Le banche centrali sono diventate le discariche della finanza tossica

Discariche di rifiuti tossici per il Credito

by Robert Kurz

Testo ripreso da http://francosenia.blogspot.com/2011/08/rifiuti-tossici.html

Chiunque abbia conservato un po’ di capacità di memoria potrebbe essersi chiesto dove sia andata a finire l’enorme massa di crediti irrecuperabili. Questi debiti non sono mai stati pagati e, al contrario, ogni forma immaginabile di debito ha continuato a crescere. Il gioco di far finta di pagare i vecchi prestiti per mezzo di quelli nuovi, e quelli nuovi per mezzo di quelli ancora più recenti, è finito da tempo, nel settore privato. E, a causa della loro enorme grandezza, i famosi “toxic assets” non potevano essere ammortizzati interamente (salvo alcune operazioni cosmetiche fatte dalle banche). Secondo le parole dei guru finanziari, questo avrebbe causato la “fusione del nucleo” del sistema finanziario globale. Ai fini contabili delle banche è stato permesso loro di gettare a mare i rifiuti tossici. Ma nulla è stato detto a proposito della “banche cattive”, che dovevano fare affidamento sulle garanzie statali per compensare temporaneamente il crollo del “sistema bancario ombra” dopo lo scoppio della bolla immobiliare. La speranza ufficiale e l’aspettativa erano che le garanzie statali potessero rapidamente ripristinare la “fiducia” in modo che i titoli, a lungo senza valore, riuscissero ancora una volta a spuntare un prezzo decente. La condizione era che il settore immobiliare statunitense, dove era cominciata la crisi, si riprendesse con forza. Nulla da dire su questo. Ma le garanzie dello Stato non erano pagabili. Non potevano essere pagati, per il semplice motivo che questo avrebbe causato la “fusione del nucleo” nel bilancio statale. Perciò, dove sono andati a finire i rifiuti tossici del sistema finanziario? Sono finiti nella discarica finale: le banche centrali. Come tutti sanno, queste banche stanno attualmente inondando il mondo di dollari, euro, ecc., al fine di dare ossigeno ad un’economia mondiale clinicamente morta. Non sono ancora al punto di stare buttando il denaro con gli elicotteri, ma stanno praticando l’estensione del credito, alle banche commerciali, a tassi di interesse bassissimo, o addirittura senza alcun interesse. Proprio come per ogni prestito, le banche devono fornire “garanzie”. E dove sono queste garanzie? In queste pile di carta tossica, che le banche centrali accettano con gioia, come se fossero gioielli della corona. Nemmeno tre anni sono passati dal crollo dei mercati finanziari, ed ora le finanze pubbliche di un numero crescente di paesi saltano in aria, dopo essere state sovraccaricate di politiche anti-crisi. Fondamentalmente, quello che è successo ai bond privati sta ora succedendo ai titoli pubblici di stato. Un parte crescente, e difficile da controllare, del debito è stata trasferita su bilanci ombra. Come accaduto in precedenza con i mutui per la casa, le partecipazioni al debito sovrano si sono trasformate in rifiuti tossici. E le banche centrali con entusiasmo acquistano anche questi. Allora, le banche asiatiche stanno comprando meno buoni del tesoro degli Stati Uniti? Non importa, dal momento che la stessa Federal Reserve americana se li accaparra, come grano in tempo di carestia. Inoltre, la crisi del debito sovrano europeo avrebbe continuato ad aggravarsi, nonostante tutti i pacchetti di salvataggio, se la Banca centrale europea non avesse cominciato a comprare mucchi di titoli senza valore provenienti dai paesi in crisi. Ironicamente, le banche centrali, guardiane della presunta stabilità finanziaria, sono diventate discariche di rifiuti tossici per il sistema finanziario globale. Sono esse la sede definitiva di questi beni, la loro ultima dimora, perché non esiste nessun ente, che si cela dietro le banche centrali, in grado di liberarle da questo peso. La facciata della normalità eretta dopo il 2008 si basa su un avventurismo politico che ha creato soldi da “garanzie” basate su un debito che non può essere pagato.

