Storia di Vincenzo T

di Paolo Persichetti

Ho conosciuto Vincenzo T nel carcere Mammagialla di Viterbo. Era il 2003, da pochi mesi ero stato riconsegnato all’Italia dopo undici anni di esilio. Ceduto con un sotterfugio in un’alba di fine agosto alla polizia italiana sotto il tunnel del Monte Bianco. Le televisioni avevano lungamente diffuso le immagini del mio arresto attorniato da poliziotti nel cortile della questura torinese, evento salutato con un brindisi nella dimora in costa smeralda dell’allora capo del governo Berlusconi.
Trascorse alcune settimane in osservazione ero stato trasferito nella sezione penale del carcere. Si faceva sera, il corridoio del reparto era affollato perché le celle in quel luogo venivano aperte per le ore di socialità pomeridiana. Una bella novità dopo i lunghi mesi di isolamento passati a Marino del Tronto. In sezione al mio arrivo tutti mi salutano, qualcuno aveva avvertito che sarebbe arrivato il brigatista. Butto il mio sacco nella cella che mi era stata assegnata e vado subito a passeggiare, su e giù in quel brusio generale. Una sensazione bellissima che avevo dimenticato.
E’ lì che si avvicina Vincenzo T. Testa rapata, viso cotto dal sole, naso a patata. «Paolo ti devo parlare». Si rivolge a me come se mi avesse sempre conosciuto. «Ti devo dire una cosa che solo tu puoi capire. Di te mi fido, degli altri no». Vicenzo T mi rivela così il segreto della sua esistenza che tanto lo tormentava. Una sofferenza esistenziale di cui aveva lentamente preso coscienza. «Ho un problema con la testa, sento le voci. Forse ho un problema psichiatrico, ma qui non lo posso dire a nessuno, devo fingere di essere normale».
Nelle settimane e mesi che seguirono Vincenzo T mi ha raccontato tutta la sua travagliata esistenza. Abbiamo passato quasi quattro anni insieme al Mammagialla, leggendo libri discutendo dell’universo mondo perché Vincenzo nonostante i pochi studi ha una fame incredibile di letture e ragiona tanto, anche troppo.
Gli sono stato accanto sempre, come un fratello maggiore, cercando di proteggerlo e aiutarlo. In quella sezione ho conosciuto altri «matti», con loro ho legato molto e passato i momenti più belli della mia carcerazione. A volte mi sembrava di rivivere alcune scene di Qualcuno volò sul nido del cuculo, mi sentivo Jack Nicholson con i suoi picchiatelli. Il direttore dell’Istituto si lamentava di questa situazione: al Mammaggialla un terzo della popolazione detenuta era psichiatrica, l’altro terzo con dipendenze, infine migranti e poi gli altri. La prigione discarica sociale gli impediva di portare avanti progetti di eccellenza, guadagnare punti per la carriera, finire sulle televisioni mostrando pièce teatrali e progetti d’avanguardia, impossibili in un carcere sentina della terra. Per lui era solo un problema di carriera.
Con noi c’era Pino, divenuto psichiatrico per l’abuso di psicofarmaci, e Mauro, il suo cocellante, che parlava in doccia con le trote e ci spiegava che i marziani erano arrivati in skate a Frosinone. Pino era riuscito ad avere la pensione, gli avevo preparato la pratica. Pochi giorni prima di uscire era angosciato perché non sapeva come custodire i cinquemila euro che aveva nel libretto. A dire il vero non sapeva nemmeno dove andare, era nel panico. La prima sera da libero si perse. Non era riuscito a ritrovare la strada della casa famiglia dove lo ospitavano. Passò la notte su una panchina. Poi c’era Vladimiro, il “comandante”, condannato perché aveva rubato delle biciclette e una catenina scavalcando una finestra a piano terra. Anche lui sentiva le voci, «sono come Giovanna D’Arco», diceva. Ricordo una sua lettera arrivata anni dopo, era finito in un carcere psichiatrico, in un grande camerone dove si mangiavano solo patate lesse e altri detenuti si masturbavano guardando la televisione.
