«La produzione è ovunque, anche le rivolte urbane»

Intervista – Parla Alain Bertho, docente di antropologia all’Institut d’Etudes Européennes e direttore della scuola di dottorato in Scienze sociali all’Università di Paris 8 a Saint Denis. Uno dei più attenti studiosi delle periferie francesi e delle nuove forme assunte dal conflitto sociale

Guido Caldiron
Liberazione 31 ottobre 2010


Autore di una decina di saggi che spaziano dal controllo sociale nelle aree urbane ai nuovi movimenti giovanili, fino alla guerra, Alain Bertho ha pubblicato lo scorso anno presso le Editions Bayard (pp. 272, euro 19) Le temps des émeutes, un volume che presenta quella odierna come l'”era delle rivolte”, mettendo in parallelo quanto accaduto negli ultimi decenni in Europa, dalla Genova del 2001 all’Atene di quest’anno, con fenomeni simili che si sono prodotti un po’ ovunque nel mondo: dal Tibet alla Cina, passando per l’America Latina e l’Iran. La tesi di Bertho è infatti che, al di là delle modalità e dalle forme assunte dalle rivolte scoppiate in tutto il mondo negli ultimi trent’anni, questi fenomeni ci parlino di una stessa realtà: quella costruita dalla globalizzazione economica e dalla rivoluzione produttiva postfordista che hanno trasformato l’intero spazio urbano in una immensa area produttiva e, per questa via, anche nel “luogo” del conflitto. Il libro rappresenta in realtà solo una prima fotografia di questi fenomeni che Bertho continua a monitorare attraverso il suo blog, berthoalain.wordpress.com e a cui ha dedicato un documentario, realizzato insieme al regista Samuel Luret, Les raisons de la colère, che sarà trasmesso martedi 9 novembre alle 23.30 da Arte, canale disponibile attraverso il satellite anche nel nostro paese, nell’ambito della serata tematica “Le rivolte urbane al di là dei pregiudizi” che propone anche alle 22.35, a cinque anni dalla rivolta delle banlieue francesi del novembre del 2005, La tentation de l’émeute, un’inchiesta condotta tra gli abitanti di Villiers sur Marne, alle porte di Parigi.

Professor Bertho, perché a suo giudizio siamo entrati nel “tempo della rivolta” e che cosa vuol dire esattamente questa definizione scelta come titolo per il suo ultimo lavoro?
Il titolo del mio libro, “Le temps des émeutes” fa riferimento al fatto che viviamo in un’epoca contrassegnata un po’ ovunque nel mondo dalla “rivolta”. Nel mio blog dò conto di queste rivolte, tra loro anche molto diverse, il cui numero non ha mai smesso di crescere negli ultimi anni un po’ in tutte le parti del mondo. Si tratta perciò di un fenomeno non occasionale ma che, al contrario, “segna” in modo netto l’epoca in cui viviamo. Si tratta di rivolte che hanno per questo periodo il senso che poteva aver avuto nell’Ottocento la Comune di Parigi o nel Novecento la Rivoluzione bolscevica o il Sessantotto. A differenza del passato, le rivolte di oggi si caratterizzano però per alcune particolarità. La prima è rappresentata dal fatto che non stiamo parlando di un unico movimento, ma di fenomeni tra loro molto diversi che sono accumulabili solo per il fatto che si manifestano attraverso la rivolta. La rabbia che genera questi émeutes ha infatti origini molto diverse e perciò risulta impossibile accumunare e leggere allo stesso modo i diversi fenomeni sociali di cui ci parla. Da questa condizione deriva una sorta di “invisibilità”, si parla ogni volta di quello che accade in questo o quell’angolo del mondo, mai di un qualcosa di complessivo e stabile. L’altra particolarità rispetto al passato è proprio il fatto che queste rivolte sono destinate a durare nel tempo, non si esauriscono in un periodo limitato ma finiscono per caratterizzare stabilmente la vita di una determinata società. Il paradosso è che in realtà, al di là delle differenze apparenti, queste rivolte si esprimono con un vocabolario simbolico tra loro molti simile e dicono, spesso nello stesso modo, delle cose chiare al potere. Se prendete delle foto delle ultime rivolte che ci sono state sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, in Cina, Bangladesh, Venezuela, Spagna, Turchia o ad Atene, vi troverete di fronte agli stessi visi mascherati, le stesse paure, la stessa rabbia e lo stesso fuoco. Si tratta, di fronte ai processi di globalizzazione che caratterizzano l’intero pianeta, di una sorta di messa in discussione complessiva dello spazio della rappresentanza politica: uno spazio che è la rivolta stessa a voler occupare.

