«La produzione è ovunque, anche le rivolte urbane»

Intervista – Parla Alain Bertho, docente di antropologia all’Institut d’Etudes Européennes e direttore della scuola di dottorato in Scienze sociali all’Università di Paris 8 a Saint Denis. Uno dei più attenti studiosi delle periferie francesi e delle nuove forme assunte dal conflitto sociale

Guido Caldiron
Liberazione 31 ottobre 2010


Autore di una decina di saggi che spaziano dal controllo sociale nelle aree urbane ai nuovi movimenti giovanili, fino alla guerra, Alain Bertho ha pubblicato lo scorso anno presso le Editions Bayard (pp. 272, euro 19) Le temps des émeutes, un volume che presenta quella odierna come l'”era delle rivolte”, mettendo in parallelo quanto accaduto negli ultimi decenni in Europa, dalla Genova del 2001 all’Atene di quest’anno, con fenomeni simili che si sono prodotti un po’ ovunque nel mondo: dal Tibet alla Cina, passando per l’America Latina e l’Iran. La tesi di Bertho è infatti che, al di là delle modalità e dalle forme assunte dalle rivolte scoppiate in tutto il mondo negli ultimi trent’anni, questi fenomeni ci parlino di una stessa realtà: quella costruita dalla globalizzazione economica e dalla rivoluzione produttiva postfordista che hanno trasformato l’intero spazio urbano in una immensa area produttiva e, per questa via, anche nel “luogo” del conflitto. Il libro rappresenta in realtà solo una prima fotografia di questi fenomeni che Bertho continua a monitorare attraverso il suo blog, berthoalain.wordpress.com e a cui ha dedicato un documentario, realizzato insieme al regista Samuel Luret, Les raisons de la colère, che sarà trasmesso martedi 9 novembre alle 23.30 da Arte, canale disponibile attraverso il satellite anche nel nostro paese, nell’ambito della serata tematica “Le rivolte urbane al di là dei pregiudizi” che propone anche alle 22.35, a cinque anni dalla rivolta delle banlieue francesi del novembre del 2005, La tentation de l’émeute, un’inchiesta condotta tra gli abitanti di Villiers sur Marne, alle porte di Parigi.

Professor Bertho, perché a suo giudizio siamo entrati nel “tempo della rivolta” e che cosa vuol dire esattamente questa definizione scelta come titolo per il suo ultimo lavoro?
Il titolo del mio libro, “Le temps des émeutes” fa riferimento al fatto che viviamo in un’epoca contrassegnata un po’ ovunque nel mondo dalla “rivolta”. Nel mio blog dò conto di queste rivolte, tra loro anche molto diverse, il cui numero non ha mai smesso di crescere negli ultimi anni un po’ in tutte le parti del mondo. Si tratta perciò di un fenomeno non occasionale ma che, al contrario, “segna” in modo netto l’epoca in cui viviamo. Si tratta di rivolte che hanno per questo periodo il senso che poteva aver avuto nell’Ottocento la Comune di Parigi o nel Novecento la Rivoluzione bolscevica o il Sessantotto. A differenza del passato, le rivolte di oggi si caratterizzano però per alcune particolarità. La prima è rappresentata dal fatto che non stiamo parlando di un unico movimento, ma di fenomeni tra loro molto diversi che sono accumulabili solo per il fatto che si manifestano attraverso la rivolta. La rabbia che genera questi émeutes ha infatti origini molto diverse e perciò risulta impossibile accumunare e leggere allo stesso modo i diversi fenomeni sociali di cui ci parla. Da questa condizione deriva una sorta di “invisibilità”, si parla ogni volta di quello che accade in questo o quell’angolo del mondo, mai di un qualcosa di complessivo e stabile. L’altra particolarità rispetto al passato è proprio il fatto che queste rivolte sono destinate a durare nel tempo, non si esauriscono in un periodo limitato ma finiscono per caratterizzare stabilmente la vita di una determinata società. Il paradosso è che in realtà, al di là delle differenze apparenti, queste rivolte si esprimono con un vocabolario simbolico tra loro molti simile e dicono, spesso nello stesso modo, delle cose chiare al potere. Se prendete delle foto delle ultime rivolte che ci sono state sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, in Cina, Bangladesh, Venezuela, Spagna, Turchia o ad Atene, vi troverete di fronte agli stessi visi mascherati, le stesse paure, la stessa rabbia e lo stesso fuoco. Si tratta, di fronte ai processi di globalizzazione che caratterizzano l’intero pianeta, di una sorta di messa in discussione complessiva dello spazio della rappresentanza politica: uno spazio che è la rivolta stessa a voler occupare.