Ma quella di Vincenzo T era la storia più dura, un grumo di sofferenza, stigma sociale, persecuzione giudiziaria, abbandono e ignoranza. In carcere cominciarono ad arrivargli con frequenza regolare notifiche di condanna e denunce per violazione degli obblighi della sorveglianza. Ogni volta montava di rabbia, con fatica lo calmavo. Lentamente cominciammo a capire: quando era in sorveglianza speciale, dopo la sua prima lunga condanna, Vincenzo T aveva frequenti crisi psichiatriche. Venivano così disposti dei trattamenti sanitari obbligatori. I carabinieri del suo paese non trovandolo a casa, invece di segnalare il ricovero ospedaliero lo denunciavano per evasione. Sei mesi di condanna ogni volta. Gli feci chiedere le cartelle cliniche, confrontammo le date, erano perfettamente sovrapponibili con le denunce presentate da quella caserma infame. Inviammo tutto all’avvocato che per una volta ebbe gioco facile a smontare le accuse. Ma questo è solo un assaggio, il resto è storia di una mancata diagnosi, dell’assenza di cure, dell’abbandono da parte di una famiglia priva di strumenti culturali ma soprattutto da parte della società, delle istituzioni, come si dice. Solo, senza protezione, Vincenzo T in preda alla sue periodiche crisi psicotiche aveva cominciato a girovagare per l’Italia alternando momenti di tranquillità, dove lavorava come autista di scavatrici per ditte che si occupavano di appalti stradali, a crisi acute. E ad ogni crisi invece della cura arrivava la denuncia e il carcere: oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, danneggiamenti, litigi di strada, occupazione di immobili (una vecchia stazione ferroviaria abbandonata, utilizzata come giaciglio in assenza di una casa) e ancora, e ancora. Ricordo quando in semilibertà lo andai a trovare nella zona di Trastevere, dove viveva dopo aver terminato il carcere. Non stava bene, vedeva demoni sorgere dal selciato, era alterato. Anche se non potevo, stavo violando il programma trattamentale, cercai di acchiapparlo per portarlo in ospedale. Fuggì. Sapevo cosa sarebbe successo di lì a poco. Il giorno dopo era di nuovo a Regina Coeli, rinchiuso per oltraggio e violenza a pubblico ufficiale.
Morta l’anziana madre si sono guastati gli ultimi legami con la famiglia che lo aveva estromesso dall’eredità, qualche campagna e la casa materna. Fonte ulteriore di sofferenza, sensazione di una ingiustizia insopportabile. Ancora denunce e condanne, direttissime senza difesa. 
Negli ultimi tempi Vincenzo T aveva messo un po’ di ordine nella sua vita. La famiglia finalmente gli aveva riconosciuto una parte di quanto gli spettava. Con quei soldi aveva comprato una piccola casa, con un amico l’aveva rimessa posto. Lavorava nelle campagne etnee, al nero, la sera lo vedevo sui social fare i suoi balletti con amiche lontane fino a quando è arrivato un cumulo di vecchie condanne, di cui non si era preso cura, a precipitarlo nuovamente nell’abisso del carcere.
Da oltre due anni Vincenzo T è di nuovo in detenzione, in Sicilia. Senza soldi, non riesce a percepire la sua pensione di invalidità psichica perché la carta postale è bloccata. Non ha colloqui e telefonate. Vive nell’indigenza assoluta e i giudici di sorveglianza gli negano sistematicamente le misure alternative, sottolineando la sua «pericolosità» sociale. Vincenzo T mi scrive lunghe lettere dove racconta il carcere di oggi. Per la prima volta non trovo parole per rispondergli.

