Le periferie contro lo Stato

Recensione – Graziella Mascia, La Racaille. Le periferie contro lo Stato, Ediesse editore, pp. 149

Paolo Persichetti
Liberazione 31 ottobre 2010

 

Mascia 3Da dove ripartire dopo la crisi di consensi e d’idee, l’assenza di progettualità che ha ridotto la sinistra, ed in particolare quella comunista, ai minimi termini? E’ questa la domanda a cui cerca di dare risposta Graziella Mascia nel suo, La Racaille. Le periferie contro lo Stato, Ediesse editore. Il titolo del libro è fin troppo chiaro nell’indicare la pista da seguire: immergersi nella trama dei nuovi conflitti, anticipare le contraddizioni che si delineano all’orizzonte e richiedono un’innovazione dell’analisi sociale e una nuova capacità di creazione politica.
Le periferie delle grandi metropoli sono oggi uno dei luoghi, se non il luogo, dove si gioca una delle partite centrali della postmodernità. Che si tratti dei grandi centri urbani del Nord America o delle città euromediterranee, queste metropoli crescono e si modificano secondo un unico modello standard fatto d’innovazioni architettoniche e urbanistiche del tutto simili: grandi parcheggi, metrò, nuovi complessi residenziali, centri commerciali che accolgono schiere di boutique, multisale, luoghi di ristorazione, selfservice, stazioni di rifornimento e poi torri e lunghe barriere d’edilizia popolare. «Nonluoghi» come vengono definiti, il tutto raccolto in scenari ballardiani con spazi illuminati e videosorvegliati, pattugliati da polizie pubbliche e private. Dietro questo universo d’insegne pubblicitarie, vetrine scintillanti e viedeoclip si aggirano delle «ombre»: sono i giovani precari, i lavoratori al nero, i neoschiavi nascosti nelle cucine e nei sotterranei. «Ogni città si nutre delle sue “ombre”, le periferie o bidonville, e produce eccedente umano: gli ex umani ormai troppo usurati o che non hanno avuto la possibilità o non sono stati mai capaci di adattarsi o ancora, peggio, quelli che hanno osato rivoltarsi» (Salvatore Palidda). I sauvageons (piccoli selvaggi), come li aveva etichettati Jean-Pierre Chevènement, e più tardi racaille (feccia), come li ha definiti Nicolas Sarkozy. Sono loro i protagonisti della dettagliata analisi condotta da Graziella Mascia, ex dirigente nazionale del Prc ed oggi responsabile di Altramente, scuola di educazione civica e formazione politica indipendente, che dalla rivolta delle periferie francesi, dell’ottobre-novembre 2005, passa alla insurrezione della  «generazione 700 euro» del dicembre 2008 in Grecia. Nel mezzo c’è l’Italia con il muro di Padova, la Lega nord, “l’Onda” degli studenti e i fatti di Castelvolturno. Manca purtroppo la rivolta di Rosarno, ma solo perché il volume è stato consegnato prima alle stampe. Oltre ad essere il luogo dove l’immaginario politico investe le sue battaglie simboliche più importanti (tutte le ultime campagne elettorali francesi si sono giocate sul terreno delle banlieues), le periferie rappresentano uno dei laboratori più sofisticati di sperimentazione del controllo sociale da parte degli Stati: dalle nuove concezioni urbanistiche antisommossa riprese dalla tradizione hausmaniana, ai dispositivi polizieschi che evocano apertamente la figura del nemico interno emblema di quel «capitalismo sicuritario», come lo ha definito Mathieu Rigouste, che ricorre apertamente a strumenti tipici dello stato d’eccezione. E’ di queste ultime settimane l’ennesima torsione sicuritaria impressa da Sarkozy con ulteriori inasprimenti legislativi che colpiscono gli accusati di sommosse urbane.
Alla domanda che ha diviso studiosi e militanti, se le lunghe notti di fuochi, le diecimila vetture bruciate che nell’autunno 2005 hanno illuminato le periferie francesi, siano state una sommossa etnica o al contrario un conflitto mosso da ragioni sociali, Mascia risponde sposando le tesi di autori, come Loïc Wacquant o Emmanuel Todd, che confutano le interpretazioni «comunitariste» offrendo una lettura «mista» della rivolta. Alcuni dati parlano chiaro: «Nelle retate che fanno seguito ai moti del 2005, solo il 6% dei 400 ragazzi arrestati è di origine straniera», nonostante ciò «nell’immaginario collettivo, anche delle organizzazioni politiche della sinistra, la rivolta delle banlieues passa come la ribellione dei figli dell’immigrazione magrebina e africana, che vogliono uscire dal ghetto». Un deficit d’analisi che sconta il ritardo storico dei partiti della sinistra nel percepire queste nuove zone di frontiera come luoghi dove si intersecano e sovrappongono più conflitti e prendono forma nuove disuguaglianze.
