Paolo Bolognesi, imprenditore della memoria della strage di Bologna, fa marcia indietro. Torna la foto di Maria Fresu

«Dopo aver balbettato bugie per due giorni cadendo in un groviglio inestricabile di contraddizioni prive di qualunque giustificazione, Paolo Bolognesi ha ripristinato la foto di Maria Fresu sul sito dell’associazione delle vittime della strage di Bologna». Lo scrive  Laura Fresu, cugina di Maria, la giovane mamma di 23 anni morta nella strage di Bologna con la figlioletta Angela, di appena 3 anni, e l’amica Verdiana Bivona, dopo che il nome della cugina era stato cancellato dall’elenco delle vittime del 2 agosto 1980 e dalla relativa galleria delle fotografie del sito dell’associazione dei familiari delle persone decedute dell’attentato presieduta da Paolo Bolognesi. Laura Fresu interviene dopo che proprio Bolognesi, replicando a una durissima lettera aperta nella quale la cugina di Maria denunciava il fatto, aveva spiegato all’Adnkronos di non aver «mai cancellato nulla»: «Cliccando sulla foto della bambina viene fuori anche il nome della madre – aveva detto il presidente dell’associazione – Il sito si sta ristrutturando e adesso, se ci daranno l’autorizzazione i familiari, metteremo anche la foto di Maria Fresu». Non basta, sostiene Laura Fresu, che chiede all’associazione di impegnarsi a fare di tutto per ritrovare i resti del corpo di Maria Fresu. Ecco il testo integrale della sua risposta a Paolo Bolgnesi

Dopo aver balbettato bugie per due giorni cadendo in un groviglio inestricabile di contraddizioni prive di qualunque giustificazione, Paolo Bolognesi ha ripristinato la foto di Maria Fresu sul sito dell’associazione delle vittime della strage di Bologna.
La veste grafica del sito dell’associazione era cambiata nel 2017. Prima vi appariva solo la lista delle 85 vittime tra cui c’era il nome di Maria. Le foto delle vittime erano poche e potevano essere viste cliccando solo su alcuni nomi, non quelli di Maria e della figlia Angela. Nel corso del 2017 è stato aggiunto il mosaico fotografico, così è apparsa la foto della figlia, Angela Fresu, ma non l’immagine di Maria di cui era scomparso anche il nome. Solo cliccando sulla foto della figlia si leggeva di lei: «si sono perse le tracce». Nulla di più. La sua memoria era evaporata insieme al suo corpo. Questa tardiva riparazione tuttavia non offre risposta alla domanda: perché Maria Fresu non c’era? Perché è stata necessaria una denuncia pubblica? Perché Bolognesi non ha mai sollecitato le autorità affinché si attivino per ritrovare le tracce di Maria, svolgendo i raffronti del Dna con i resti di tutte le altre vittime. Di cosa ha paura Bolognesi?
Maria non è scomparsa e la scienza forense spiega che non può essersi dissolta, tracce anche piccole restano e prima di poter affermare che i resti del suo corpo sono andati smarriti nei detriti della stazione bisogna adempiere tutti gli atti necessari. Perché Bolognesi non lo fa?
Il ripristino della foto sul sito dell’associazione colma un vuoto ma non risolve la questione: Bolognesi deve dirmi se vuole occuparsi del destino che ha avuto il corpo di mia cugina. L’associazione che presiede da 24 anni è interessata a sostenere questa iniziativa? Farà finalmente qualcosa per sapere dove si trovano i resti di Maria Fresu?