Lei dice che queste rivolte hanno un evidente carattere politico, eppure da tempo il dibattito nella sinistra francese, in particolare sugli émeutes che si verificano nelle banlieue, si caratterizza per negare la natura “politica” di questi fenomeni, derubricati a questioni di ordine pubblico. Come stanno le cose?
Il punto da cui partire per rispondere a questo tipo di analisi riguarda la natura stessa di queste rivolte. Si tratta di chiarire come non sia assolutamente vero che gli émeutes non dicono nulla, che siano degli atti di violenza o di vandalismo fine a se stessi. Le rivolte nelle banlieue “dicono” molte cose e soprattutto se i giovani che vi partecipano arrivano a doversi ribellare con queste modalità, significa che non trovano alcun altro modo possibile per “prendere la parola” nella società in cui vivono. Per questo credo che la prima cosa di cui ci parlano queste rivolte sia proprio la crisi dello spazio della rapresentanza politica così come si è andato definendo per tutto il XIX e il XX secolo. La cultura politica della sinistra che si è formata negli scorsi secoli proprio attraverso le rivolte e la volontà di cambiare la società, si è progressivamente trasformata nell’idea che per cambiare la società si dovesse prendere il potere, che si trattasse di farlo con la rivoluzione o attraverso le elezioni poco importa. Vale a dire che è attraverso lo Stato che si pensava di cambiare il mondo e la vita delle persone. Il risultato è che oggi la politica si gioca per molti aspetti tutta all’interno dello Stato, nella conquista di una maggioranza o di una quota elettorale, in quella che per molti giovani delle classi popolari appare come una sorta di bolla separata e lontana dal resto della società. Come se esistessero due lingue; da un lato quella dello Stato e della politica, dall’altro quella società. 

La gran parte di queste rivolte hanno luogo nello spazio urbano e, per questa via, sembrano dirci molto di come la globalizzazione ha cambiato l’idea stessa di città.

A partire da quanto accaduto negli ultimi trent’anni nelle banlieue francesi, come possiamo leggere quello che gli émeutes ci dicono di questa trasformazione?
Credo che prima di tutto ci stiano dicendo che lo scontro di classe ha ormai superato i muri delle fabbriche e si è sparso sull’intero territorio. Oggi nelle grandi metropoli globali del mondo non è nelle fabbriche che si produce la ricchezza, bensì nella città stessa, interamente “messa a produrre” attraverso ogni genere di rete sociale, comprese quelle legate agli affetti e all’inventività dei singoli. Perciò il conflitto, come le forme assunte dalla produzione, attraversano l’intero spazio urbano e non restano più limitate alle mura della fabbrica. Non solo, lo spazio urbano è diventato lo scenario di uno scontro di proporzioni globali, nel senso che a tirare le fila dell’economia non è più il singolo “padrone” locale, ma gruppi internazionali che più che sulla produzione in senso stretto si arricchiscono attraverso la rendita e la finanziarizzazione di tutti i processi, ciò che la crisi delle borse degli ultimi anniha evidenziato in maniera drammatica. Anche per questo il conflitto sociale sembra faticare ad esprimersi nelle forme tradizionali e finisce per cercare nella rivolta la propria forma di comunicazione verso l’esterno: non un’azione “di lotta” in un singolo spazio, ma una messa “in scena” dell’insurrezione completa dell’intera città. Come diceva una giovane di Saint Denis durante una recente manifestazione: «Oggi siamo noi stessi ad essere diventati “la merce”, è sulle nostre vite che si crea il profitto, e perciò non possiamo che ribellarci occupando le strade, riprendendoci, per quanto possibile, la città».