Lei dice che queste rivolte hanno un evidente carattere politico, eppure da tempo il dibattito nella sinistra francese, in particolare sugli émeutes che si verificano nelle banlieue, si caratterizza per negare la natura “politica” di questi fenomeni, derubricati a questioni di ordine pubblico. Come stanno le cose?
Il punto da cui partire per rispondere a questo tipo di analisi riguarda la natura stessa di queste rivolte. Si tratta di chiarire come non sia assolutamente vero che gli émeutes non dicono nulla, che siano degli atti di violenza o di vandalismo fine a se stessi. Le rivolte nelle banlieue “dicono” molte cose e soprattutto se i giovani che vi partecipano arrivano a doversi ribellare con queste modalità, significa che non trovano alcun altro modo possibile per “prendere la parola” nella società in cui vivono. Per questo credo che la prima cosa di cui ci parlano queste rivolte sia proprio la crisi dello spazio della rapresentanza politica così come si è andato definendo per tutto il XIX e il XX secolo. La cultura politica della sinistra che si è formata negli scorsi secoli proprio attraverso le rivolte e la volontà di cambiare la società, si è progressivamente trasformata nell’idea che per cambiare la società si dovesse prendere il potere, che si trattasse di farlo con la rivoluzione o attraverso le elezioni poco importa. Vale a dire che è attraverso lo Stato che si pensava di cambiare il mondo e la vita delle persone. Il risultato è che oggi la politica si gioca per molti aspetti tutta all’interno dello Stato, nella conquista di una maggioranza o di una quota elettorale, in quella che per molti giovani delle classi popolari appare come una sorta di bolla separata e lontana dal resto della società. Come se esistessero due lingue; da un lato quella dello Stato e della politica, dall’altro quella società. 

La gran parte di queste rivolte hanno luogo nello spazio urbano e, per questa via, sembrano dirci molto di come la globalizzazione ha cambiato l’idea stessa di città.

A partire da quanto accaduto negli ultimi trent’anni nelle banlieue francesi, come possiamo leggere quello che gli émeutes ci dicono di questa trasformazione?
Credo che prima di tutto ci stiano dicendo che lo scontro di classe ha ormai superato i muri delle fabbriche e si è sparso sull’intero territorio. Oggi nelle grandi metropoli globali del mondo non è nelle fabbriche che si produce la ricchezza, bensì nella città stessa, interamente “messa a produrre” attraverso ogni genere di rete sociale, comprese quelle legate agli affetti e all’inventività dei singoli. Perciò il conflitto, come le forme assunte dalla produzione, attraversano l’intero spazio urbano e non restano più limitate alle mura della fabbrica. Non solo, lo spazio urbano è diventato lo scenario di uno scontro di proporzioni globali, nel senso che a tirare le fila dell’economia non è più il singolo “padrone” locale, ma gruppi internazionali che più che sulla produzione in senso stretto si arricchiscono attraverso la rendita e la finanziarizzazione di tutti i processi, ciò che la crisi delle borse degli ultimi anniha evidenziato in maniera drammatica. Anche per questo il conflitto sociale sembra faticare ad esprimersi nelle forme tradizionali e finisce per cercare nella rivolta la propria forma di comunicazione verso l’esterno: non un’azione “di lotta” in un singolo spazio, ma una messa “in scena” dell’insurrezione completa dell’intera città. Come diceva una giovane di Saint Denis durante una recente manifestazione: «Oggi siamo noi stessi ad essere diventati “la merce”, è sulle nostre vite che si crea il profitto, e perciò non possiamo che ribellarci occupando le strade, riprendendoci, per quanto possibile, la città».