Le periferie francesi non sono ghetti razziali, hanno un’altra conformazione dove vige una «selezione prioritariamente di classe», mentre nell’America del Nord prevale l’interclassismo e domina la delimitazione etnoraziale (Wacquant). La crisi delle periferie francesi, e il fallimento delle politiche d’integrazione anteposte al modello comunitarista di stampo anglosassone, sono strettamente legate alla decadenza dei progetti urbanistici cresciuti negli anni del periodo fordista. I quartieri di edilizia popolare, in particolare le cinture rosse dei grandi centri urbani, «erano divenuti luoghi di promozione sociale e culturale per i ceti popolari e i lavoratori migranti». Una serie di strutture comunali, sindacali e associative, collaterali ai partiti del movimento operaio, garantivano importanti percorsi d’integrazione e ascensione sociale. Tutto ciò è venuto meno con la controrivoluzione liberista, l’avvento del postfordismo, la crisi della «società salariale», il dilagare del precariato e della polverizzazione dei rapporti sociali. La crisi e il declassamento delle periferie hanno introdotto una frattura tra gli abitanti e fatto balenare nuove identità di sostituzione strumentalizzate dall’estrema destra. «Coloro che vent’anni prima avevano rivendicato una appartenenza di classe, oggi vantano di essere dalla parte dei francesi». La questione identitaria, dunque, come trappola, costruzione pubblica di un fenomeno che fa velo alla natura reale del problema e la cui soluzione non può essere affrontata sollevando unicamente il tema della solidarietà e dei diritti, dell’accoglienza o dei respingimenti. Perché la mescolanza possa prevalere occorre ­– è questa la tesi del libro ­–  una nuova critica dei rapporti di produzione capitalistici che ricomponga il frastagliato fronte della forza-lavoro e organizzi la «nuova popolazione proletaria nomade» contro il dumping dei salari.
Eppure il movimento degli Indigènes de la republique aveva individuato nella condizione di emarginazione postcoloniale, in una sorta di minorazione giuridica non scritta, di costituzione materiale della segregazione, la ragione della rivolta, dimenticando, a loro volta, la segregazione che passava questa volta per linee interne: protagonisti dei moti sono stati solo degli adolescenti maschi. Le sorelle non c’erano, non avevano diritto di esserci, come invece è accaduto ad Atene. «Nei quartieri – spiega Omeyya Seddik in una delle interviste finali del libro – ormai tutti assumono su di sé il discorso dell’attacco all’islam, anche i ragazzi che non sono mussulmani. E’ come se l’islam fosse diventato un elemento di classe». Siamo di fronte ad una identità indotta in assenza di altre proposte ma anche alla più totale afasia. L’intera rivolta del 2005 è avvenuta nel più assoluto silenzio, senza dichiarazioni, proclami, comunicati e rivendicazioni, tant’è che si è parlato anche di «rivolta prepolitica», a differenza di quanto è accaduto ad Atene. Un silenzio ostinato e una solitudine voluta che hanno impedito la saldatura con chi, in quelle stesse settimane, manifestava in piazza, bloccava scuole e università contro un modello di contratto di primo impiego, voluto dal governo, che deprezzava il lavoro giovanile.
C’è chi ha coniato in proposito la definizione di potere destituente che non cerca una riappropriazione dei luoghi ma solo un tentativo di sottrarli al controllo poliziesco-statale. Semplice disillusione di fronte all’inefficacia dei vecchi strumenti della politica? E’ questa la prima sfida per chi vuol tornare ad incidere sul terreno della trasformazione sociale. Convincere che la parola serve a rafforzare la propria autonomia, a costruire pensiero, progetti, alternative, per rompere la solitudine e costruire le alleanze mancate.