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Dietro l’attacco ai «troppi diritti», portato dal presidente francese, c’è l’intensione di smantellare l’assistenza medica universale

Paolo Persichetti
Liberazione 31 luglio 2010


«La nazionalità francese deve poter essere ritirata a tutte le persone di origine straniera che hanno volontariamente attentato alla vita di un poliziotto o di chiunque altro rappresenti l’autorità pubblica». E’ la proposta choc lanciata ieri da Nicolas Sarkozy durante la cerimonia d’insediamento del nuovo prefetto dell’Isère, incaricato di riportare l’ordine dopo le settimane di violenze urbane che hanno contrapposto giovani della banlieue di Grenoble alle forze dell’ordine. «Non dobbiamo esitare a rivedere le condizioni per ottenere il diritto ad acquisire la cittadinanza francese», ha dichiarato ancora il presidente francese, spiegando che bisogna «avere il coraggio di togliere la nazionalità a quelle persone nate all’estero che abbiano intenzionalmente cercato di uccidere un agente di polizia, un gendarme o qualunque altro rappresentante dell’autorità pubblica». L’inquilino dell’Eliseo ha poi ulteriormente rincarato la dose con un’altra proposta: per i minori nati in Francia da genitori stranieri una volta raggiunti i 18 anni di età l’acquisizione della nazionalità non deve essere più un diritto, qualora questi commettano dei crimini.
Accompagnato dalla ministra della Giustizia Alliot-Marie e dal responsabile dell’Interno Hortefeux (condannato pochi mesi fa per aver pronunciato frasi razziste contro un militante d’origine araba del suo stesso partito), Sarkozy ha nuovamente sfoderato la retorica sicuritaria. Nomadi e giovani delle periferie sono diventati così i capri espiatori dopo lo scandalo suscitato dall’inchiesta giudiziaria sui finanziamenti illegali che il candidato presidenziale avrebbe ricevuto durante la campagna elettorale dalla vedova Bettencourt, la ricca ereditiera della L’Oréal nota per le sue simpatie fasciste. Per risalire la china Sarkozy sta ripescando tutti gli argomenti contro la delinquenza che gli erano valsi la vittoria nelle presidenziali del 2007. Discorsi muscolari e annunci roboanti per invocare il pugno di ferro contro le periferie, gli stranieri, le popolazioni nomadi. La questione sociale, l’irrisolto disagio delle periferie, la disoccupazione (per gli stranieri non comunitari siamo ad un tasso del 24%, cioè il doppio della media nazionale), il fallimento dell’integrazione, l’esplosione degli identarismi comunitari, si riassumono in un’unica dimensione criminale, un fatto d’ordine pubblico, un problema che chiama in causa solo l’intervento delle forze di polizia. Non a caso a riportare l’ordine a La Villeneuve, quartiere sensibile della periferia di Grenoble teatro di una sommossa, è stato chiamato il prefetto Eric Le Douaron, una lunga carriera nella polizia fino a divenire nel 1999 direttore generale della pubblica sicurezza. Sotto la sua gestione entrò in funzione la nuova figura del “poliziotto di quartiere”. Il presidente ha infine concluso il suo discorso attaccando i «troppi diritti» conferiti alle persone straniere in situazione irregolare, auspicando la revisione delle prestazioni a cui hanno accesso. In poche parole Sarkozy mira a smantellare l’assistenza medica universale e magari, perché no, anche le mense per poveri.

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La morte di un giovane dopo un inseguimento con la polizia scatena la rivolta

