Il magistrato e la lobby dei generali

La ragnatela: le fonti riservate di Alfonso Papa sodale di Luigi Bisignani

Paolo Persichetti
Liberazione 18 giugno 2011

Quello delle lobby sarebbe soltanto un fantasma. «Un fantasma che si aggira per l’Italia». Questa opinione, apparsa ieri sul Giornale, a proposito dell’inchiesta avviata dalla procura di Napoli e che i media hanno subito ribattezzato P4, evocando impropriamente il vecchio spettro della loggia massonica P2, è stata espressa da Paolo Guzzanti, uno che di fantasmi se ne intende. Quella di gostbuster fu infatti la sua principale attività negli anni in cui si occupò del dossier Mitrokhin, in qualità di presidente di un’apposita commissione d’inchiesta parlamentare costituita per fare luce sulla vicenda e sprofondata nel ridicolo con la storia di Mario Scaramella e del plutonio 210. Guzzanti ripropone la solita solfa liberale fondata su una concezione elitista ed oligarchica della società. Il lobbismo – sostiene – altro non sarebbe che un modo per organizzare gli interessi. Una pratica non solo legittima ma considerata la base della «democrazia americana». Peccato che Guzzanti dimentichi di spiegare che gli unici che riescono ad organizzarsi in modo legittimo e soprattutto efficace siano gli interessi forti a scapito di quelli deboli, di chi non ha alcuna rappresentanza ed è tagliato fuori dal sistema. Il lobbismo, infatti, altro non è che l’espressione più esplicita di una società organizzata in modo patrimoniale. Le lobby dei nullatenenti non hanno mai pesato nulla nel mercato opaco degli scambi, delle reti e delle conventicole di iniziati e raider che animano i retroscena della vita politica e degli affari. Al di là degli aspetti strettamente giudiziari e degli esiti finali a cui approderà l’inchiesta condotta dai pm Greco, Curcio e Woodcock, quanto è trapelato dalle indagini, e dalle ammissioni fatte da imputati e testimoni, offre squarci interessanti per comprendere fisiologia e antropologia del potere reale. La ragnatela di relazioni intessute da Luigi Bisignani ha diramazioni trasversali, e se solca per intero il generone berlusconiano fino a tirare in ballo il gran commis d’Etat Gianni Letta, lambisce anche Massimo D’Alema. Bisignani si adoperò, su pressione del finiano Italo Bocchino, perché il presidente del Copasir incontrasse il generale Adriano Santini prima della sua nomina a capo dell’Aisi, il servizio segreto militare. Alla fine l’incontro avvenne, ma solo dopo il nuovo incarico assunto dal militare. Niente di strano che il presidente della commissione parlamentare che vigila sull’operato dei Servizi conosca uno dei candidati alla guida di un’agenzia d’intelligences. Resta da capire invece cosa c’entri Bisignani in tutto ciò, visto che appare in superficie sprovvisto di titoli istituzionali che giustifichino un tale livello di internità al mondo degli apparati. Stando alle indagini, figura chiave del dispositivo messo in piedi dal grande tessitore, è il magistrato Alfonso Papa, oggi parlamentare del Pdl, già pupillo del procuratore capo Agostino Cordova, quando questi dirigeva la procura napoletana. Due modi d’essere completamente opposti. Bisignani è uomo dai modi felpati, impeccabile, misurato, sempre discreto, sofisticato, in pieno stile Prima repubblica, una fotocopia dell’antropologia andreottiana, elegantemente cinico; Papa è il classico rapace della Seconda, dai modi grossolani, ostenta pacchianamente gli status della ricchezza e del potere, due Jaguar e una Mercedes, garçonnières per le amanti al centro di Roma, Rolex “nudi” e gioielli regalati alle “fidanzate”, una scorta gentilmente offerta dalla Guardia di finanza. Homo berlusconiano a tutti gli effetti. La collaborazione tra i due sigilla nei simboli la saldatura, il travaso non certo la cesura, tra Prima e Seconda Repubblica. Papa è descritto nelle carte dell’inchiesta come persona legata ai Servizi, in particolare all’ex direttore del Sismi ed ex comandante della Finanza, Nicolò Pollari. Conosce Pio Pompa, attinge informazioni riservate (che poi riutilizza a fini personali o trasferisce a Bisignani) dalla Finanza, grazie alla conoscenza dei suoi vertici, come il generale Michele Adinolfi, e il vice dell’Aisi Poletti. Ma soprattutto dimostra, se ce n’era bisogno, quale sia la sociologia profonda di ampi settori della magistratura italiana: azzurra, berlusconiana, avida e corrotta. Molto diversa da quel che ci raccontano le grida del premier.

