novecento, quando proprio il ruolo della corte costituzionale americana, ovvero l’istituto figlio della tradizione politica più moderata e aristocratica diventa il grimaldello utilizzato dal movimento dei diritti civili per imporre alla social majority wasp i diritti delle minoranze etniche, sessuali eccetera. Insomma l’esercizio dei saggi, i magistrati dell’alta corte capaci di interpretare la costituzione (rigida) facendovi rientrare i principi del diritto naturale, consente di sancire conquiste progressiste a discapito della volontà discriminatrice della maggioranza. Kant si vendica contro Rousseau ma anche contro coloro che lo avevano interpretato come un avamposto del privilegio. Ovviamente quanto più la costituzione è rigida, tanto più centrale è il ruolo politico della Corte costituzionale chiamata per il mezzo dell’interpretazione ad aggiornarne il senso. Con modelli di costituzione (di tipo giacobino) aperti all’aggiornamento-adeguamento con la costituzione materiale, il ruolo della Corte dovrebbe essere meno centrale e soprattutto meno politico.
Tutti i modelli d’autority, o di expertises politiques (l’attribuzione a esperti di rapporti e studi che contribuiscano a produrre la scelta politica finale) frequenti nella tradizione anglosassone, e ripresi anche da noi, appartengono alla visione kantiana della res pubblica, ovvero all’idea di una competenza legittimata a governare, vigilare e garantire, meglio degli istituti che traggono sovranità dalla volontà, come il parlamento.

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