Per le persone con disabilità studiare non è più un diritto ma una eventualità di bilancio

Una recente sentenza del Consiglio di Stato (1798/2024) ha respinto il ricorso presentato dai genitori di un ragazzo disabile a cui erano state attribuite un numero di ore di sostegno scolastico inferiori a quelle indicate dai docenti della sua scuola e dagli operatori che si occupano della sua assistenza e riabilitazione.

Ritorna l’esclusione

Il «Pei», piano educativo individualizzato, finalizzato a fornire un supporto personalizzato per l’apprendimento e lo sviluppo di ciascun studente sulla base delle proprie specifiche esigenze e capacità, prevedeva 13 ore invece delle 7 concesse dal comune dove il giovane risiede.
Secondo i giudici amministrativi le indicazioni contenute nel Pei non avrebbero valore vincolante ma solo orientativo, lasciando così l’ultima parola alla burocrazia amministrativa. Una affermazione pericolosa e in contrasto con tutta la giurisprudenza precedente e i pronunciamenti della Corte costituzionale e che di fatto sottomette il diritto allo studio per i minori disabili ai vincoli economici delle amministrazioni locali.

Una distinzione fuorviante
Con una interpretazione capziosa l’Alta corte amministrativa ha distinto l’assistenza didattica fornita direttamente dall’istituzione scolastica, attraverso l’insegnante di sostegno, dall’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, fornita per legge dai comuni e dalle regioni e che è parte integrante del diritto allo studio. 
Per intenderci: se vengono meno alcuni servizi essenziali come la possibilità di accompagnare l’alunno con lo scuolabus, oppure l’assistenza diretta alla persona (accompagnarlo in bagno, assisterlo alla mensa ecc), o peggio l’assistenza alla comunicazione fornita da docenti specializzati in Lis e Caa, fondamentali per l’apprendimento e la comunicazione con il resto della classe e i docenti, viene leso il diritto fondamentale alla inclusione scolastica e alla efficacia dell’insegnamento didattico specializzato fornito dagli stessi insegnanti di sostegno che il più delle volte non sono formati a questi linguaggi.

«L’accomodamento ragionevole» e il suo rovescio
I giudici non hanno minimamente indagato se le ragioni di bilancio addotte del piccolo comune della Emilia Romagna per ridurre le ore di assistenza fossero realmente fondate, ha preferito invece introdurre una interpretazione gravemente discriminatoria del diritto all’istruzione per i disabili con argomenti che hanno una significato generale-astratto dalle ripercussioni nefaste. 
La sentenza, infatti, fonda la propria decisione sul ribaltamento del concetto di «accomodamento ragionevole», nozione formulata nella dottrina giuridica nordamericana, Civil Rights Act.
L’accomodamento o soluzione ragionevole venne formulato negli Stati Uniti quale riconoscimento giuridico dell’obbligo per i datori di lavoro di favorire le pratiche religiose dei dipendenti, a condizione che ciò non comportasse gravi disagi all’attività lavorativa. Si è poi diffuso all’ambito della disabilità con il Rehabilitation Act e l’American with Disabilities Act e in Canada con il Canadian Charter of rights and freedoms. Largamente impiegato per facilitare l’inclusione delle persone disabili nel mondo del lavoro, quindi in caso di persone adulte, l’accomodamento ragionevole è inteso come soluzione finalizzata a compensare le misure di inclusione lì dove la normativa è carente.
In sostanza si tratta di un principio di incentivazione all’inclusione, recepito nella Direttiva 2000/78/CE e poi confluito all’interno della Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006), art. 3, comma 2, per affermare i principi di uguaglianza e di non discriminazione per i lavoratori con disabilità, che i giudici amministrativi, con una bella dose di faccia tosta, sono riusciti a capovolgere proponendone una lettura rovesciata che discrimina anziché includere, che torna ad alzare barriere anziché abbatterle.