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Le periferie contro lo Stato

Recensione – Graziella Mascia, La Racaille. Le periferie contro lo Stato, Ediesse editore, pp. 149

Paolo Persichetti
Liberazione 31 ottobre 2010

 

Mascia 3Da dove ripartire dopo la crisi di consensi e d’idee, l’assenza di progettualità che ha ridotto la sinistra, ed in particolare quella comunista, ai minimi termini? E’ questa la domanda a cui cerca di dare risposta Graziella Mascia nel suo, La Racaille. Le periferie contro lo Stato, Ediesse editore. Il titolo del libro è fin troppo chiaro nell’indicare la pista da seguire: immergersi nella trama dei nuovi conflitti, anticipare le contraddizioni che si delineano all’orizzonte e richiedono un’innovazione dell’analisi sociale e una nuova capacità di creazione politica.
Le periferie delle grandi metropoli sono oggi uno dei luoghi, se non il luogo, dove si gioca una delle partite centrali della postmodernità. Che si tratti dei grandi centri urbani del Nord America o delle città euromediterranee, queste metropoli crescono e si modificano secondo un unico modello standard fatto d’innovazioni architettoniche e urbanistiche del tutto simili: grandi parcheggi, metrò, nuovi complessi residenziali, centri commerciali che accolgono schiere di boutique, multisale, luoghi di ristorazione, selfservice, stazioni di rifornimento e poi torri e lunghe barriere d’edilizia popolare. «Nonluoghi» come vengono definiti, il tutto raccolto in scenari ballardiani con spazi illuminati e videosorvegliati, pattugliati da polizie pubbliche e private. Dietro questo universo d’insegne pubblicitarie, vetrine scintillanti e viedeoclip si aggirano delle «ombre»: sono i giovani precari, i lavoratori al nero, i neoschiavi nascosti nelle cucine e nei sotterranei. «Ogni città si nutre delle sue “ombre”, le periferie o bidonville, e produce eccedente umano: gli ex umani ormai troppo usurati o che non hanno avuto la possibilità o non sono stati mai capaci di adattarsi o ancora, peggio, quelli che hanno osato rivoltarsi» (Salvatore Palidda). I sauvageons (piccoli selvaggi), come li aveva etichettati Jean-Pierre Chevènement, e più tardi racaille (feccia), come li ha definiti Nicolas Sarkozy. Sono loro i protagonisti della dettagliata analisi condotta da Graziella Mascia, ex dirigente nazionale del Prc ed oggi responsabile di Altramente, scuola di educazione civica e formazione politica indipendente, che dalla rivolta delle periferie francesi, dell’ottobre-novembre 2005, passa alla insurrezione della  «generazione 700 euro» del dicembre 2008 in Grecia. Nel mezzo c’è l’Italia con il muro di Padova, la Lega nord, “l’Onda” degli studenti e i fatti di Castelvolturno. Manca purtroppo la rivolta di Rosarno, ma solo perché il volume è stato consegnato prima alle stampe. Oltre ad essere il luogo dove l’immaginario politico investe le sue battaglie simboliche più importanti (tutte le ultime campagne elettorali francesi si sono giocate sul terreno delle banlieues), le periferie rappresentano uno dei laboratori più sofisticati di sperimentazione del controllo sociale da parte degli Stati: dalle nuove concezioni urbanistiche antisommossa riprese dalla tradizione hausmaniana, ai dispositivi polizieschi che evocano apertamente la figura del nemico interno emblema di quel «capitalismo sicuritario», come lo ha definito Mathieu Rigouste, che ricorre apertamente a strumenti tipici dello stato d’eccezione. E’ di queste ultime settimane l’ennesima torsione sicuritaria impressa da Sarkozy con ulteriori inasprimenti legislativi che colpiscono gli accusati di sommosse urbane.
Alla domanda che ha diviso studiosi e militanti, se le lunghe notti di fuochi, le diecimila vetture bruciate che nell’autunno 2005 hanno illuminato le periferie francesi, siano state una sommossa etnica o al contrario un conflitto mosso da ragioni sociali, Mascia risponde sposando le tesi di autori, come Loïc Wacquant o Emmanuel Todd, che confutano le interpretazioni «comunitariste» offrendo una lettura «mista» della rivolta. Alcuni dati parlano chiaro: «Nelle retate che fanno seguito ai moti del 2005, solo il 6% dei 400 ragazzi arrestati è di origine straniera», nonostante ciò «nell’immaginario collettivo, anche delle organizzazioni politiche della sinistra, la rivolta delle banlieues passa come la ribellione dei figli dell’immigrazione magrebina e africana, che vogliono uscire dal ghetto». Un deficit d’analisi che sconta il ritardo storico dei partiti della sinistra nel percepire queste nuove zone di frontiera come luoghi dove si intersecano e sovrappongono più conflitti e prendono forma nuove disuguaglianze.