Paolo Persichetti
Liberazione 18 luglio 2010


Quest’anno non verranno comunicate cifre sul numero delle vetture bruciate nella notte tra il 13 e il 14 luglio». Brice Hortefeux, il muscolare ministro dell’Interno francese, aveva dato mercoledì scorso precise consegne alle prefetture affinché non diffondessero più il numero delle macchine bruciate in ogni dipartimento il giorno della festa nazionale. «Occorre mettere fine – aveva spiegato il titolare dell’ordine pubblico – alla malsana tradizione che consiste nel valorizzare ogni anno e sempre nello stesso momento degli atti criminali». Secondo i servizi di polizia – ma anche ad avviso degli studiosi delle banlieues – il 14 luglio e il 31 gennaio sono date utilizzate dai giovani delle periferie per «farsi vedere» e dare vita ad una competizione con le altre banlieues della Francia intera. D’ora in poi – aggiungeva la nota del ministero – verrà diffuso solo un bilancio annuale delle vetture bruciate. Nel 2009 i veicoli incendiati erano stati circa 500. Quest’anno invece, secondo le parole del ministro, tutto si sarebbe svolto «senza incidenti maggiori da segnalare», fatta eccezione per le «392 persone fermate e la 306 deferite per direttissima davanti alla giustizia». Molte di più delle 190 dello scorso anno, il che mostra come il silenzio non sia servito un granché. Come accade da un quindicennio a questa parte l’anniversario della presa della Bastiglia è stato illuminato da una notte di fuochi. Tuttavia la cappa del silenzio è saltata quando nella notte tra giovedì e venerdì nel popolare quartiere di La Villeneuve, a Grenoble, si è scatenata una vera e propria guerriglia urbana. «Sembrava Beirut. Lo giuro, sembrava Beirut», ha raccontato un abitante testimone degli scontri tra giovani e forze di polizia in assetto antisommossa. Macchine del commissariato correvano all’impazzata a sirene spiegate mentre sulle torri degli Hlm, le case popolari, il cielo era squarciato dal faro di un elicottero che riprendeva con una telecamera infrarossi gli assembramenti di giovani a torso nudo e magliette sul capo per non farsi riconoscere. All’origine degli scontri la rabbia per la morte di un giovane del quartiere, Karim Boudouda, 27 anni, con alle spalle diverse rapine, ucciso la sera precedente alla fine di un inseguimento con le forze di polizia che l’avevano intercettato all’uscita di un Casinò appena svaligiato. Gli abitanti del quartiere hanno reagito in massa alla morte del ragazzo dopo lo scontro a fuoco con gli inseguitori. Molti hanno denunciato indignati le modalità dell’episodio. «L’hanno lasciato crepare sull’asfalto. I soccorsi non l’hanno rianimato», gridava uno di loro. La sommossa sarebbe scoppiata dopo la preghiera recitata da un imam in ricordo del defunto in un parco del quartiere davanti ad una cinquantina di giovani. Armati di mazze di baseball e barre di ferro i presenti hanno cominciato a distruggere tutto ciò che incontravano al loro passaggio: pensiline, tram, vetrine. Tra le 50 e le 60 automobili, molte delle quali si trovavano in una concessionaria, sarebbero state bruciate, insieme a due negozi, mentre la polizia soffocava il quartiere di gas lacrimogeni e sparava pallottole di gomma. Secondo fonti del commissariato verso le 2 e 30 della notte dalle fila dei rivoltosi un uomo avrebbe esploso diversi colpi di pistola. Per almeno quattro volte la polizia ha dichiarato di avere «risposto al fuoco con pallottole vere». Due giovani, uno di 17 l’altro di 18 anni, sono stati fermati. Come accade nei campi di battaglia la calma è tornata alle prime luci dell’alba. Scortato dai corpi speciali della polizia Hortefeux ha visitato sabato mattina i luoghi della rivolta. «E’ impressionante», si è limitato a dire, poi è corso via. La notte torna presto in certi posti.

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Rivolta delle banlieues: Parigi torna a bruciare

Spari, molotov e pietre contro la polizia, dopo la morte di un giovane della banlieue