Una decisone da respingere
Questa sentenza se non adeguatamente contrastata e annullata aprirà un baratro che indebolirà il diritto all’inclusione aprendo la strada agli argomenti esclusivisti e discriminatori del pensiero razzista oggi tornato di moda. il diritto fondamentale allo studio per le persone con disabilità, come per ogni altro essere umano, non può essere subordinato a esigenze finanziarie ma va tutelato in ogni modo.
La decisione del Consiglio di Stato riapre il tema politico delle risorse economiche destinate alle politiche d’inclusione che non possono essere demandate unicamente agli enti locali, col rischio di una sperequazione territoriale tra comuni e ragioni con maggiore e minore ricchezza. Solo delle politiche di welfare centrale sono in grado di garantire un redistribuzione equa sul territorio nazionale.

La scuola discriminatoria e classista di Galli della Loggia

Il mito dell’inclusione avrebbe creato una scuola troppo indulgente e lassista. L’apertura ai disabili e ai bisogni educativi speciali avrebbe creato una zavorra democratica che rallenterebbe i «normali». Privileggiando l’accesso universale e il diritto alla riuscita scolastica di ognuno si sarebbe danneggiato il merito di pochi

Nella sua rubrica settimanale presente sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia ha scagliato una invettiva contro la scuola dell’inclusione. L’occasione gli è stata fornita da un libro appena uscito, La scuola esigente, Rubettino, scritto da Giorgio Ragazzini, esponente del «gruppo di Firenze» che per obiettivo ha «la rivalutazione del merito, della responsabilità, del rispetto delle regole come cornice indispensabile per la vita della scuola».
Ragazzini prende di mira quella che definisce la «scuola indulgente» che suona come carente, inadeguata, insufficiente, scarsa, fallimentare. Secondo l’autore negli ultimi decenni l’istituzione scolastica sarebbe stata travolta da una crisi profonda tanto da smarrire quella che definisce la «nostra eredità culturale». La conseguenza avrebbe portato gli alunni e gli studenti a non sapere più esprimersi, osservare e pensare. La causa di tutto ciò non sarebbe da addebitare a dinamiche più complesse e globali, come – per esempio – il salto tecnologico-cognitivo dovuto all’avvento della società digitale, della società dell’immagine, all’accesso simultaneo a input e informazioni che sovrastano la vecchia società della scrittura con tempi comunicativi velocissimi che interferiscono sulla concentrazione e l’attenzione e rappresentano una nuova sfida per l’educazione e l’insegnamento, ma a una crisi dell’educazione e dell’autorità.
Teorie pedagogiche fautrici di visioni eccessivamente lassiste – afferma Ragazzini – avrebbero prodotto questo disastro. La soluzione indicata è il ripristino dell’ordine, dell’autorità, dell’impegno e del merito, una pedagogia della caserma con docenti-sergenti che rinvia a slogan molto vecchi che celano l’odio presessantottino per la scuola di massa, per il diritto universale all’istruzione e allo studio in nome di un progetto altrettanto arcaico che rimanda alle società censitarie, dove la scuola non era per tutti.