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Pantera, il movimento che cercò uno spazio tra cesura e cerniera con gli anni ’70

“C’era un’onda chiamata Pantera” di Carmelo Albanese, edizioni manifestolibri, descrive la trasformazione antropologica di quella stagione

Paolo Persichetti
Liberazione 13 giugno 2010

Pantera, dicasi «Movimento politico informale ascrivibile all’area antagonista di sinistra che a cavallo del 1990 animò proteste in ambito universitario in numerose città italiane. Mutuò il nome dall’omonimo felino che venne visto vagare imprendibile nelle campagne romane durante la primavera del 1990. La localizzazione principale delle attività fu a Roma dove, oltre alle manifestazioni, affissioni di manifesti, assemblee e occupazioni di locali e mense, verificatesi anche in numerose altre città italiane, si ebbero scontri tra studenti e polizia. Le proteste si appuntarono soprattutto sugli effetti dell’autonomia statutaria degli Atenei, prevista da una legge del 1989 e criticata come foriera di “privatizzazione” del sapere, sull’inadeguatezza delle strutture, sull’aumento delle tasse universitarie e su questioni tradizionalmente importanti nella vita degli studenti. Forti furono anche le connotazioni antimilitariste e di politica generale. Il movimento a Bologna ebbe vasto seguito e coinvolse anche gli studenti Medi. In questo capoluogo 26 persone furono indagate per danneggiamenti a proprietà dell’Università».
Questa definizione è contenuta in una nota, n° 3424/03-21, redatta nel febbraio 2004 dalla Digos di Bologna nel corso di un’indagine diretta dal sostituto procuratore Paolo Giovagnoli. Cosa c’entra la Pantera con un’inchiesta condotta a 14 anni di distanza? Assolutamente nulla. Ma forse, proprio per questo, c’entra molto se è vero che una delle domande più ricorrenti nei dibattiti che stanno accompagnando il suo ventennale pone il problema di “cosa è rimasto”?
Un grande rimosso, rispondono più o meno tutti al di là delle appartenenze, se ancora esistono, e delle differenze. Un rimosso, questo è il punto, che rischia di essere riempito solo dall’interesse retrospettivo delle Forze di polizia per le genealogie dei movimenti e le biografie di chi vi partecipò. Interesse malsano che contribuisce unicamente a quella riscrittura poliziesca della storia, oggi tanto in voga. Ma da dove nasce questo rimosso? Davide Vender, un passato nel “Rosa Luxemburg”, laboratorio politico interno all’università la Sapienza che precedette e accompagnò l’esperienza della Pantera nel momento in cui si realizava il passaggio da ciò che restava dell’Autonomia romana, erede degli anni 70, alla nascita della prima area Antagonista, esprime in proposito un giudizio lapidario. «Non è vero – dice – che il movimento della Pantera è stato rimosso. Molto più semplicemente non viene ricordato come gli altri movimenti che lo hanno preceduto perché non è riuscito a modificare di una virgola i rapporti di forza rispetto alla riforma Ruberti che apriva la strada alla privatizzazione della ricerca». Per «Davidino», che oggi gestisce a Roma la libreria Odradek dopo aver sbattuto la porta di Rifondazione ben prima dell’ultima scissione (era diventato il responsabile per l’organizzazione della federazione romana), «il movimento della Pantera ha prodotto dal punto di vista della forza lavoro due soggetti: uno dei peggiori ceti politici che la sinistra, cosiddetta radicale, abbia mai avuto e molti personaggi oggi in vista nella sfera della comunicazione che in quel movimento giocarono un ruolo da protagonisti». Una critica che assomiglia molto al rimprovero rivolto al ’68. «Ma l’onda lunga del 68-69 – replica ancora Davide – ha prodotto molte conquiste incidendo sui rapporti materiali del Paese: statuto lavoratori, divorzio, aborto…. La Pantera cosa ha fatto, se non addestrare un nuovo ceto politico?».
Che la Pantera sia stata l’inevitabile culla di un nuovo personale politico della sinistra lo sostiene, sia pur con accenti diversi, anche Ermanno Taviani, oggi docente di storia presso l’università di Catania ma all’epoca militante dell’ala movimentista della Fgci che molto s’investì in quella esperienza. «Tanti ci criticavano da sinistra accusandoci di essere teleguitati dal Pci e per questo di voler frenare il movimento. Non solo non era vero ma il bello è che molti di quelli che ci accusavano di essere istituzionali e riformisti sono poi finiti per diventare assessori o deputati». A differenza di Vender, Taviani legge in modo positivo questo processo d’«integrazione istituzionale» della sinistra radicale. Fenomeno che per lui rappresenta anche un motivo di rivalsa verso quei dirigenti del Pci, come Folena (anche lui finito più tardi tra i banchi parlamentari di Rifondazione), che più di una volta intimarono agli esponenti della Fgci di sciogliere l’occupazione e «rompere» con