Paolo Persichetti
Liberazione
17 Marzo 2009

Da un po’ di tempo la scena è sempre la stessa. Siamo in una banlieue, in questo caso francese ma potrebbe essere ovunque, tanto il teatro metropolitano comincia a essere identico. Una di quelle periferie sterminate che popolano le cinture urbane. Un paesaggio che alterna grandi assi di circolazione, tangenziali, autostrade, anelli di raccordo, zone industriali ricoperte da grandi capannoni. Nel mezzo aree residenziali, villini a schiera, alternate da piccoli lotti che si perdono a vista d’occhio e poi a macchia di leopardo enormi barre di cemento a delimitare l’orizzonte. Alveari umani. Quartieri ghetto. La sera è l’illuminazione pubblica che offre la migliore mappatura dei luoghi: brillanti di luce dove spuntano enormi centri commerciali, punti di ritrovo costruiti attorno ai tempi della postmodernità che accolgono il sacro rito del consumo. Enormi distese metropolitane abitate da pendolari, deserte dal lunedì al venerdì, animate nei pomeriggi del week end.
Accade così che all’imbrunire di un sabato, in uno dei tanti parcheggi che sorgono sotto le torri, bruci una macchina. Il fumo arriva alle finestre circostanti e l’odore acre dei pneumatici allerta i vicini che chiamano i numeri d’emergenza. Arrivano pompieri e polizia ma subito una fitta sassaiola li accoglie. Vola di tutto, sassi, pezzi di cemento, vecchie suppellettili. C’è chi usa fionde. Il commissariato invia rinforzi, ma non bastano. La notte diventa calda, giungono le compagnie antisommossa, il quartiere è accerchiato e asfissiato con i gas, proiettili in caucciù vengono esplosi con i flash ball, mentre gli uomini della Bac, la377d133 brigata speciale anticriminalità, costituita da poliziotti volontari dai modi estremamente violenti (spesso personale aderente ai sindacati di polizia d’estrema destra), odiati dai giovani, guidano il rastrellamento, scendono negli scantinati, entrano nelle hall delle torri, salgono sulle terrazze. Questo film si ripete quasi ogni fine settimana, per protrarsi a volte alcuni giorni finché la febbre scema per trasferirsi nella «cité» accanto.
È successo anche sabato 14 marzo, nel quartiere della Vigne-Blanche, a Mureaux, nel dipartimento delle Yvelines, area metropolitana a nord-ovest di Parigi, al culmine di una settimana di tensione iniziata il mercoledì precedente con il lancio di pietre contro le vetture della polizia, proseguita nei giorni successivi fino all’imboscata, da manuale di guerriglia metropolitana, attuato nella serata di sabato. Intorno alle 20 è arrivata la consueta chiamata ai pompieri. Per attirare la polizia era stata incendiata un’automobile. L’arrivo della forza pubblica è stato accolto dalla solita sassaiola, quindi nel quartiere è caduto il buio (sabotata la centralina elettrica). Nella confusione che è seguita diversi colpi di fucile a pompa hanno attinto almeno 24 poliziotti, dieci di loro sono rimasti feriti alle gambe da pallini di piccolo calibro. Un individuo è stato visto sparare da una scarpata. Bilancio della serata: oltre 30 bottiglie molotov ritrovate, 8 giovani fermati.
Ad originare gli incidenti sembra essere stata la reazione per la morte di un abitante del quartiere, un «mediatore municipale» (una delle figure che fanno da intermediari sociali tra giovani e amministrazione comunale). L’uomo era stato ucciso l’8 marzo da un membro della Bac che avrebbe sparato, secondo la versione ufficiale, «in situazione di legittima difesa» alla fine di un inseguimento automobilistico. Ma la vittima non era armata. Subito dopo, scontri con colpi d’arma da fuoco si erano avuti nello stesso quartiere. Questi incidenti hanno suscitato grosso allarme nei servizi di polizia. Uno dei responsabili della sotto-direzione dell’informazione generale, l’attuale Sdig (ex Renseignements généraux), sezione dei servizi preposta, tra l’altro, al monitoraggio delle violenze urbane, ha spiegato che ormai «un tabù è venuto meno. Sempre più frequente è l’uso delle armi nelle tensioni che esplodono in banlieue».
Il 2 febbraio, nel quartiere della Grande Borne a Grigny, 4 agenti di polizia erano stati feriti da tiri con cartucce caricate a piombini. Episodi analoghi si sono svolti nel marzo 2007 nella banlieue sud di Parigi. Furono esplosi almeno 20 colpi di carabina calibro 22 con binocolo di precisione. Tiri che ferirono un funzionario. E poi ancora a Alnauy-sous-Bois (zona est della capitale francese) vennero rinvenuti degli ordigni esplosivi di fattura artigianale. Anche durante la lunga rivolta del novembre 2005 furo esplosi colpi d’arma da fuoco in diversi quartieri della cinta periferica parigina. Più recentemente armi da fuoco sono state impiegate durante la mobilitazione sociale di febbraio-marzo in Guadalupa, banlieueMartinica e nell’isola della Réunion. Scene di guerra. E, in effetti, ormai di una vera e propria guerra sociale si tratta.
Secondo i Servizi queste violenze sarebbero una risposta indiretta ai colpi portati contro il traffico di stupefacenti che tiene in piedi l’economia illegale controllata dalle numerose bande sorte nelle periferie. Ma la realtà è più complessa: le bande spiegano l’abilità organizzativa, l’uso delle armi, il controllo del territorio, ma attirarsi addosso la polizia non è economicamente redditizio. C’è dell’altro. Questi scontri scaturiscono sempre da incidenti nei quali hanno trovato la morte dei giovani. Episodi che cristallizzano il sentimento d’ingiustizia e scatenano la rivolta nel vuoto della politica. Non a caso i dispositivi messi in piedi dal governo evocano apertamente la figura del nemico interno. Dispiegamento di tutte le ultime tecnologie antisommossa (elicotteri e droni), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa e creazione d’istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato». Un vero stato d’eccezione.