Laura Fresu, 9 settembre 2020

«Perché hai tolto il nome di Maria Fresu dalla lista delle vittime della strage?», Laura Fresu chiede spiegazioni a Paolo Bolognesi

L’imprenditore della memoria Paolo Bolognesi, presidente a vita – come nelle satrapie orientali – dell’«Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980», ha tolto dalla lista delle vittime della strage riportata sul sito dell’associazione – https://www.stragi.it/vittime – il nome di Maria Fresu, la mamma della piccola Angela Fresu di 3 anni, morta insieme a lei nella esplosione della bomba che fece 85 morti accertati e 200 feriti. Le perizie realizzate sui resti da sempre attribuiti a Maria Fresu, condotte nel corso dell’ultimo processo sulla strage contro Gilberto Cavallini, hanno dimostrato che le tracce genetiche non appartenavano alla donna ma a due diversi dna femminili. Nel corso del processo, i legali della parte civile, che tutelavano gli interessi dell’Associazione presieduta da Bolognesi, ma non di Maria Fresu evidentemente, non hanno chiesto di verificare se i resti del corpo di Maria Fresu si trovassero confusi in altre sepolture e di confrontare i due dna emersi con quelli delle altre vittime femminili, per accertare senza ombra di dubbio a chi appartenessero e smontare ipotesi alternative. Era un loro imprenscindibile dovere a cui sono venuti meno, forse per non favorire le richieste della difesa finalizzate a dimostrare l’esistenza di un ottantaseiesima vittima coinvolta nella esplosione della bomba. Un atteggiamento, che se trovasse conferma, dimostrerebbe la miopia e il masochismo di Bolognesi e darebbe prova del suo cinismo, di un’etica a geometria variabile disposta a sacrificare la memoria di una vittima per dei calcoli di strategia processuale. Anche dopo la chiusura del processo, Bolognesi non ha fatto nulla perché si scoprisse dove fossero finiti i resti di Maria Fresu: si è limitato a cancellarla dalla memoria ufficiale dell’Associazione che presiede, che da quel momento è diventata l’associazione tra le vittime della strage, meno una. Che Maria Fresu fosse presente in stazione quella mattina lo stestimonia la presenza della sua bambina, e quella di due sue amiche, Verdiana Bivona, rimasta uccisa, e Silvana Ancillotti, ferita nello scoppio (qui una sua testimonianza Silvana Ancillotti ricorda l’esplosione nella sala d’apetto della stazione). Nella lettera, Laura Fresu non si accontenta di pretendere delle spiegazioni da Bolognesi per il suo gesto, ma chiede conto anche della sua gestione dell’Associazione, da cui ha ricavato una legislatura parlamentare, e delle sue scelte politiche, come quella di occuparsi della Commissione Moro 2 piuttosto che della vicende della strage di Bologna

di Laura Fresu

 

Sono Laura Fresu, cugina di Maria Fresu, vittima della «Strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980».
Nell’ottobre del 2019, durante il processo all’ex NAR Gilberto Cavallini, egli stesso chiese – attraverso i suoi legali – la riesumazione dei resti di Maria, allo scopo di effettuare il test del DNA. Una volta riesumati i «resti» ed effettuato il test, si scoprì l’incompatibilità con Maria. Cioè: non era lei.
Io non ho competenze specialistiche per entrare nel merito di quelle analisi né delle indagini. È per questo motivo che attendo, con paziente fiducia, la conclusione delle stesse. Tuttavia, ci sono due aspetti che mi indignano.

Il primo riguarda il fatto che i fascisti, ovviamente, abbiano già cominciato la propria canea contro Maria Fresu. Proponendo una tesi aberrante secondo la quale era proprio Maria a trasportare la bomba in una valigia! Da quali prove è stata mai suffragata questa teoria?
Per quanto da me letto in un libro scritto da un’antropologa forense, un corpo umano – anche se colpito da una bomba come quella della «Strage di Bologna» – non può essere mai disintegrato completamente.
Tralascio però – anche in quanto da sempre e per sempre antifascista –questo elemento, che proprio i fascisti strumentalmente introdussero.
Ma, proprio da quel maledetto ottobre, la tesi del mancato ritrovamento del corpo è stata usata dai legali di Cavallini sia per la difesa del loro assistito che per «lavare» le vesti di Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
I legali iniziarono a ipotizzare che quel lembo facciale appartenesse necessariamente alla donna che trasportava l’esplosivo.
E iniziarono a circolare volantini con la macabra immagine di quel lembo. Per fini strumentali, ripeto, e quindi a difesa di una verità di puro comodo. E in questo modo è quindi iniziata la «comoda» strumentalizzazione fascista di Maria Fresu.