Cogliendo al volo l’occasione fornitagli dai contenuti del testo, Galli della Loggia nella sua breve recensione attacca quello che chiama il «mito della inclusione» e che – lascia intendere – sarebbe solo una zavorra democratica che impedirebbe ai «normali», intesi come ottimi, migliori, i predestinati al successo nelle discipline del sapere, della politica, dell’economia e del governo, di avanzare celermente poiché costretti a convivere «anche con ragazzi disabili gravi con il loro insegnate personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, discografici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie)», senza dimenticare «sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano». Il risultato – chiosa- «lo conosciamo».
Quello che noi certamente sappiamo – diversamente da della Loggia – è la forza e l’arricchimento di quelle società che hanno usufruito nella loro storia, anche tormentata, delle varie ondate migratorie. Ho vissuto per undici anni in Francia dove, nonostante la mia condizione di esiliato, sono riuscito terminare gli studi universitari e ho anche insegnato, per un breve periodo, in classi dove i cognomi di origine francese si contavano sulle dita di una mano, mischiati ad altri di origine polacca, portoghese, italiana, magrebina, africana, indocinese, caraibica. Senza che questo creasse problema. Non ci vuole molto, basta sfogliare gli organigrammi delle politica, dell’informazione e dell’economia francese per rendersene conto.
Quanto alla scuola dell’inclusione l’unico problema viene dal fatto che ce n’è ancora poca, per mancanza di risorse, di formazione, di investimenti, non troppa come sostiene Galli della Loggia fautore di una società dove non sarebbe mai esistito uno scienziato come Stephen Hawking.
Il limite è dato dalla resistenza di culture discriminatorie che si mostrano indifferenti o peggio ostili all’idea di un diritto allo studio universale, per tutti e per ciascuno (per altro previsto dal dettato costituzionale), dunque anche per gli alunni e le alunne che hanno bisogni speciali ma non per questo sono inferiori o diverse. Quanto ai Bes e Pdp, la loro crescita numerica è dovuta alle nuove conoscenze mediche e scientifiche in grado oggi di individuare dei deficit in passato ignorati o addirittura sanzionati; e chi vive il mondo della scuola sa bene come la classe docente deve spesso insistere con le famiglie che sovente non vogliono accettare le diagnosi dei loro figli perché percepiscono ancora i Pdp come degradanti.

Sono genitore di un bimbo con una grave disabilità che necessità di assistenza continuativa ad alta intensità, portatore di tracheo e peg e che accede a scuola con l’ausilio di personale infermieristico. La sua esperienza scolastica, giunta ormai all’ultimo anno di scuola primaria, è stata un successo dal punto di vista dell’inclusione e dell’istruzione. Supportato dall’insegnante di sostegno e da una insegnate di comunicazione aumentativa alternativa e lingua dei segni, che rappresentano un ausilio e una risorsa per l’intera classe che oggi «segna» in Lis perfettamente, senza che i programmi scolastici e l’insegnamento siano stati alterati o ritardati, mio figlio ha imparato a leggere e scrivere, conosce la geometria e fa operazioni aritmetiche.
La sua classe in questi anni, oltre a conoscere una nuova lingua, si è arricchita sul piano umano, sa riconoscere e rispettare l’altro che in apparenza sembra diverso, ha appreso la solidarietà, ha affinato la curiosità, ha abbattuto pregiudizi e stigma. Nuove persone crescono. Questa è la scuola dell’inclusione anche se quello che siamo riusciti ad ottenere per nostro figlio, grazie a ricorsi giudiziari, un presidio costante dei suoi diritti e incontri fortunati con docenti preparati, non vale ancora per tutti. Esistono diversità e discriminazioni profonde. L’inclusione benché sancita dalla costituzione e da un apparato di norme non trova applicazione uniforme e le parole di Galli della loggia, come i recenti tagli del governo Meloni sulla disabilità, ci fanno capire che nuovi ostacoli si palesano all’orizzonte, perché si fa avanti un fronte che senza vergogna teorizza il ritorno ad una società classista, discriminatoria e razzista.

Altro che vergogna, il problema principale dei caregiver sono le competenze non riconosciute

Paolo Persichetti, Domani 26 giugno 2022

Sono caregiver di uno dei miei due figli, un bimbo di quasi 9 anni, ora tetraplegico a seguito di un arresto cardiaco arrivato alcune settimane dopo la nascita. Oggi Sirio è portatore di tracheostomia, si alimenta attraverso la peg, utilizza varie protesi per camminare e sentire, comunica con la Caa e la lingua dei segni, riesce persino a fonetizzare attraverso la tracheo frasi intere.
Va a scuola dove ha appena terminato la terza elementare. Adora guidare la sua macchinina elettrica e qualunque altro mezzo su ruote, sfreccia con un triciclo adattato, ama viaggiare, impara a memoria tutti gli itinerari che ripercorre sul tablet.
Ha bisogno di una assistenza costante, va aspirato, alimentato, vestito, medicato, accompagnato al bagno, chiede attenzione, affetto, vuole giocare, parlare, richiede un rapporto simbiotico.
In questi ultimi giorni un’accesa polemica si è sviluppata attorno al questionario diffuso dalla Regione Lazio per misurare lo stress dei caregiver.
Dopo la decisione del comune di Roma di ritirare il modulo e le precisazioni della Regione che nella sostanza ne hanno ridimensionato l’uso, su Domani Selvaggia Lucarelli ne ha sorprendentemente difeso le ragioni sulla base delle propria personale esperienza di caregiving geriatrico.

