Berlusconi, il 68 dei padroni e l’edonismo proprietario

Cosa è stato il berlusconismo? Come è riuscito ad imporre la sua egemonia? «Goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del personaggio berlusconiano si è rivelato in realtà un suo punto di forza: «Appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di scrivere a Marx a proposito di un altro «uomo della provvidenza», ed essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e somiglianza

Paolo Persichetti, l’Unità 13 giugno 2023

Fin dal momento della sua entrata diretta in politica, nel lontano 1994, il dispositivo Berlusconi ha agito come un grande diversivo, un potentissimo magnete capace di captare su di sé passioni contrapposte. Una sorta d’incantesimo che ha permesso al padrone della televisione commerciale di collocarsi da subito al centro della scena scompaginando gli schieramenti, rimescolando le carte, sparigliando il tavolo da gioco. Forse solo riconoscendo questa sua irresistibile capacità illusionistica si può riuscire a spiegare anche l’essenza contraddittoria, quella combinazione di contrari che è l’antiberlusconismo. Solo in questo modo si riesce a comprendere perché personaggi della destra storica, come Indro Montanelli o populisti di destra come Antonio Di Pietro siano diventati dei paladini del popolo della sinistra, oppure un damerino reazionario come Marco Travaglio abbia potuto ispirare prima le correnti giustizialiste della sinistra, dai girotondi al popolo viola, e poi i Cinque stelle.
Sicuramente Berlusconi ha saputo intercettare e interpretare a modo suo quel nuovo spirito del capitalismo descritto da Luc Boltansky e Éve Chiappello in un volume pubblicato da Gallimard nel 2000 e arrivato in Italia solo nel 2014 con Mimesis. Versione italiana di quella nuova etica della valorizzazione del capitale che, secondo i due sociologi, dopo l’originaria fase puritana e la successiva età della programmazione e della razionalità fordista, ha trovato nuova fonte d’ispirazione e legittimazione in una parte delle critiche rivolte al modo di produzione capitalista durante la contestazione degli anni Settanta. La critica al taylorismo fordista, all’alienazione seriale del lavoro, ai rapporti di società rigidi e gerarchizzati e alla società dello spettacolo, sono state assorbite e metabolizzate fino a fare della creatività e della flessibilità i tratti salienti del nuovo sistema dell’economia dei flussi, del valore aggiunto, del lavoro immateriale incamerato nel prodotto finito. Inventiva, piacere e pazzia – sempre secondo l’analisi di Boltansky e Chiappello – sono diventati ingredienti del successo capitalista molto più dei costipati valori del lavoro, della preghiera e del risparmio che ispiravano gli albori del capitalismo ma anche quella sorta di calvinismo del valore lavoro di cui era intriso il togliattismo.
Se l’immaginazione non è mai arrivata al potere, sicuramente ha trovato posto in piazza Affari. Dimostrazione della capacità dinamica e innovativa dell’«imprenditoria deviante», secondo una categoria forgiata dalla sociologia criminale. L’ambivalenza del comportamento berlusconiano, condotta all’interno e all’esterno dell’ordine stabilito, ha permesso di condurre esperimenti, d’esplorare possibilità anche illegittime. Risorsa necessaria affinché l’iniziativa economica innovativa potesse avere luogo. In questo modo l’uomo di Arcore ha mantenuto «una distinta leggerezza che ha consentito alle sue imprese, in maniera weberiana, di levarsi al di là del bene e del male», come ha scritto Vincenzo Ruggiero in, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore, Milano 2005.