Fonte: http://linternationale.blogspot.com/2011/08/real-debt-crisis.html

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Intervista a Luciano Gallino, sociologo, autore di Finanzcapitalismo, Einaudi 2011

Paolo Persichetti
Liberazione 14 agosto 2011


Colpire al cuore lo Statuto dei lavoratori. Questo progetto ultradecennale perseguito con una ferocia ideologica senza pari è forse giunto al suo traguardo. I ripetuti tentativi, sempre falliti o respinti in passato, hanno trovato nel grande golpe della finanza in corso il mezzo per assestare la mossa finale. La misura, richiesta nella lettera della Bce scritta da Mario Draghi, come lo stesso Giulio Tremonti ha lasciato intendere, è stata introdotta nella manovra aggiuntiva del governo in una maniera del tutto subdola e artificiosa. Abbiamo chiesto al sociologo Luciano Gallino, che in un suo lungimirante saggio uscito lo scorso marzo per Einaudi, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, ha descritto l’attuale crisi finanziaria, un giudizio sulle scelte del governo.

Quando parliamo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (divieto di licenziare senza giusta causa) ci riferiamo ad una norma di legge che sancisce un diritto soggettivo del cittadino lavoratore. Possono le parti sociali espropriare questo diritto della persona derogando la legge con un accordo aziendale? Non si tratta di una elementare violazione della gerarchia delle fonti del diritto? Prim’ancora che incostituzionale sembra l’ennesima alchimia antigiuridica. Una furberia architettata da un malandrino.
Non sono un giurista e lascio a loro una valutazione tecnica sulla questione. Ma come ho detto in una precedente intervista, rimuovere la persona come titolare dei diritti, mettendo invece al centro la prestazione o il contratto, è un aberrazione giuridica, il segno di una forte regressione in direzione di una smodata rimercificazione del lavoro. Sono le persone che hanno titolo, per usare un termine di Amartya Sen, per ottenere reddito o veder difesa la loro dignità.

Cosa accadrà con lo smantellamento dei contratti nazionali e la possibilità di derogare le norme di legge che tutelano i diritti dei lavoratori?
Intanto bisogna vedere come va a finire, manca ancora il voto finale del parlamento. In ogni caso l’idea che il centro della contrattazione debba essere l’azienda significa veramente non rendersi conto di come è organizzata oggi la produzione nel mondo. Si sarebbe dovuto parlare di contrattazione di filiera, di contrattazione estesa alle cosiddette catene di produzione del valore, perché ciò che fa ogni singola azienda dipende da ciò che fanno le aziende a monte e quelle a valle. Praticamente nessuno produce più nulla per intero. Tutto il prodotto, anche il più piccolo elettrodomestico, qualunque tipo di servizio per non parlare dei manufatti più grandi, è composto da centinaia di produttori situati in decine di Paesi diversi. L’idea che si possa contrattare la produttività in una sola azienda significa non aver capito nulla di come da decenni la produzione è organizzata nel pianeta. E poi mi preoccupano due cose.

Quali?
La scelta del governo è regressiva dal punto di vista sociale, civile e giuridico. I governi di destra ci hanno abituato a interventi del genere ma qui si è andati molto oltre. ma c’è ancora di più, questi interventi sono recessivi anche dal punto di vista economico, sono un limite allo sviluppo, alla cosiddetta ripresa. Queste misure non fanno altro che porre le premesse per una recessione che non sarà inferiore a 5-10 anni. Per un Paese che ha già una media di sviluppo dello 0,5% si tratta di un intervento molto ottuso. La fermentazione delle contrattazioni, la disarticolazione dei contratti fa si che a soffrire sarà la stessa produttività, l’organizzazione aziendale, la formazione dei lavoratori. Sono tutte premesse per un peggioramento e un prolungamento della recessione. il ministro Sacconi interpreta gli aspetti più deteriori dell’ideologia neoliberale.

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Paolo Persichetti
Liberazione 22 luglio 2011