Vite intere di assitenza
L’aumento della speranza di vita nelle società occidentali ha accresciuto la popolazione anziana con uno sviluppo senza precedenti della medicina e dell’assistenza geriatrica.
Occorre tuttavia distinguere tra il caregiving geriatrico, che inevitabilmente occuperà alcuni anni della nostra vita, e la presa in cura di persone disabili ad alta intensità fin dall’età neonatale e pediatrica, o perché colpite da sindromi degenerative, o gravi incidenti anche in età adulta. In quest’ultimo caso parliamo di vite intere e lunghissimi tratti della propria esistenza interamente occupati dall’assistenza totalizzante della persona disabile.
Il questionario oggetto delle polemiche era rivolto proprio a questo secondo tipo di caregiver.
Sono tra quelli che ne hanno criticato i quesiti quando lo scorso mese di marzo il Comune di Roma me li ha inviati per posta elettronica attraverso i servizi sociali del municipio.
Le domande, tratte da un protocollo datato, appaiono scollate dalla società attuale, al punto da essere declinate unicamente al femminile come se non esistessero caregiver uomini.

La gabbia familiare
Il tentativo di acquisire una mappatura del livello di stress e usura dei caregiver potrebbe avere anche un intento lodevole ma arriva dopo anni di abbandono e riduzione delle prestazioni economiche erogate negli ultimi anni.
Nel questionario era possibile variare unicamente l’intensità di fatica e stress proposto (da 0 a quattro): le domande sono tutte incentrate nel chiuso della dimensione familiare come se l’universo della persona con disabilità e del suo caregiver si limitasse alle mura domestiche.
Nessuna attenzione viene posta sulle interazioni esterne e che buona logica porterebbe a ritenere uno degli amplificatori del disagio e dello stress che può esplodere nell’ambito familiare.
Nessuna domanda sulla qualità dei servizi forniti dalle Asl, le prestazioni, sulla presenza di incentivi alle autonomie, la presenza di terapie e ausili moderni, l’accesso scolastico e nel mondo del lavoro o nella vita sociale.