Il patron della pubblicità con le sue televisioni è stato il volto italiano di questa rivoluzione del capitale. Con la sua abilità nel produrre ideologia è riuscito a sintetizzare anche interessi e spinte sociali diverse ma accomunate da un’ipertrofica rapacità individualista. Venditore di sogni e d’illusioni, spacciatore di marche, dealer di un mondo ridotto al dominio del logo e delle sue imitazioni. Divenuto sistema-mondo, occupata la società, a Berlusconi mancava solo la politica. Non la politica vera. Quella l’aveva sempre fatta, come una volta vantò in una intervista. La sua rete commerciale non era altro che un partito di tipo leninista. L’unico rimasto. Il partito dei professionisti della pubblicità. Una struttura di quadri selezionati, radicati nel territorio e nei distretti economici, con rapporti diffusi e alleanze con le corporazioni, le organizzazioni di categoria e gli imprenditori legali e illegali. Un vero modello d’organizzazione bolscevica della borghesia. Ed difatti, alla fine del 1993, in pochi mesi riuscì a farne la struttura portante di Forza Italia per lanciare l’attacco alla cittadella della politica-istituzionale, all’occupazione della macchina statale. Grazie ad una scientifica attività lobbistica e alle protezioni ottenute da settori influenti della politica, più che alla capacità di stare sul mercato, ha potuto costruire negli anni Ottanta la sua posizione dominante nel settore delle televisioni commerciali e della raccolta pubblicitaria. Ma a spianare la strada al suo ingresso diretto nel mondo dei palazzi romani è stato il tracollo del sistema politico dei partiti provocato dalle inchieste giudiziarie. Quando sulle ceneri della Prima Repubblica rivaleggiavano ormai forme contrapposte di populismo, Berlusconi è riuscito a sconvolgere la scena politica del paese sradicando la tradizione dei partiti di massa già in crisi e imponendo il proprio modello anche ai suoi avversari. In grado di miscelare elementi elitari e plebiscitari, premoderni e ipermoderni, quello berlusconiano è apparso un modello di populismo dove vecchio e nuovo s’integravano. Sorretto dal ritorno all’affermazione della leadership carismatica e provvidenziale, nella quale il potere patrimoniale sostituisce la vecchia legittimità paternalista-patriarcale, il paradigma berlusconiano ha accompagnato l’elogio dell’imprenditorialità diffusa dentro la quale riescono a convivere anche forme arcaiche e bestiali di taylorismo. Il sogno e l’inganno di milioni di piccole imprese, nuova configurazione di un rapporto lavorativo che occulta dietro il mito dell’imprenditorialità individuale le gerarchie di un nuovo modello di sfruttamento. Illusione di un facile accesso al ceto medio e all’arricchimento personale modellato con i valori profusi dalle televisioni commerciali, tra gossip, cronaca nera, veline e reality show. Esaltazione retorica e sognatrice dell’autoaffermazione individuale, della proprietà (tanto più quando questa è insignificante e si riduce ad un’abitazione o un’automobile acquistata contraendo mutui bancari pluridecennali o alla conversione dei propri risparmi in bond e partecipazioni in titoli finanziari). Ideologia che riesce a far convivere con un mirabile gioco di prestigio temi legati alla riscoperta dei valori morali, come patria, famiglia e presunta etica della vita (ostilità verso l’aborto e l’uso delle staminali), insieme ad una sorta di sfrenato “edonismo proprietario”, di ’68 dei padroni (il “bunga bunga”).
«Goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del personaggio berlusconiano si è rivelato in realtà un suo punto di forza: «Appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di scrivere a Marx a proposito di un altro «uomo della provvidenza», ed essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e somiglianza. Tutto ciò come è stato possibile?
Quando la società dei lavoratori e dei cittadini volontari è messa fuori gioco, ha risposto Mario Tronti: «la politica diventa il monopolio dei magistrati, dei grandi comunicatori, della finanza, delle lobby, dei salotti. Cessa di essere la sede in cui i progetti di società si affrontano e confrontano e diventa il luogo dell’indifferenza, uno spazio indistinto dove l’apparenza prevale sul contenuto, l’estetica s’impone sulla sostanza». Per questo l’antiberlusconismo giustizialista non solo si è rivelato inefficace ma si è addirittura dimostrato dannoso riverberandosi unicamente come riflesso subalterno del suo acerrimo nemico spianando la strada al governo della destra fascista.