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Banlieues: La guerra sognata da Sarkozy

La strategia del Presidente ha puntato tutto sulla repressione
Le conseguenze si vedono oggi. La periferia eterna emergenza

di Guido Caldiron
Liberazione
17 marzo 2009

Quando è iniziata la guerra che brucia in queste notti la periferia parigina? E perché a quattro anni dalla più grande rivolta delle banlieue che la Francia ricordi, quella scoppiata nell’inverno del 2005 a Clichy sous Bois, sono tornate le molotov e gli scontri con le forze dell’ordine, stavolta nel quartiere della Vigne-Blanche ai Mureaux, periferia ovest della regione parigina? I primi commenti a quanto accaduto si concentrano sul livello della violenza che ha caratterizzato il weekend della periferia di Parigi: un uomo ha sparato contro gli agenti con un fucile a aria compressa caricato con pallini di piombo da dodici millimetri. Il giorno dopo un commissariato di un quartiere vicino, Montgeron, è stato attaccato a colpi di fucile. In tutto la polizia ha sequestrato oltre trenta molotov e si contano una decina di agenti feriti, non nei corpo a corpo ma dai colpi esplosi contro di loro. La Francia scopre così che la ruggine tra i giovani delle periferie e gli agenti in divisa sta progressivamente scivolando dal lancio di pietre e lacrimogeni verso uno scenario degno di Belfast. Ma come si è arrivati a tanto?
Eletto alla presidenza della Repubblica nel maggio del 2007, Nicolas Sarkozy è stato forse il politico d’oltralpe che più ha utilizzato i riferimenti alla banlieue nella costruzione della sua immagine pubblica. Prima di lui, certo, i toni allarmistici non erano mancati, la denuncia dell’insicurezza, da destra, e della segregazione sociale, da sinistra, hanno accompagnato negli ultimi trent’anni lo sviluppo delle nuove periferie di Francia: non più quartieri popolari costruiti ai bordi delle vecchie zone operaie, ma “ville nouvelle” spesso distanti decine e decine di chilometri dal cuore della città storica di cui sono satelliti. Il caso dell’Ile de France su tutti: una regione-periferia con un centinaio di località, tra cittadine di campagna progressivamente inurbate e torri di cemento delle abitazioni Hlm, lo Iacp francese, a fare da cintura alla Grande Parigi.
Sarkozy ha fatto fino in fondo del tema della sicurezza la chiave della sua corsa, più che decennale, verso l’Eliseo, giocando su due elementi. Da un lato la stigmatizzazione dei giovani banlieusard: è lui che da Ministro degli Interni nell’ottobre del 2005 definì “racaille” (feccia) i ragazzi dei quartieri difficili e annunciò che avrebbe usato un “karcher”, una grande aspirapolvere, per liberare la banlieue di queste presenze. Quando, pochi giorni dopo, due adolescenti dei quartieri nord di Parigi, Zyed e Bouna rimasero uccisi per fuggire a un controllo delle forze dell’ordine, le parole di Sarkozy furono la miccia da cui partì la grande rivolta che avrebbe conquistato in poche settimane tutte le periferie del paese. «E’ per vendicarci delle parole di Sarko che diamo fuoco a tutto», spiegavano ai giornalisti del Nouvel Observateur alcuni giovani di Montfermeil coinvolti all’epoca negli scontri. Ma Sarko ha soprattutto evocato un altro aspetto del conflitto delle periferie. Da Ministro degli Interni ha sempre ribadito la sua vicinanza alla polizia, quale che fosse il comportamento degli agenti. Quando nel 2005 fu nominato agli Interni, Sarkozy decise di passare la notte dell’ultimo dell’anno proprio in un commissariato di banlieue per far sentire agli uomini in