gli autonomi come se il contesto fosse ancora quello della cacciata di Lama nel 1977. Pagine di storia ancora aperte continuavano a chiedere il conto alle generazioni successive. L’atteggiamento di ostilità del Pci fu eloquente, infastidito come sempre da ogni protagonismo sociale che esprimeva la propria autonomia. Favorevoli in gran parte alla riforma Ruberti, i docenti del Pci – racconta ancora Taviani – si tennero tutti in disparte. Dopo un’iniziale quanto strumentale simpatia verso le prime occupazioni delle facoltà, che oggettivamente mettevano in difficoltà la maggioranza di governo del “CAF”, Craxi-Andreotti-Forlani, Botteghe oscure cambiò presto comportamento. Ma di nemici ce ne furono anche altri. Illuminante un retroscena rivelato sempre da Taviani, «ai margini di un’assemblea a Lettere si avvicinò un personaggio che si rivelò essere un probabile emissario del ministero degli Interni. “Noi abbiamo in comune gli stessi nemici”, mi disse, “dobbiamo collaborare. Aiutateci ad isolarli”. Il nostro rifiuto fu netto».
Il peso del passato, l’ipoteca repressiva che la macchina dell’emergenza antiterrorismo con le sue culture di sostegno riversava su ogni nuova forma d’azione collettiva, pesò non poco sulle spalle di quei giovani. La Pantera fu messa a dura prova da apparati di polizia e mezzi d’informazione (Repubblica in testa) che, ossessionati dal fantasma degli anni 70, volevano “uccidere il pulcino nell’uovo”. Quel movimento tentò di conquistare un proprio spazio tra novità e continuità, momento di cesura e al tempo stesso cerniera con gli anni 70. Diede il via ad una stagione di nuovi movimenti approdati alla fine del decennio nell’altermondialismo, al tempo stesso fu l’ultimo movimento sociale della sinistra non inquinato dal giustizialismo. Non mancò d’interrogarsi sul passato più recente convinto che «la memoria non è una colpa», come recitava un documento della facoltà di scienze politiche occupata (Il Circo e la Pantera, Loredana Colace e Susanna Ripamonti, Led 1990, pagina 38). Eppure la Pantera non fu solo politica assoluta. Come ogni ciclo d’azione collettiva sperimentò nuove culture ed espressioni artistiche, lo racconta molto bene il libro di Carmelo Albanese, C’era un’onda chiamata Pantera, con allegato Dvd, edizioni manifestolibri. Albanese sostiene l’importanza antropologica prima ancora che politica dei movimenti, emerge così una descrizione corale, anche se circoscritta all’esperienza romana e nonostante tutto priva ancora di molte voci (femminili, ma non solo) che rende tuttavia la ricchezza di quei giorni. Si fusero insieme anime diverse, moderate e radicali, giovani alla loro prima esperienza e militanti esperti, culture della strada, hip hop, rappers, breakers e writers, Onda rossa posse, 00199, musicisti russi e francesi, tra cui un giovanissimo MC Solar. Non è vero che il movimento fu violento. Solo alcune aggressioni poliziesche macchiarono tre mesi di mobilitazione che al suo apice raggiunse le 150 facoltà occupate in tutta Italia. Migliaia di concerti, performances, manifestazioni teatrali, cortei circensi e assemblee segnarono il risveglio di una nuova generazione dopo il torpore legalitario degli anni 80. Fu una palestra per chi cercava di uscire dal decennio dell’ideologia della fine delle ideologie, anche se le identità restavano fragili e facili a smarrirsi, colmate spesso da un’ossessione procedurale e un sorprendente approccio burocratico che generò una superfetazione di “commissioni”, con le quali gli occupanti pensavano di difendere la propria autonomia. Una formula trinitaria risolveva la babele dei “chi siamo”: «democratici, non violenti e antifascisti». Nonostante la difesa dell’università pubblica e di massa contro l’ingresso dei capitali privati e la forte critica della società commerciale modellata dalle tv berlusconiane, ci vorrà Seattle, nel 1999, per dirsi pienamente antiliberisti e forse un po’ anticapitalisti. Venti anni dopo si può dire che l’intuito più importante fu l’incontro con i migranti che cominciavano a popolare le città, avviato a Roma con i volantinaggi nel piazzale antistante la stazione Termini e la scoperta di uomini con valigie piene di storie che parlavano più lingue di un qualsiasi studente, continuata con gli inviti serali alle iniziative nelle facoltà occupate, le feste e le cene di solidarietà, e approdata nella lotta della Pantanella, un ex-pastificio non lontano dall’università divenuto il riparo di migliaia di migranti e luogo simbolo della lotta per i loro diritti. Nel libro di Albanese brillano i ricordi delicati di chi se n’è andato prima del tempo: i sorrisi di Paoletta, la Cheecky P. degli 00199, gli occhi di Silvia Bernardini, struggente bellezza dai capelli rossi, la passione di Antonio Russo, ucciso in Cecenia. Manca il nome di Bianca, tanto piccola quanto onnipresente.