Arriva il partito della legalità

Ispirato da Eugenio Scalfari, organizzato e diretto da Carlo De Benedetti, probabile capolista un Roberto Saviano ancora recalcitrante ma disponibile a dare il suo imprimatur (non può certo sputare sul piatto dove mangia), scende in campo il partito della legalità

Un po’ come la fine di Craxi coincise con il trionfo postumo del craxismo, il tramonto di Berlusconi ci sta lasciando in eredità molte cose del berlusconismo e del suo modello speculare, l’antiberlusconismo. Prendiamo un esempio: il tracollo elettorale del Pdl nelle recenti amministrative non sta affatto provocando l’uscita di scena del partito-azienda. Al contrario assistiamo al moltiplicarsi di questo modello d’organizzazione diretta degli interessi più influenti della borghesia imprenditoriale e finanziaria nella politica.


Mentre i ceti popolari scompaiono dalla politica attiva, grande borghesia, finanza, Confindustria e salotti scendono direttamente in politica moltiplicando i loro partiti-azienda

Accanto all’ipotesi del Partito dei produttori di Montezemolo, ai blocchi di partenza ormai da molto tempo, costruito anch’esso attorno ad un cuore aziendale, si annuncia l’arrivo del Partito di Repubblica camuffato da cartello della società civile. Mentre la formazione di Montezemolo si candida a colmare il vuoto che il declino del berlusconismo rischia di lasciare dietro di sé, il Partito di Repubblica mira paradossalmente a tenere in vita l’esperienza dell’antiberlusconismo riproducendone il calco speculare: modello mediatico-carismatico, un propietario magnate, una strategia ispirata dal marketing politico, assenza di democrazia interna, gruppo dirigente e apparato cooptato.
Da diversi anni ormai il richiamo alla società civile è diventato lo schermo dietro il quale si cela, nella gran parte dei casi, la discesa in campo dei poteri forti, dei grandi salotti, dei miliardari, senza dover più ricorrere al tradizionale ruolo di mediazione e filtro dei professionisti della politica di cui parlava Weber (relegati nel migliore dei casi al ruolo di gregari o yesmen). Una concezione sempre più oligarchica della politica tanto più lontana da modelli partecipativi e di rappresentanza, sicuramente più presenti in alcune forme-partito classiche del Novencento, quanto più è forte l’appello alla società civile. Non a caso da mesi il governo è retto da un sedicente esecutivo di tecnici che sfugge a qualsiasi principio di rappresentanza elettorale (una sorta di golpe soft).


La repressione emancipatrice leit-motiv del partito promosso dal gruppo editorial-fianziario di Carlo De Benedetti

L’arrivo di una lista ispirata dal duo De Benedetti-Scalfari è data per certa. Ad anticipare questa mossa era stato lo stesso Eugenio Scalfari in un editoriale apparso su Repubblica del 13 maggio scorso. A dire il vero, in quella circostanza, l’ex fondatore di Repubblica aveva condizionato la formazione di «una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità» alla permanenza del “porcellum”, il sistema elettorale attualmente in vigore. Per Scalfari la legalità, di cui vi sarebbe «urgente bisogno», deve essere il tema ideologico dirimente di questa nuova formazione  per combattere «la corruzione, le mafie, le oligarchie corporative nella pubblica amministrazione, l’evasione fiscale e la legalità costituzionale» (manca ovviamente qualsiasi riferimento alle illegalità della finanza internazionale motore scatenante della crisi economica attuale).
Niente di nuovo dal pulpito di Repubblica che da decenni ha fatto della “repressione emancipatrice” la religione civile che ha permesso di mettere una pietra tombale sulla questione sociale.


Saviano capolista?

Il nuovo Partito della legalità – sempre secondo le parole del suo ispiratore – dovrebbe chiamare a raccolta «persone competenti e civilmente impegnate nella difesa di questi valori». Profilo nel quale molti hanno subito visto l’inconfondibile silhouette di Roberto Saviano.
Chiamato in causa l’autore di Gomorra si è subito precipitato a smentire la circostanza senza rinunciare alla sua consueta dose di vittimismo. Nella celebre rubrica dell’Espresso, che fu un tempo di Giorgio Bocca, Saviano ha attaccato quelli che fanno «disinformazione» annunciando sistematicamente la sua entrata in politica ogni qualvolta gli accade di mietere trionfali ascolti televisivi, nonostante le sue mediocri prestazioni. Gli autori di queste voci, ha spiegato con toni stizziti ma sempre meno convincenti (stavolta a tirarlo in ballo è stato Scalfari mica i suoi avversari), sarebbero dei disonesti che attribuendogli l’intenzione di entrare in politica vorrebbero soltanto delegittimarlo, macchiandone l’illibatezza che gli verrebbe dal non essere «percepito come schierato».
Frase interessante solo per il participio inavvertitamente impiegato. L’uomo che sostiene di voler «ridare dignità alle parole della politica», perché le parole, differentemente da come cantava Mina, non sono chiacchiere ma «azione», strumenti capaci di «costruire prassi diverse», non può non sapere che l’essere percepito è altra cosa che dall’essere realmente.
E’ singolare questa teoria della dissimulazione che ricorda da vicino uno dei più classici precetti della politica descritti da Machiavelli, «Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei», in uno scrittore ­– da tempo sempre meno autore e sempre più interprete – che non cessa di rappresentarsi come sacerdote del vero, senza infingimenti, mediazioni e filtri. Per giunta, dopo la querela milionaria presentata contro il Corriere del Mezzogiorno e Marta Herling, per la polemica sulle fonti indirette e anonime citate nel racconto sul terremoto di Casamicciola, a molti non è sfuggito che Saviano stia dimostrando più interesse al valore monetario delle parole piuttosto che al loro significato.