Il secondo aspetto – che ancora oggi mi addolora assai – è relativo al comportamento di Paolo Bolognesi. Egli è Presidente (forse a vita?) della «Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980».
Con quella sua carica, Bolognesi è anche riuscito a fare carriera politica, facendosi eleggere – come indipendente – nelle liste del Partito Democratico.
Era lecito pensare che ci sarebbero state, proprio per questa sua presenza in quell’assise prestigiosa, maggiori possibilità che il Parlamento si occupasse di quella pagina nera della storia della Repubblica. E invece di quella vicenda Paolo Bolognesi non si è occupato. Mai.
Si è fatto però eleggere membro della «Commissione Moro», presieduta dall’on. Fioroni. Cosa ci facesse lì, Paolo Bolognesi, francamente lo ignoro.
Però, in questa sede, pongo il problema. Sia, dunque, Bolognesi stesso a renderci conto pubblicamente dei suoi «comportamenti politici» in Parlamento.
Intanto vi espongo alcune mie amare considerazioni sui comportamenti assunti da Bolognesi nei confronti di Maria Fresu.
Dopo il male che ha fatto a Maria io, e non solo io, considero Bolognesi non il Presidente dell’Associazione, ma il «Padrone» della stessa. Infatti, che Presidente è uno che abbandona al proprio destino – deciso da altri – una vittima di quella strage? Espunge il nome di Maria, pur mantenendo quello di sua figlia Angela, che all’epoca dei fatti aveva solo tre anni. Forse quel giorno la piccola Angela si trovava alla stazione di Bologna da sola, senza essere tenuta per mano dalla propria madre? Non è forse compito del Presidente dell’Associazione difendere ognuna delle vittime di quella strage?
Se Bolognesi ha tolto, nella sua pagina web, il nome e la foto di Maria Fresu dall’elenco delle vittime, non dovrebbe, per coerenza, recarsi alla stazione di Bologna per cancellare – munito di scalpello e martello – il nome di Maria Fresu anche dalle due lapidi, una esterna e l’altra interna alla stazione?
Non credo proprio lo farà. Ci vorrebbe, per una cosa del genere, del coraggio. Ma il coraggio non è prerogativa di chi, su questa vicenda, si comporta alla stregua di don Abbondio.
Maria è esistita, cari Paolo e Ugo. È stata una meravigliosa e semplice ragazza che lavorava per crescere la sua bambina, e, a prezzo di sacrifici, per portarla in vacanza. Per questo si trovavano entrambe lì!

Infine, voglio fare un’ultima considerazione: la strumentalizzazione di Maria è, ripeto, già in opera. I fascisti – ovviamente – fanno quello che hanno sempre fatto, lo sappiamo, per buttare fumo negli occhi e distogliere dalla verità su quella strage. Ora lo fanno «usando» Maria Fresu! Ma anche Bolognesi, col proprio comportamento, ha dimostrato di essere un cinico uomo di potere. Solo in questo modo, probabilmente, egli può sperare di mantenere la propria posizione – politica certo, nient’affatto umana – di «Padrone» dell’Associazione che dovrebbe soltanto presiedere nell’interesse comune e – possibilmente – non «a vita».
Nel nome di Maria Fresu – mia cugina – io sento il Dovere di difendere la sua Memoria. Lei non è più in grado di farlo da sola. È necessario che Maria torni a essere «vittima oggettiva» di quella strage. È necessario che il suo nome e la sua foto vengano rimessi al posto dove stavano, da decenni, nel sito web di Paolo Bolognesi.
Io questo posso e devo fare: nel suo ricordo, quel ricordo che mi ha portato, mi porta e mi porterà ad andare avanti, nella speranza –che spero un giorno possa diventare certezza – di ottenere per Maria la Giustizia e la Verità che merita.
Per come sono fatta, nel bene e nel male, sappiate che mi ritengo sufficientemente coraggiosa nel perseverare. Perché Maria non può – NÉ DEVE – essere uccisa due volte: la prima da viva, la seconda da morta. Io non lo consentirò!