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I seminari sugli anni 70 della Pantera, “La memoria non è una colpa”

I seminari sugli anni 70 della Pantera: “La memoria non è una colpa”

Estratti da Il circo e la Pantera. I mass-media sulle orme del Movimento degli studenti, Loredana Colace, Susanna Ripamonti, edizioni led 1990


Il contesto

Durante la conferenza stampa del 30 gennaio, indetta dagli studenti nei locali occupati dell’università “La Sapienza” di Roma, per rispondere alle dichiarazioni del ministro Gava, viene distribuito ai giornali un programma delle attività della facoltà occupata di Scienze politiche. Tra gli appuntamenti previsti c’è il primo di una serie di seminari-dibattito su “Vecchi e nuovi movimenti”. Il tema di questo primo incontro, slittato dal 2 al 6 febbraio, è anticipato da un comunicato degli studenti inviato alle redazioni:

«Il ciclo di incontri nasce dall’esigenza di creare un momento di riflessione per favorire una discussione plurale e multiforme sulle nuove possibilità di identità a sinistra, che non nasca come rimozione acritica e passiva della nostra storia, ma come momento di superamento positivo e ragionato. Nessuna evocazione di memoria meramente reducista né apologetica, bensì ritrovare con la storia un rapporto e una relazione che non sia di pura testimonianza».

Nel calendario allegato si forniscono informazioni sull’intero ciclo di seminari, previsti in forma itinerante tra le diverse facoltà occupate. Il primo appuntamento è dedicato al biennio ’68-69, relatori: Rina Gagliardi, giornalista del manifesto, Raul Mordenti ricercatore della “Sapienza”, Edoardo Di Giovanni della Commissione giustizia del Pci.

L’avvenimento
Tra gli studenti che affollano l’aula più grande della facolta di Scienze politiche, seguono il primo dibattito dibattito anche diversi giornalisti, tra loro ci sono due redattori di Repubblica (Riccardo Luna e Luca Villoresi], uno dell’Unità, uno del manifesto e uno dell’Ansa); «il tono che lo caratterizza – racconta Loredana Colace nel suo volumetto – è per lo più didascalico, quasi accademico, a tratti addirittura un po’ noioso. Rina Gagliardi parla a lungo dei movimenti formatisi dal ’68 e della loro cultura politica, come anche Mordenti, che si sofferma in particolare sul movimento degli studenti e sulla mancanza di una sua storia. Di Giovanni, ultimo tra i relatori, racconta le vicende delle stragi, in particolare quella di piazza Fontana. Successivamente intervengono Enzo Modugno, un ex leader del ’68, che propone alcune ipotesi sul nuovo rapporto tra lavoro intelletttuale e sviluppo tecnologico e Paolo Virno, un collaboratore del manifesto, già di Potere operaio (coinvolto nell’inchiesta 7 aprile-Metropoli e assolto dopo 5 anni di detenzione preventiva), che analizza gli anni ’80 e il riflusso dei movimenti. Sembrerebbe quasi di assistere ad uno di quei seminari a cui ogni militante o simpatizzante della sinistra ha qualche volta partecipato, e che gli studenti seguono con qualche applauso più rituale che realmente partecipato.