Il prezzo delle parole

Sarà forse per questa concezione borsistica della lingua, che poca importanza attribuisce al senso delle parole tanto da arrivare a sostenere parole senza senso, che Saviano può scrivere cose come: la fedina penale pulita in politica sarebbe un handicap, un «elemento di sospetto e fragilità». Tesi che nell’orgia di demagogia populista attuale non appare di grande originalità: lo affermano ogni giorno Marco Travaglio e Beppe Grillo.
Chissà se sui banchi di scuola gli hanno mai spiegato che la Costituzione italiana è stata scritta da fior fior di pregiudicati, ex galeotti, ex latitanti ed ex sorvegliati speciali con tanto di confino. E che tra questi si contano ben due presidenti della Repubblica.
Se sei pregiudicato – prosegue ottusamente lo scrittore embedded (con Saviano il vecchio modello dell’impegno civile e politico si è trasformato nell’arruolamento, nell’intruppamento tra le file dei crociati dell’ordine, dei professionisti della punizione) – «vuol dire che hai già un protettore. A seconda del reato commesso, ci sarà la mafia, un partito o una cricca a garantire per te. Invece se sei incensurato non hai tutela, puoi essere aggredito da tutti senza che nessuno ne abbia danno».
Per Saviano le carceri italiane sarebbero sovraffollate di potenti ultratutelati, non di una umanità dolente, di disgraziati senza peso e senza futuro. Esperti e operatori del settore non esitano a definire il sistema carcerario una discarica sociale. E nelle discariche, fino a prova contraria, c’è a munnezza; tanto per citare la considerazione sociale attribuita al popolo delle prigioni.
Sembra di capire che per Saviano l’unico modello di società possibile sia una sorta di 41 bis diffuso, un regime di massima sicurezza sociale, un sistema di gabbie e recinti concentrici dove le parole anziché libere finirebbero confiscate sotto chiavistello. E lui ovviamente sarebbe il portachiave.


Scalfari insiste: «Saviano ci servi»
. Mica puoi sputare sul piatto dove mangi!

Per nulla convinto dell’atteggiamento prudente messo in mostra dall’esponente di punta della scuderia di Roberto Santachiara, in una intervista al Fatto quotidiano Scalfari ha ribadito che la presenza dello scrittore nella lista per la legalità «sarebbe un valore aggiunto che può decidere le elezioni». Saviano è considerato un brand vincente, non è più una persona ma un dispositivo, una macchina del consenso di cui non si può fare a meno. Scalfari-Mangiafuoco non può rinunciare alla sua marionetta per mettere in scena il teatrino della poltica. Quale che sia la decisione finale, lo scrittore ha confermato che in ogni caso non rinuncierà «alla possibilità di costruire un nuovo percorso».


Il nuovo mix: partito delle procure e partito delle scorte

Insomma i giochi sembrano fatti. Manca solo l’annuncio ufficiale che secondo alcune indiscrezioni è previsto per il prossimo 14 giugno, data di avvio della festa di tre giorni organizzata da Repubblica a Bologna. Un serbatoio pronto per stilare le liste esiste già: si tratterebbe di pescare tra gli aderenti all’associazione “Libertà e Giustizia”, fondata sempre da De Benedetti. La base di riferimento resta il “ceto medio riflessivo” che ha animato l’esperienza dei Girotondi e riempito gli spalti durante le adunate al Palascharp. C’è poi il partito delle procure a cui si affiancherà quello delle scorte spalleggiato da Saviano.