Competenze non vergogna
L’unico momento esterno alla famiglia indagato dal questionario viene posto in termini di «vergogna sociale» eventualmente provata dal caregiver per la persona di cui si occupa. La vergogna è una emozione sociale, cioè indotta nella persona dalla relazione con gli altri. C’è vergogna se si subisce uno stigma o non ci si sente all’altezza di parametri estetici e performativi socialmente percepiti come la normalità.
Un sentimento che trova sempre meno spazio in un’epoca dove anche i corpi non conformi rivendicano il loro pride, l’orgoglio di essere quello che sono. Ok Ci saremmo aspettati altre domande, una ricerca più pertinente degli ostacoli, delle difficoltà e dei limiti quotidiani che logorano la vita del caregiver oggi.
Per esempio: quante volte nell’ultimo anno il caregiver è riuscito ad andare al cinema, al teatro, ad un concerto o a un evento sportivo?
Se per andare in vacanza viene sospesa o si rischia di perdere l’assistenza infermieristica perché le ferie per la persona disabile e il caregiver non sono ritenute un diritto e nemmeno una cura.
Non si domanda se gli ausili forniti per facilitare la mobilità e le attività della persona disabile siano adeguati, quale sia il peso del carico burocratico, del ruolo di interfaccia continua con tutte le amministrazioni e servizi ospedalieri: gare d’appalto, a volte trimestrali, per forniture e ausili, file in Asl ogni mese per ritirare medicinali e nutrizione enterale, rendicontazione delle spese.
Oppure, per esempio, quante volte si è trovato occupato il posto disabili assegnato o è stata danneggiata la macchina perché quel parcheggio sotto l’abitazione viene percepito da alcuni come un privilegio.
Lo stress del caregiver, la sua fatica, dipendono anche da questi fattori. Il questionario proposto non tocca nessuno di questi punti, al contrario appare intriso di cultura moralista e colpevolizzante e mostra di guardare al caregiver come a un potenziale malato da sottoporre a tutela psicoclinica. Un approccio minorizzante che non vede in chi si prende cura di persone che necessitano un’assistenza continuativa ad alta intensità la presenza di professionalità e competenze acquisite nel tempo. Un valore aggiunto di cui si ignora la preziosità sociale. Un genitore caregiver è in grado di svolgere manovre salvavita e medicazioni, diluizioni di farmaci e gestione di parametri clinici. Siamo noi caregiver che formiamo gli infermieri forniti dalle cooperative, insegniamo loro le aspirazioni endotracheali, il cambio delle cannule tracheo, le medicazioni quotidiane, la sostituzione della peg. Siamo noi che interveniamo durante le emergenze notturne e diurne, apprendiamo nuove lingue e forme alternative di comunicazione. Tutto ciò non trova riconoscimento, resta un sapere opaco, il caregiver rimane un fantasma, al massimo un paziente da curare non una persona a cui si devono riconosce diritti, bisogni, retribuzione, tutele legislative e pensionistiche.


Il Caregiver e la vergogna degli altri

Continua la polemica innescata dal questionario della regione Lazio sui Caregiver. Sono tra quelli che ne hanno criticato il testo quando lo scorso mese di marzo il comune di Roma lo aveva inviato attraverso i servizi sociali dei municipi. Dopo l’articolo di Valentina sull’edizione romana di Repubblica (https://roma.repubblica.it/…/valentina_perniciaro…/) di venerdì scorso e la decisione del comune di ritirare il questionario e le precisazioni della Regione Lazio che in sostanza ne ridimensiona l’uso è intervenuta sulle pagine di “Domani” Selvaggia Lucarelli con un pezzo avventato che difende le ragioni del questionario attaccandone le critiche.
In realtà l’irrecivibilità dei quesiti nelle parti che riguardano lo «stress percepito» è più che fondata: si tratta di domande tratte da un vecchio protocollo datato e completamente scollato dalla società attuale, al punto da essere declinato la femminile, come se non esistessero caregiver maschi. Aspetto rivelatore degli schemi preconcetti di chi lo ha redatto e degli indicatori di riferimento ormai antidiluviani in un’epoca dove l’attenzione al linguaggio inclusivo ha assunto aspetti avvolte persino parossistici.
Le domande sono a risposta chiusa, varia solo l’intensità (da 0 a quattro), il che delinea un orizzonte già predefinito, le questioni sono tutte incentrate nel chiuso della dimensione familiare: non vi è nessuna attenzione alle problematiche che il caregiver vive all’esterno della famiglia, nella società e che buona logica porterebbe a vedere come uno degli amplificatori del disagio e dello stress che esplode nell’ambito familiare. Nessuna domanda sui servizi forniti dalle Asl, sull’eventuale assistenza domiciliare, sulle prestazioni, sull’accesso scolastico (se per esempio si è dovuto ricorrere alla consueta causa davanti al tribunale per ottenere le ore di sostegno previste) e nel mondo del lavoro o nella vita sociale. Perché se la persona con disabilità non può uscire di casa perché troppe sono le barriere architettoniche o quelle sociali è chiaro che la dimensione familiare diventa una forma di reclusione con tutto ciò che ne consegue per il disabile, il caregiver e la famiglia intera.
L’unico momento esterno alla famiglia proposto dal questionario è posto in termini di «vergogna sociale» eventualmente provata. La reazione indignata che questa domanda ha sollevato dovrebbe far riflettere su come, per fortuna, la società stia mutando e i disabili e i loro caregiver abbiano cominciato a liberarsi delle etichette stigmatizzanti e colpevolizzanti. La vergogna è una emozione sociale, cioè indotta nella persona dalla relazione con gli altri. C’è vergogna se si subisce uno stigma o non ci si sente all’altezza di parametri estetici e performativi socialmente percepiti come la normalità. Un sentimento che trova sempre meno spazio in un’epoca dove anche i corpi non conformi rivendicano il loro pride.
Il questionario proposto è un ferravecchio intriso di cultura moralista e colpevolizzante, che minorizza il caregiver e lo guarda come un potenziale malato clinicizzabile, per questo inaccettabile.