Le periferie francesi non sono ghetti razziali, hanno un’altra conformazione dove vige una «selezione prioritariamente di classe», mentre nell’America del Nord prevale l’interclassismo e domina la delimitazione etnoraziale (Wacquant). La crisi delle periferie francesi, e il fallimento delle politiche d’integrazione anteposte al modello comunitarista di stampo anglosassone, sono strettamente legate alla decadenza dei progetti urbanistici cresciuti negli anni del periodo fordista. I quartieri di edilizia popolare, in particolare le cinture rosse dei grandi centri urbani, «erano divenuti luoghi di promozione sociale e culturale per i ceti popolari e i lavoratori migranti». Una serie di strutture comunali, sindacali e associative, collaterali ai partiti del movimento operaio, garantivano importanti percorsi d’integrazione e ascensione sociale. Tutto ciò è venuto meno con la controrivoluzione liberista, l’avvento del postfordismo, la crisi della «società salariale», il dilagare del precariato e della polverizzazione dei rapporti sociali. La crisi e il declassamento delle periferie hanno introdotto una frattura tra gli abitanti e fatto balenare nuove identità di sostituzione strumentalizzate dall’estrema destra. «Coloro che vent’anni prima avevano rivendicato una appartenenza di classe, oggi vantano di essere dalla parte dei francesi». La questione identitaria, dunque, come trappola, costruzione pubblica di un fenomeno che fa velo alla natura reale del problema e la cui soluzione non può essere affrontata sollevando unicamente il tema della solidarietà e dei diritti, dell’accoglienza o dei respingimenti. Perché la mescolanza possa prevalere occorre ­– è questa la tesi del libro ­–  una nuova critica dei rapporti di produzione capitalistici che ricomponga il frastagliato fronte della forza-lavoro e organizzi la «nuova popolazione proletaria nomade» contro il dumping dei salari.
Eppure il movimento degli Indigènes de la republique aveva individuato nella condizione di emarginazione postcoloniale, in una sorta di minorazione giuridica non scritta, di costituzione materiale della segregazione, la ragione della rivolta, dimenticando, a loro volta, la segregazione che passava questa volta per linee interne: protagonisti dei moti sono stati solo degli adolescenti maschi. Le sorelle non c’erano, non avevano diritto di esserci, come invece è accaduto ad Atene. «Nei quartieri – spiega Omeyya Seddik in una delle interviste finali del libro – ormai tutti assumono su di sé il discorso dell’attacco all’islam, anche i ragazzi che non sono mussulmani. E’ come se l’islam fosse diventato un elemento di classe». Siamo di fronte ad una identità indotta in assenza di altre proposte ma anche alla più totale afasia. L’intera rivolta del 2005 è avvenuta nel più assoluto silenzio, senza dichiarazioni, proclami, comunicati e rivendicazioni, tant’è che si è parlato anche di «rivolta prepolitica», a differenza di quanto è accaduto ad Atene. Un silenzio ostinato e una solitudine voluta che hanno impedito la saldatura con chi, in quelle stesse settimane, manifestava in piazza, bloccava scuole e università contro un modello di contratto di primo impiego, voluto dal governo, che deprezzava il lavoro giovanile.
C’è chi ha coniato in proposito la definizione di potere destituente che non cerca una riappropriazione dei luoghi ma solo un tentativo di sottrarli al controllo poliziesco-statale. Semplice disillusione di fronte all’inefficacia dei vecchi strumenti della politica? E’ questa la prima sfida per chi vuol tornare ad incidere sul terreno della trasformazione sociale. Convincere che la parola serve a rafforzare la propria autonomia, a costruire pensiero, progetti, alternative, per rompere la solitudine e costruire le alleanze mancate.

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