Legalità e iperliberismo: stessa spiaggia, stesso mare…

A questo punto resta da chiedersi cosa potrà portare di nuovo l’avvento di questo partito al di là delle considerazioni tattiche sull’ipoteca messa su un Pd fragile e senza prospettive, che rischierebbe di diventare addirittura un satellite eterodiretto (vecchio pallino della redazione repubblichina) dalla nuova formazione. L’estenuante richiamo al principio di legalità impone un bilancio ed una decostruzione del concetto.
Il richiamo alla legalità, da tangentopoli ad oggi, oltre a non aver impedito ma in qualche modo favorito venti anni di Berlusconismo è servito da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. La legalità è stata in campo politico-giudiziario il corrispettivo dell’iperliberismo in materia economico-sociale. Un contesto dove i forti sono diventati più forti e i deboli più deboli. Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento di mettere in campo un movimento antipenale.

© Not Published by arrangement with Roberto Santachiara literary agency

 

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Il consociativismo non è mai finito

La recensione – «Il consociativismo infinito» di Mauro Fotia, Dedalo editore 2011

di Bruno Amoroso
il manifesto
17 gennaio 2012


Nello sforzo di comprendere le dinamiche della situazione economica e politica italiana della seconda metà del Novecento si è sovente fatto ricorso alla metafora del calabrone, cioè di un animale che riesce a tenersi in volo a discapito delle leggi di gravità. A sorpresa di tutti, infatti, la continua instabilità del sistema politico italiano ha sempre ritrovato momenti di ricomposizione, smentendo tutte le tesi ricorrenti della crisi e del collasso.
Questa situazione, applicata alla politica, è continuata nel nuovo secolo fino ai nostri giorni. Nella ricerca delle cause di tutto ciò – a parte i pochi arditi che hanno perseverato nel tentativo di ricercarne le cause nel quadro dei cambiamenti strutturali e sociologici della società – ha sempre prevalso l’approccio giuridico-istituzionale. Una forma tipicamente italiana, che pensa di risolvere i problemi della frammentazione del tessuto politico mediante le leggi elettorali, le norme di funzionamento delle Camere e le regole varie di registrazione del consenso, tra le quali si possono annoverare i referendum e anche l’ultima diavoleria delle primarie. A fasi alterne si sostiene la bontà del pluralismo dei partiti, espressione della ricchezza politica e culturale delle posizioni in campo, oppure del bipolarismo assunto a simbolo della maturità politica degli italiani capaci di accantonare localismi territoriali e mentali per concentrarsi sulle grandi scelte.
Ovviamente le ragioni dell’una e dell’altra posizione sono sostenute da esempi di altri Paesi, presi a sproposito e confondendo i livelli di consenso reale, politico e culturale esistenti nella società con l`ombra delle istituzioni. Nei fatti il pluralismo degenera in un frammentarismo fonte di una miriade di microformazioni partitiche estremamente perniciose per la fisiologia democratica. Il bipolarismo si incarna in coalizioni sì eterogenee da rendere impossibile che quella vincente governi veramente; si risolve, in pratica, in una mera apparenza, anzi, in una mistificazione. Mette in scena false contrapposizioni, fittizie alternanze o ricambi di ceti politici al potere, ingannevoli alternative di indirizzi e di programmi di governo, mentre nella realtà opera come una vera e propria consociazione tra maggioranza e minoranza, con i conseguenti fenomeni spartitori, corruttivi e clientelari.
Insomma, è la tesi sottesa da questa mia lettura, la frammentazione della politica italiana è una sceneggiata ben diretta che serve a mascherare – dietro l’affermata rigidità e continuità delle posizioni in campo e degli interessi che rappresentano – una sostanziale disponibilità al compromesso. L’aspetto “italiano” di questa vicenda che la Seconda Repubblica ha aggravato e reso cronico è che il compromesso non viene raggiunto prima sui grandi temi della politica, per poi trasmettersi ai vantaggi partitici delle spartizioni del potere e delle lottizzazioni, ma sono i secondi a motivare e canalizzare il consenso verso i primi. Da qui la sostanziale immutabilità delle scelte di politica economica e di politica estera – le variabili indipendenti del sistema Italia- e il continuo vociare dei e nei partiti e coalizioni che somiglia molto alle “grida” del mercato del pesce di Palermo.
Per un approfondimento critico di queste tesi sono preziose le ricerche di Mauro Fotia sulle forme di rappresentanza del potere in Italia e il sistema dei partiti, tra le quali meritano menzione, Le lobby in Italia (Dedalo, 2002), e il suo recente lavoro, Il consociativismo infinito (Dedalo, 2011). Quest’ultimo è una secca e dura critica del trasformismo dei partiti della sinistra condotta in modo analitico e rigoroso nelle diverse fasi storiche: il centrismo degasperiano (1947-1962), l’esperienza di centrosinistra (1962-1972), i governi di solidarietà nazionale (1976-1979), le coalizioni di pentapartito (1983-1992) fino alle vicende più note della Seconda Repubblica e al berlusconismo. Il fallimento dei tentativi fatti di arginare il berlusconismo, con l’Ulivo fino al Partito democratico, è da attribuire, secondo l’autore, al rafforzarsi e generalizzarsi dello spirito consociativo e trasformista che ha ucciso l’idea stessa dell’alternativa e che ha poi spinto la sinistra nelle braccia di un “governo tecnico” appoggiato da Bersani e Berlusconi con l’applauso dei “centristi”. L’analisi di Fotia sul formarsi della cultura dell’Ulivo e del Partito Democratico è pregnante è impietosa. Nasce da una rielaborazione dell’idea della sinistra sull’eguaglianza, piegata all’interpretazione blairiana dell’«uguaglianza delle opportunità», dall’accettazione del concetto di «società di individui» i cui rapporti sono regolabili non dai principi di solidarietà e dai loro legami sociali ma da «relazioni contrattuali soggettive», dall’abbandono della «centralità del lavoro», e infine dal forte affievolimento dei diritti di cittadinanza. Passaggi che rendono estremamente incerte e confuse le nuove concezioni della sinistra sul nesso che lega la cittadinanza civile alla cittadinanza sociale e mettono in forse la dignità del lavoro come valore costituente della democrazia. A conferma, sottolinea Fotia, del fatto che il consociativismo politico s’accompagna sempre col consociativismo socio-economico. L’immagine della socialdemocrazia, presentata come la nuova frontiera della sinistra italiana, si dissolve rapidamente in quella della liberal-democrazia, che fa riesplodere le mai sopite contraddizioni tra la componente laica e quella cattolica del Pd. La presenza di Berlusconi sulla scena politica, a ritmi alterni corteggiato e condannato, favorisce l’occultamento dietro il polverone della questione morale sulla sua persona, del procedere di un rapporto di adesione sostanziale alla politica estera ed economica dell’Italia. Berlusconi traghetta di fatto la sinistra verso il programma del governo tecnico di Monti, intorno al quale si realizza, in una fase storica molto difficile per l’Italia e l’Europa, un blocco consociativista sinistro-conservatore fin qui inimmaginabile.