Roma, domenica 6 settembre 2020

Avvocato Cutonilli, Mauro Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza, è Raisi che deve giustificare le sue accuse!

Presegue con questa quarta puntata la nostra inchiesta sulla infondatezza delle accuse mosse contro Mauro Di Vittorio, vittima della strage di Bologna accusato dal deputato di Fli Enzo Raisi, a 32 anni di distanza dal massacro, di essere uno degli artefici dell’esplosione della bomba. Un intervento dell’avvocato Valerio Cutonilli, apparso su FascinAzione, ci permette di fare chiarezza su ulteriori aspetti degli ultimi giorni di vita di Mauro, ma soprattutto di ristabilire una questione fondamentale: non è Di Vittorio che deve dimostrare la suo innocenza ma chi lo accusa che deve giustificare i suoi sospetti

di Paolo Persichetti

L’avvocato Cutonilli con un intervento inviato a FascinAzione, il sito gestito da Ugo Maria Tassinari divenuto uno dei più interessanti osservatori sulla destra italiana, ha rotto la consegna del silenzio che regnava da giorni dopo la pubblicazione sul manifesto del 18 ottobre della nostra inchiesta sulla vera storia di Mauro Di Vittorio, uno degli 85 morti della strage di Bologna del 2 agosto 1980 ingiustamente accusato dall’ex carabiniere missino Enzo Raisi, oggi deputato finiano, di essere uno degli artefici del massacro.
Va detto subito che Cutonilli, che ha scritto alcuni anni fa un libro sulla strage di Bologna, edito dalle edizioni Trecento, ed è stato anche l’autore insieme a Luca Valentinotti, pure lui avvocato, di un altro volume, Acca Larentia. Quello che non è stato mai detto, uscito nel 2010 sempre per le edizioni Trecento, in cui mostrava di non aver ben capito la dinamica magmatica di alcune aree dello spontaneismo armato romano, ha usato stavolta toni molto diversi dalle maniere tanto arroganti quanto imprudenti alle quali ci aveva abituato il parlamentare di Fli, colpito all’improvviso da afasia acuta.


Il metodo Raisi-Cutolilli: l’inversione dell’onere della prova

Tuttavia lo stile più dimesso, il ricorso ad alcune precauzioni semantiche e una più diplomatica attenzione alla memoria di Mauro Di Vittorio non hanno modificato la sostanza di un discorso che, pur integrando alcuni elementi obiettivi ristabiliti dalla nostra inchiesta, resta pressoché immutato nel suo originario impianto colpevolista.
Importa poco che Cutonilli si definisca personalmente – mi sia concesso l’uso metaforico del termine – “agnostico” rispetto alla posizione di Mauro Di Vittorio. La richiesta di accertamenti concreti da lui sollevata, e che affronteremo nel dettaglio in seguito (non saremo certo noi a temere una verifica concreta visto che è proprio grazie a questo metodo che siamo giunti ai risultati descritti nell’inchiesta), fa emergere una singolare concezione che porta a capovolgere l’onere della prova e fa di Mauro Di Vittorio il sospettato permanente, colui che deve dimostrare al mondo di non essere colpevole 32 anni dopo essere stato ucciso.
E no! Caro Cutonilli, non è Mauro Di Vittorio a dover confermare la propria innocenza, ma chi dubita di lui a dover provare il suo eventuale coinvolgimento, diretto o indiretto (stando alle elucubrazioni di Raisi), nella realizzazione della strage.
Questo non è avvenuto! Raisi ha lanciato accuse pesantissime senza mai avere nelle mani uno straccio di indizio, niente di niente, soltanto una verità ideologica e molta presunzione, pregiudizio, sprezzo e faziosità.
Troppo facile, ora che sono emersi i documenti negati e testimonianze multiple, invocare delle verifiche supplementari. I riscontri andavano cercati prima di spararle così grosse. Cutolilli tanto rigore lo doveva esigere in precedenza, ma da Raisi. La lezioncina sul metodo non va certo rivolta a chi ha messo l’incauto responsabile della comunicazione di Fli con le spalle al muro di fronte all’evidenza delle sue sciocchezze, per non utilizzare altri termini molto più appropriati.