Di fronte all’ennesima tempesta che si è abbattuta sui mercati finanziari sono state riproposte grosso modo due chiavi di lettura. La prima, sostanzialmente assolutoria nei confronti dei circuiti borsistici, si ispira alla teoria liberista che postula la piena efficienza dei mercati finanziari. La ricerca sfrenata di ricchezza privata che muove le speculazioni borsistiche – sostengono i paladini di questa posizione – non entrerebbe in contrasto con l’interesse generale delle economie dei vari Paesi, perché il principio di concorrenza sarebbe in grado di generare delle mediazioni finanziarie efficaci. Insomma il giudizio dei mercati non si discute poiché sarebbe il solo in grado di produrre soluzioni razionali e performanti capaci di offrire quella liquidità monetaria indispensabile agli Stati per finanziare il debito pubblico interno. Più che una filosofia siamo di fronte ad una teologia che introduce nei fatti un nuovo fondamento della sovranità. Le implicazioni collegate a questo assunto sono gravide di conseguenze importanti. Esse fuoriescono dalla semplice sfera economica per investire dimensioni politico-filosofiche che modificano il funzionamento, oltre che il significato, dei modelli politici pluralisti che per comodità passano sotto il nome di democrazie. In Italia il Pd ha sposato integralmente questa lettura dei fatti cercando nella sanzione espressa dai gruppi speculativi che hanno attaccato i bond governativi una legittimità alla propria candidatura alla guida del Paese. Perplessità sull’operato dei mercati borsistici sono venute, invece, da settori della destra di governo fornendo l’ennesima prova di quel paradossale capovolgimento di senso dei punti cardinali della politica.

L’altra chiave di lettura ricorre, al contrario, alla tesi dell’anomalia dei comportamenti tenuti in Borsa, al mancato rispetto delle regole finanziarie. E’ grosso modo la strada perseguita dalle associazioni che hanno denunciato azioni di manipolazione del mercato, depositando degli esposti presso la magistratura nei quali additano il ruolo ambiguo delle agenzie di rating, ritenute le capofila della filiera speculativa. In questo caso il profitto speculativo, oltre ad essere ritenuto un vettore che provoca danni per la comunità, bruciando risorse, impedendo investimenti keynesianamente virtuosi nel ciclo produttivo, è percepito come immorale. Posizione ideologica che trae legittimità dalla vecchia etica calvinista del capitale e rispecchia gli interessi dei ceti medi, dei piccoli azionisti e risparmiatori vittime delle bufere che traversano i mercati finanziari. Un atteggiamento ammantato d’ipocrisia morale poiché trova al contrario accettabile l’estrazione di plusvalore, la spremitura della forza lavoro umana.

Esiste tuttavia una terza interpretazione che non considera le ricorrenti crisi dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni l’effetto di errori, incidenti o comportamenti irrazionali ma il risultato del pieno rispetto del libero gioco borsistico. E’ la tesi sostenuta in particolare da André Orléan, studioso francese di scuola regolazionista, che in un volume apparso nel 2010 (Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria, Ombre corte) ritiene le crisi conseguenza «non del fatto che le regole del gioco finanziario siano state aggirate ma del fatto che sono state seguite». A differenza di quel che accade nell’economia reale, sui mercati finanziari domanda e offerta agiscono in modo diverso, nota l’autore. L’aumento della domanda di un bene non ne fa aumentare solo il prezzo ma anche la richiesta, a causa dei rendimenti accresciuti che lo rendono ancora più attraente. Le crisi, in sostanza, sarebbero il fondamento stesso del funzionamento del sistema borsistico che agisce in modo autoreferenziale, investendo su prodotti finanziari “derivati” alla ricerca di rendimenti decorrelati, cioè sempre più scollegati dall’economia reale. Orléan ne indaga in modo accurato la dimensione ideologica ed emotiva, la rincorsa mimetica dei diversi operatori che suscitano momenti di euforia (da cui fuoriescono la cosiddette “bolle”) e le fasi di panico che caratterizzano la sua strutturale volatilità. La finanziarizzazione dell’economia capitalistica agisce come un continuo processo d’inclusione-esclusione che per certi versi sembra una riedizione continua dell’accumulazione primitiva con i suoi caratteri brutali.

Esistono delle soluzioni? A parte l’oltrepassamento del capitalismo, utili ma non risolutivi sarebbero certamente degli interventi in favore della tassazione delle operazioni borsistiche, la messa al bando di alcuni prodotti finanziari e tecniche speculative. Gran parte del problema tuttavia riguarda il nodo del debito pubblico e del suo finanziamento, attorno al quale ruota – come abbiamo visto – il problema della sovranità. La globalizzazione finanziaria ha tolto agli Stati la capacità di controllo sull’andamento dei titoli un tempo confinati in prevalenza nel mercato nazionale. Le proposte fioccano: separare i circuiti bancari da quelli finanziari, ristabilire in controllo politico sulle banche centrali, favorire un fondo comune europeo per il finanziamento del debito pubblico, liberarsi dalla dittatura delle agenzie di rating, tornare all’economia reale.

2/fine

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