Link
L’inutile eredità del Pci tra consociativismo e compromesso storico
Caso Penati: l’ipocrisia degli ex Pci-Pds, oggi Pd difronte ai costi della politica/

Giovanni De Luna: «Il governo tecnico sancisce il fallimento della politica»

Le dimissioni di Berlusconi segnano la fine della parabola del berlusconismo oppure è possibile pensare al persistere di un berlusconismo senza Berlusconi? la domanda investe inevitabilemente anche il rovescio del problema: la sorte dell’antiberlusconismo.
Propagine ideologica della guerra civile borghese che ha catalizzato, egemonizzato e sterilizzato ogni potenzialità oppositiva negli ultimi due decenni, ancora una volta l’antiberlusconismo e riuscito a far passare l’idea che fosse necessario accontentarsi di qualsiasi cosa pur di mandare a casa il Cavaliere, rinunciando addirittura alla stessa consultazione elettorale a vantaggio di un governo-direttorio che tra le sue file conta consulenti delle agenzie di rating, banchieri, professori, legulei, generali, tutti esponenti di quel personale tecnico-manageriale che porta per intero la responsabilità del crack dei mercati finanziari

La banda Monti

Paolo Persichetti
Liberazione 13 novembre 2011

Con le dimissioni di Berlusconi siamo al giro di boa di un’epoca? La domanda è d’obbligo soprattutto se l’interrogativo è rivolto al berlusconismo come paradigma, come sistema. Se ne discuterà a lungo nei prossimi anni. Iniziamo a parlarne con lo storico Giovanni De Luna.