divisa, oggetto di aggressioni e attacchi, «il sostegno delle istituzioni». Sullo sfondo di un clima sociale sempre più teso, l’astro nascente della politica francese ha perciò giocato fino in fondo la carta dell’estremizzazione, soffiando sul fuoco della contrapposizione tra giovani e agenti e recuperando parte dell’armamentario ideologico del Front National di Jean Marie Le Pen, a cui ha sottratto parecchi voti, su temi quali “l’identità nazionale” e “il controllo dell’immigrazione” che nelle periferie hanno una particolare ricaduta visto che in questi quartieri si concentra una larga maggioranza dei figli degli immigrati arrivati nel paese negli anni Sessanta e Settanta. Il risultato di una tale politica è sotto gli occhi di tutti.
Dopo gli émeutes del 2005, che hanno portato a centinaia di arresti e perfino alla proclamazione del coprifuoco in alcune zone della Francia – come non avveniva dai tempi della guerra d’Algeria – e la vittoria di Sarkozy, la destra aveva annunciato un “piano Marshall” per le banlieue e aveva dato il via a una larga campagna di comunicazione nei confronti dei giovani ribelli della periferia. La nomina di Fadela Amara, già leader del movimento della ragazze di banlieue “Ni Putes Ni Soumises” (Né puttane né sottomesse) al segretariato di Stato per la politica urbana, e di Yazid Sabeg, imprenditore di origine algerina, come “Commissario alla diversità”, faceva parte di questa strategia che oggi mostra però tutti i suoi limiti. Come testimoniano le parole degli stessi protagonisti. Proprio in questi giorni, Sabeg ha lanciato l’allarme: «In Francia l’apartheid non esiste per legge, ma esiste nei fatti. E con la crisi saranno gli abitanti delle banlieue a pagare il prezzo più alto». E Amara, dal canto suo, ha criticato alcune delle posizioni già sostenute dallo stesso Sarkozy, spiegando: «le statistiche etniche, la discriminazione positiva, “quote” sono una caricatura. La nostra Repubblica non deve diventare un mosaico di comunità». Dei milioni di euro promessi da Sarkozy in campagna elettorale non c’è infatti traccia, inghiottiti o bloccati dalla burocrazia si dice, e tutto il dibattito ruota da mesi intorno all’idea, agitata dallo stesso presidente, di imitare l'”affirmative action” degli Stati Uniti che favorisce gli appartenenti alle minoranze nell’accesso a scuole, case e posti di lavoro.
In assenza di risposte da parte della politica, la scena è perciò tornata a essere dominata dagli elementi “militari”. Le forze dell’ordine, chiamate pressoché da sole a rispondere all'”emergenza” banlieue, hanno visto aumentare i loro effettivi e crescere il loro armamento, sempre più pesante e pericoloso. Con il risultato che la lunga serie di “bavures”, le “sbavature” come vengono definite “le violazioni” del codice di comportamento degli agenti che costano sistematicamente la vita a qualche ragazzo della periferia – è successo anche ai Mureaux giovedi notte con un inseguimento finito male – non hanno fatto che allungarsi. Solo tra il 1981 e il 2001 oltre 175 banlieusard avrebbero trovato la morte in questo modo: per mano delle forze dell’ordine. E nell’ultimo decennio la media dei decessi “occasionali” avrebbe subito un ulteriore incremento. Così, passo dopo passo la banlieue è trasfigurata, trasformandosi in una sorta di scenario da western metropolitano. E di fronte agli agenti hanno cominciato a muoversi gruppi organizzati, bande di quartiere che non possono che essere in guerra con gli uomini in divisa, visto che è questo il solo volto dello Stato che hanno fin qui conosciuto.