Le patacche dell’onorevole

Esemplare di quaderno Pigna nero con bordi rossi di moda negli anni 80, un po’ come i moleskine attuali

1) Secondo Raisi la scheda biografica di Mauro Di Vittorio presente sul sito dell’associazione familiari conteneva «informazioni non veritiere». I virgolettati presenti al suo interno erano «un’azione di depistaggio per coprire qualcosa». Che cosa? il tentativo di fornire un alibi, post mortem, a Di Vittorio. Quindi il diario non sarebbe mai esistito perché – a suo dire – non ve n’è traccia nel fascicolo giudiziario. Che dunque quei virgolettati non provenivano dall’articolo di Fabio Negro del Resto del carlino, che a sua volta li aveva estrapolati dal testo integrale pubblicato su Lotta continua del 21 agosto precedente, ma da una qualche mano che in questo modo voleva sviare dalla verità, lasciando intendere l’esistenza di un complotto che per coprire la responsabilità dei “rossi” (autonomi romani, palestinesi dell’Fplp e Carlos più Rz tedesche e compagnia bella) avrebbe favorito l’indirizzo delle indagini verso la pista nera.

Abbiamo visto che le cose non stanno affatto così! Il diario di Di Vittorio esiste, si tratta di tre paginette scritte in un quaderno Pigna dalla copertina nera, riportate integralmente su Lotta continua del 21 agosto 1980, e consegnato dalla Polfer alla sorella di Mauro, Anna, il 12 agosto 1980, il giorno successivo al primo riconoscimento del corpo, quando giunse anche la madre di Mauro, insieme alla borsa Tolfa dove era riposto con la carta d’identità. Il tutto, come prevedono le procedure legali, accompagnato da un verbale di consegna.
Non si tratta affatto di rivelazioni, queste circostanze sono state riportate in gran parte da Anna Di Vittorio nella sua testimonianza presente nel libro di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti (Bur, 2006). Di seguito le pagine 199-202: il racconto, prodotto 26 anni dopo la tragedia, presenta alcune imprecisioni mnemoniche di dettaglio, come il biglietto della metropolitana che non era di Londra ma di Parigi. Affronteremo meglio la questione più avanti. Mentre il pasaggio sulla «misteriosa telefonata» – pagina 201 – è stato sempre smentito da Anna. Smentita ribadita anche durante la nostra inchiesta e che trova conferma nelle circostanze riportate in tempo reale dall’articolo di Luciana Sica di Paese sera del 13agosto 1980.
Nel libro di Fasanella, Anna impiega un altro aggettivo, «strana». La sua frase è: «Il 6 agosto, ricevemmo a casa una strana telefonata e iniziammo a insospettirci.», e dopo il punto aggiunge, «Dalla stazione di Bologna ci avvertirono che era stata ritrovata la carta d’identità di Mauro». Il punto inopinatamente introdotto tra le due frasi interrompe la consecutio, lasciando intendere che potrebbe trattarsi di due momenti diversi e che non si stesse parlando dello stesso episodio. Fasanella è un noto dietrologo e non è improbabile che abbia voluto introdurre forzatamente un alone di mistero su una vicenda che al contrario è chiarissima: la telefonata, che non è affatto anonima come si potrebbe intendere dal modo in cui viene descritta e come sostiene anche Raisi, giunge dagli uffici di polizia che stanno conducendo le prime indagini probabimente dalla questura stessa, che per un eccesso di delicatezza evita di accennare al ritrovamento del documento d’identità tra le macerie della stazione. L’episodio, unito ad altre circostanze, condusse i familiari di Mauro alla rottura delle relazioni con il giornalista.
Nel corso della conferenza stampa, ripressa dal Resto del Carlino del 29 luglio 2012, Raisi riuscirà a dire che Anna Di Vittorio sul libro di Fasanella-Grippo avrebbe detto: «la famiglia ha ricevuto una telefonata anonima da Bologna».