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Paolo Persichetti
Liberazione 17 giugno 2011

Il sistema oligarchico raffigurato in una disegno d’epoca

«Bisignani è più potente di me». Pare l’abbia detto Silvio Berlusconi riferendosi a l’uomo che l’avrebbe introdotto nella Roma che conta e che ora è finito agli arresti domiciliari in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta denominata P4. Ma chi è questo Luigi Bisignani descritto come un potente lobbista, super ammanicato, personaggio che gode di forti appoggi e protezioni, talvolta illeciti, un tipo senza scrupoli capace di arrivare ovunque, raccogliere ogni tipo di informazione da far poi fruttare per sé e la sua combriccola? «Sì, vedo gente, faccio cose, risolvo problemi», rispose una volta a chi gli chiedeva quale fosse il suo lavoro. Tuttavia lontano mille anni luce dal Nanni Moretti di Ecce bombo. I profili apparsi sui quotidiani di questi giorni lo descrivono come ex giornalista dell’Ansa, anche se in un comunicato l’ordine dei giornalisti fa sapere di averlo definitivamente radiato nel 2002. Nato a Milano nel 1953, figlio di un manager della Pirelli, nel 1981 – quando aveva solo 28 anni – il suo nome è comparso negli elenchi della P2, tessera numero 1689, data di iscrizione 1 gennaio 1977. Gira voce, ma forse è solo una legenda, che fu lui stesso a dettare la notizia all’Ansa. A dire il vero, Bisignani ha sempre negato l’iscrizione alla loggia di cui il venerabile Gelli sarebbe stato solo il numero 3. «Ero troppo giovane», la sua obiezione. Eppure ciò non gli impedì di essere già piazzato in posti chiave, tra il 1976 e il 1979, quando svolse il ruolo di capo ufficio stampa del ministro del Tesoro Gaetano Stammati nei governi presieduti da Andreotti. L’uomo politico che più di ogni altro l’ha aiutato e sostenuto negli anni, insegnandogli a tessere relazioni, costruire potere d’influenza sulla base di rapporti, contatti, informazioni, segreti. Sempre vicino allo Ior, negli anni 80 finisce alla Ferruzzi, di cui diventa direttore delle relazioni esterne. Raul Gardini aveva bisogno di uno come lui, con un’agenda stracolma di nomi pesanti capaci di aprirgli le porte che servono per le sue scalate. Bisignani è un trade-union fondamentale per entrare in contatto con i circoli che contano, i luoghi dove si costruiscono le decisioni importanti. In questo modo rimane coinvolto nella vicenda della maxi-tangente Enimont. Uno degli episodi chiave di Tangentopoli. La madre di tutte le tangenti (92 miliardi di lire) finita in tasca a tutti i partiti, compresi Lega nord e Pci. Dopo una prima latitanza si costituisce e subisce una condanna a 2 anni e 8 mesi per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Robetta che non intacca il suo cursus honorum. Traghetta senza problemi la Prima repubblica e si inabissa nei meandri della nascente Seconda. E’ l’espressione più compiuta dell’inconsistenza di Mani pulite, che incattivì soltanto il Paese spianando la strada ai populismi e favorendo palesemente un processo di oligarchizzazione della società italiana, liberata ormai da forme di politica che organizzavano le masse alle quali ormai era destinata soltanto la tv. Il Termidoro berlusconiano che concludeva l’offensiva delle procure è per Bisignani, e per tanti come lui, una sorta di paradiso insperato. Le pratiche lobbistiche si moltiplicano, le relazioni politiche e i meccanismi della finanza e dell’economia si opacizzano ulteriormente. Dominano comitati d’affari, cricche, furbetti del quartierino, club di iniziati. Bisignani è a suo agio. Dicono che sia il migliore. Compare nell’inchiesta sull’Alta velocità e viene perquisito durante l’inchiesta «Why not» condotta da Luigi De Magistris. L’ipotesi di reato era la violazione della legge Anselmi contro i gruppi di potere occulto. Ma a saltare è il pm poi diventato sindaco di Napoli. Oggi il retroscena, stando a quanto ricostruito dalla procura, appare più chiaro. Bisignani, infatti, agiva in coppia con Alfonso Papa, un rampante quarantenne, pubblico ministero a Napoli, oggi parlamentare del Pdl, ex vice-capo di gabinetto al ministero della Giustizia quando Guardasigilli era il leghista Roberto Castelli. Tanto per intenderci capo di cabinetto era un altro magistrato, il procuratore generale Settembrino Nebbioso, finito nelle liste di favori di Anemone, il costruttore romano legato alla banda Bertolaso-Balducci. Con l’avvento del governo Prodi, Papa non solo restò a via Arenula ma venne promosso direttore generale degli affari civili. Fu proprio Mastella, dopo la perquisizione a Bisignani, ad avviare la procedura disciplinare che portò al trasferimento di De Magistris. Ma ora secondo quanto ricostruito dai pm Francesco Greco, Henry Woodcock e Franco Curcio, c’è molto di più. Descritto come «soggetto più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali e con forti collegamenti con i servizi di sicurezza», a Bisignani si rimprovera l’acquisizione, grazie a Papa che si avvaleva della collaborazione di ufficiali della Ps e dei Ros, di notizie riservate e sotto segreto istruttorio che avrebbero compromesso l’esito di alcune inchieste giudiziarie. In particolare su Finmeccanica, l’ex dg della Rai Masi, il coordinatore del Pdl Denis Verdini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l’onnipresente Gianni Letta. Oltre ad aver pesato nella scelta di alcune nomine per gli enti pubblici.

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