Ognuno ride a modo suo, storia di un bambino irriverente e sbilenco

«Mi chiamo Sirio e per parlare uso un tablet e i segni delle mani, per ascoltare due protesi acustiche, per respirare una tracheostomia, per mangiare una gastrostomia, per camminare una sedia a rotelle e due bei tutori colorati.
Mi chiamo Sirio, è questo il nome che non mi chiedete mai, che fate fatica a domandare, identico a quello di una stella.
Mi chiamo Sirio e quando lo pronuncio mi capisco solo io, perché la mia bocca aperta che osservate interdetti non mi fa parlare come vorrei, come parla la mia testa.
Però mi presento lo stesso e il mio nome lo dico indicandomi, mostrandovi che son qui, sono proprio questo bimbo buffo che avete davanti, così diverso da tutti quelli che avete sempre visto, così diverso da tutti quelli a cui sorridete e fate le vocine cretine.
Sono quello che guardate ammutoliti, quello che fa calare il silenzio quando passa, quello che vi fa un po’ impressione, un po’ senso, un po’ ribrezzo, e magari anche simpatia, chissà.
Sono quello a cui non sapete come dire le cose, non sapete se potete, non sapete se è il caso: e allora vengo a rompere il ghiaccio da solo, mi vengo a presentare senza badare al vostro stupore, tantomeno alla compassione, che ha smesso di scalfirmi. Vengo davanti a voi, con la mia irriverenza, a presentarmi ai vostri sguardi fatti di filo spinato, ai vostri sguardi confine, i vostri sguardi muro. Vengo a divertirmi con le vostre reazioni, a provocarvi, a vedere se siete capaci di capire che vi sto prendendo in giro, che in me e nel mio corpo sbilenco non c’è niente di drammatico, niente di serio o di abominevole, che la mia bava non può farvi nulla, è solo mia.
Non posso mica perturbarvi solo perché esisto, perché ho osato resistere alla morte e ho deciso di innamorarmi della vita e di voler attraversare il mondo, presentandovi la diversità e la mia voglia di divertirmi e ridere in faccia alla sfiga.
E allora eccomi qui, sono Sirio, il re sbilenco dei Tetrabondi, tetraplegico e vagabondo, bavoso e felice, che vuole riaprire le porte della città per far entrare tutti quelli lasciati fuori: il meraviglioso e storto esercito di corpi non adeguati e non conformi, di corpi esclusi, rinchiusi, declassati, innominabili, che vogliono raccontare tutto quello che non hanno potuto mai.
Eccomi qui ad aprire questa porta pesantissima per attraversare strade che sentite solo vostre e invece son di tutti, strade che sembrano essere state disegnate solo per voi e invece son dei corpi che volano leggeri, come di quelli che san solo strisciare.
Lasciate lontano la paura, lasciate lontano l’orrore della deformazione, della malattia, della disabilità, della pazzia, della diversità e venite a giocare con me, a parlare con me, a ballare.