L’episodio
Quasi al termine, interviene tra gli altri Eugenio Ghignoni, ex brigatista, “irriducibile”, condannato all’ergastolo per concorso morale nell’omicidio del commissario Sebastiano Vinci, attualmente in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva [poi assolto nel processo d’appello. Assoluzione confermata dal verdetto finale della Cassazione]. Presente tra il pubblico insieme ad altri “ex detenuti politici”, Ghignoni interviene dopo che uno studente ha chiesto chiarimenti sui diversi metodi di lotta all’interno della nuova sinistra; parla per circa un quarto d’ora dopo aver ringraziato gli studenti per esser stato invitato a partecipare. Dichiara il proprio stato e cerca di dar conto della propria esperienza: nelle sue parole non ci sono né pentimento né apologia, c’è il rifiuto di considerare la propria vicenda frutto di “pazzia, squadrismo o dell’irruzione dell’irrazionalità nella storia”. La sua convinzione è quella, del resto più volte espressa da diversi protagonisti della lotta armata e del terrorismo e dai loro analisti, di aver “travalicato” da una pratica di violenza di massa largamente diffusa nella sinistra extraparlamentare e di essere approdati all’eversione. Per Ghignoni il problema che si pone è capire perché questo sia stato possibile, con una riflessione serena su quello che è successo. “Perciò – dice – se sapremo interrogare in questo modo la storia reale allora la memoria potrà non pesare come ricatto nei confronti dei movimenti e quella memoria servirà a dare un contributo all’arricchimento, alla comprensione di questo movimento”. Al termine applausi dei pochi rimasti, senza particolare calore come i precedenti, e una replica della Gagliardi contro la “lettura continuista” di Ghignoni.

L’informazione dei media
Repubblica
del 7 febbraio titola in prima, «Nell’università occupata l’ex-brigatista fa lezione sul ’68». In pagina interna, «L’ex Br al Movimento: Grazie a voi gli anni ’80 sono proprio finiti», in occhiello, «Roma, seminario di Ghignoni condannato nel Moro-ter». L’intero articolo è riservato con toni feroci  alle parole dell’ex detenuto politico.
L’Unità titola in ottava pagina, «I ragazzi del ’90 incontrano il ’68» e riporta solo un passo dell’intervento dell’ex brigatista, «Ripensati solo per essere cancellati, bollati dell’infamia di essere stati la culla del terrorismo e di esserlo inevitabilmente, i movimenti sono destinati al silenzio? Un rischio già corso e verificato».
il manifesto in cultura apre in questo modo, «Un seminario sulla storia dei movimenti nell’Università occupata di Roma. All’intervento di Ghignoni vengono riservate solo 4 righe».

Il giorno successivo sempre Repubblica su 5 colonne rincara la dose, «Torna l’ombra del terrorismo», per il Giornale, «C’era odore di sangue alla lezione di Ghignoni», «Scandalo per i Br in cattedra». Il Messaggero, «La lezione del Br all’università: allarme e sdegno. Su invito del movimento ha parlato a Roma di ’68 e di terrorismo», «Conferenza infame», altro titolo. Per il Corriere della sera, «E’ troppo, un ex terrorista oratore nell’ateneo occupato», «La Pantera nella trappola del terrorismo», «La notte della Repubblica», «Pantera si, Br no»….

La risposta degli occupanti
“La memoria non è una colpa”
In un lungo documento del 9 febbraio (La memoria non è una colpa), gli studenti di Scienze politiche cercano di mettere la parola fine alle polemiche, all’impostazione parziale e faziosa del dibattito. Ne riportiamo a conclusione alcuni brani:

E’ a partire da questo semplice assunto [il riferimento è al titolo] che abbiamo deciso di avviare un ciclo di seminari autogestiti sui “vecchi e nuovi movimenti” per indagare le relazioni, se mai esistono, tra la Pantera e gli eventi degli anni ’60-70 e ’80 […]. Tutto ha inizio […] dalle dichiarazioni di Gava […], non bastava la solita smentita alle accuse preordinate che ad ogni segno di conflitto e dissenso vengono lanciate con volgare aggressività. La nostra voleva essere una “sfida culturale” […] alta, un grosso segno di maturità da parte di un movimento giovane che da solo con i propri strumenti vuole conoscere la storia delle generazioni che lo hanno preceduto. Pensiamo che conoscere ed indagare non sia un reato […]. Volevamo conoscere il passato ascoltando la voce diretta dei protagonisti, attraverso una ricostruzione plurale […] visto che tra gli obiettivi della nostra lotta rivendichiamo una cultura critica […]. Si è per anni sospesa la storia, rimossa la memoria ed oggi viene criminalizzata la possibilità di dialogo […] bisogna riconoscere che il vero problema risiede nella compressione degli spazi di libertà e democrazia sostanziale.

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Pantera, il movimento che cercò uno spazio tra cesura e cerniera con gli anni 70