Ora Cutonilli chiede la perizia calligrafica del testo manoscritto presente sul diario. Magari vorrà anche la perizia merceologica per vedere se il quaderno risale al 1980! Constatiamo che si sta chiedendo ancora una volta a Mauro Di Vittorio di dimostrare di essere Mauro Di Vittorio. Ma quelle pagine erano in possesso dell’autorità di polizia, sono state loro ad averle consegnate su ordine della magistratura dopo aver vagliato la loro inutilità ai fini dell’inchiesta. Dobbiamo periziare anche i verbali di consegna?
Stabiliranno i legittimi proprietari del quaderno modi e tempi di una tale verifica che spetta alla sola autorità competente, la magistratura, di cui si regista un singolare silenzio!

2) Sempre Raisi ha detto che nemmeno la carta d’identità sarebbe stata ritrovata tra le macerie ma che a portarla a Bologna sarebbe stata addirittura la madre di Di Vittorio che si sarebbe presentata all’obitorio «con una carta di identità intonsa in mano» (Resto del carlino, 29 luglio 2012).

Come abbiamo già visto, è falso! Perché Raisi dichiara una cosa del genere? Perché ha disperato bisogno che tra le vittime della strage ci sia un clandestino, qualcuno che si aggirava per la stazione senza i suoi documenti addosso e con una valigia piena di esplosivo, altrimenti crollerebbe l’intera impalcatura della sua variante. Sì, perché quella di Raisi è una variante venuta in soccorso dell’originario teorema della pista palestinese, sostenuto da Gian Paolo Pelizzaro, Gabriele Paradisi, François de Quengo de Tonquédec e Lorenzo Matassa, da tempo in crisi per non essere riuscita ad indicare con un sufficiente margine di certezza i possibili autori e formulare un movente credibile. Lo stesso Raisi ha evidenziato durante la conferenza stampa di fine luglio l’insostenibilità della rappresaglia palestinese contro Bologna, gemellata con una città della Palestina. Da qui il bisogno di trovare dei complici italiani optando per l’ipotesi dell’incidente di trasporto e in subordine del sabotaggio.

3) Secondo Raisi anche la telefonata della questura sarebbe un falso. Per farlo cita un passaggio della testimonianza di Anna Di Vittorio nel libro di Fasanella. A chiamare, lascia intendere, sarebbero stati i complici di Mauro, quegli stessi «giovani dei collettivi di sinistra» che avrebbero fatto il riconoscimento in obitorio fuggendo pirma di essere identificati, oppure la fantomatica ragazza accompagnata da un mediorientale (sicuramente piccola e biondina, magari di nome Christa, come suggerisce Gabriele Paradisi nell’intervista a Loriano Machiavelli, associando del tutto abusivamente il nome della Fröhlich a quello della protagonista del romanzo). Una descrizione proveniente, scrive Cutonilli, da «colloqui diretti» che Raisi avrebbe tenuto «con il personale medico di Bologna», dell’obitorio si suppone.

Singolari testimoni che ritrovano la memoria a 32 anni di distanza. Una memoria in sintonia coi tempi, dalle caratteristiche tipicamente neocon, del genere clash of the civilisations, roba da islamofobia post-11 settembre.
La vicenda della telefonata giunta a casa Di Vittorio ci dice, in realtà, che Raisi conosce perfettamente la testimonianza di Anna Di Vittorio resa nel 2006. Dunque la storia della Tolfa con il diario e la carta d’identità consegnata dalla Polizia ferroviaria. Nonostante ciò, egli la ignora completamente e senza mai confutarla, senza mai chiedere spiegazioni ad Anna, anzi lasciando supporre che non dica il vero, lancia le sue accuse gratuite contro il fratello Mauro.
E’ un po’ tardivo, come fa Cutonilli alla fine del suo testo, pretendere di salvarsi in corner chiedendo lumi all’autorità giudiziaria. Forse il vero problema in tutta questa vicenda è rappresentato dal signor Enzo Raisi. E’ lui che dovrebbe dare prova della sua onestà intellettuale e delle sue capacità di esercitare correttamente la funzione pubblica che svolge. Non certo Mauro Di Vittorio, che non può più difendersi, o i suoi familiari!


Il viaggio di ritorno e il biglietto del metrò parigino

Mauro Di Vittorio tra gli effetti personali aveva un biglietto del metro parigino, stazione di Barbès-Rochechouart. Così dicono alcune agenzie dell’epoca riprese dai quotidiani. Questa circostanza è bastata a Raisi per sostenere che Di Vittorio in realtà non è mai andato a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per incontrarsi con Carlos e prendere in consegna la valigia carica di esplosivo poi deflagrata nella stazione di Bologna. Il diario non dice nulla del viaggio di ritorno, il cui tragitto si può ipotizzare a partire da due circostanze: il biglietto della metropolitana sopracitato; la multa elevata sul treno a Di Vittorio perché trovato senza biglietto e pervenuta ai familiari dopo i funerali.
Respinto alla frontiera di Dover, Di Vittorio con pochi spiccioli in tasca (tra gli effetti personali vengono trovate solo 300 lire. Anna racconta che aveva lasciato gran parte dei suoi soldi a Peppe per aiutarlo a pagare la multa che aveva portato al sequestro della macchina alla frontiera tedesca), torna indietro e giunge a Parigi via gare du Nord. Parigi non ha una stazione centrale ma un sistema ferroviario a stella con stazioni che fanno capo alle diverse linee ferroviarie che si dirigono verso i quattro punti cardinali del Paese. La linea che congiunge Parigi a Londra, nel 1980 come oggi, è la gare du Nord. Non lontano dal quartiere di Barbès, dove è situata la stazione della metropolitana indicata nel biglietto ritrovatogli addosso. Stazione del metrò che si può raggiungere anche compiendo una semplice passeggiata a piedi. Da Barbès, Di Vittorio aveva due possibilità: salire le scale che portano alla linea 2 che traversa in sopraelevata i quartieri nord del capitale francese, da lì salire sui vagoni in direzione Nation, verso est, per incrociare la storica linea 1, aperta all’inizio del 1900, che l’avrebbe condotto alla vicina gare de Lyon, da dove all’epoca partivano tutti i treni per l’Italia. Oppure scendere e prendere la linea 4 sotterranea per incrociare la linea 1 nel labirinto di gallerie di Châtelet-Les Halles.
La presenza di quel biglietto è dunque assolutamente compatibile con il viaggio di ritorno, un viaggio condotto in modo rocambolesco perché senza biglietto. C’è dunque da supporre che Mauro sia dovuto scendere più volte dai treni, obbligato a percorsi contorti che l’hanno portato verso Bologna, probabilmente passando per Milano.

4/Continua

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