Ci sarà un berlusconismo senza Berlusconi?
Come fu per il fascismo il berlusconismo non è stato una parentesi ma una rivelazione che ha messo in luce i guasti profondi della nostra società. Uno dei problemi per il futuro sarà la ricerca degli antidoti per fare fronte al riprodursi di rischi del genere. Quel che mi preoccupa di più oggi è l’effetto che questa epoca ha suscitato sullo spazio pubblico: una sorta di desertificazione. La dimensione valoriale degli italiani è stata completamente risucchiata dentro gli angusti spazi degli  interessi privati. In questo ore così decisive sento una carenza di spinte ideali: mancano orizzonti e prospettive.

Crolla Berlusconi senza che si riesca a percepire una qualsiasi cesura simbolica. Al contrario ci propinano il governo d’emergenza, una nuova forma di consociativismo. Alla dimensione liberatoria, utopica e creativa si sovrappongono i richiami severi al senso di responsabilità, ad un mondo costipato e austero fatto di sacrifici.
Manca la cesura perché non si ha la sensazione del votare pagina, a causa dell’inadeguatezza della classe politica nella sua interezza. Non si ha la sensazione della ricostruzione, che è qualcosa che ti mette dentro la febbre dell’attivismo politico, della voglia di fare, della trasformazione.

Inadeguatezza che sembra tanto più forte proprio in chi dovrebbe incarnare il cambiamento.
Mi spaventa questa assenza di un riferimento, tranne che in Napolitano come avvenne con Ciampi. Gli unici che in questa situazione di desertificazione hanno cercato di coniugare alcuni indicazioni di valori condivisi in cui credere con la dimensione economica.

Napolitano e Ciampi? Non credi che siano loro stessi parte del problema? Non è forse Napolitano stesso che, ben al di là dei limiti previsti dalla costituzione, sta contribuendo a spegnere ogni spinta possibile alla rottura simbolica, anche ad una semplice alternanza?
No, lui sta svolgendo un ruolo di supplenza che è l’altra faccia della certificazione del fallimento della politica. A certificare il fallimento della politica in questi 20 anni è il governo tecnico, dimostrazione del fatto che la politica non è riuscita ad affrontare e risolvere questi problemi. L’altra faccia è il ruolo della presidenza della repubblica, affermatosi già con Ciampi e ora Napolitano. Hanno svolto un ruolo di supplenza rispetto ad una politica chiusa in se stessa, completamente autoreferenziale.

Possiamo dire allora che l’antiberlusconismo si sta dissolvendo nel nulla, in un vuoto?
La fine di Berlusconi e dell’antiberlusconismo non contiene più alibi. Oggi se vuoi stare in campo devi proporre, ricostruire il tessuto di una religione civile, letteralmente fatta a pezzi dal centrodestra che l’ha seppellita sotto l’idea del mercato come feticcio.

In un libro (Il consociativismo infinito. Dal centro-sinistra al Partito democrartico, edizioni Dedalo 2011) Mauro Fotia sostiene che «Il berlusconismo è indubbiamente la prosecuzione del vecchio centrismo consensualista democristiano, anzi, è la sua consumazione». Accenna un parallelo col moroteismo. Una tesi innovativa.
La Dc era per la conservazione dell’ordine esistente, Berlusconi è stato assolutamente eversivo. Nel berlusconismo c’è un estremismo di centro che Moro non conosceva anche se è vero che Berlusconi è stato più l’uomo della continuità che quello della rottura, perché ha ereditato pezzi interi di ceto politico della prima repubblica. Soprattutto ha capitalizzato l’egemonia culturale del pensiero neoliberista e mercatista incubato negli anni 80. Quello con la Lega non è soltanto un patto scellerato ma anche la condivisione di una visione eversiva dell’ordine costituzionale. Lui non tollera le articolazioni istituzionali ma ha puntato unicamente ad una connessione sentimentale con il popolo. Lo vedi Moro fare una cosa del genere?

Certo che no. In Moro la decisione politica giungeva all’apice di lunghi patteggiamenti, contrattatazioni infinite con i corpi intermedi. Nel modello berlusconiano c’è invece lo scavalcamento di tutto ciò. No credi però che il sabotaggio che i centri finanziari hanno fatto del referendum in Grecia e il fatto che in Italia va bene tutto purché non si vada alle elezioni, sia il segno di un rinnovato “odio della democrazia”, per citare Rancière?
Assolutamente, 30 anni di egemonia della destra hanno scardinato le basi della democrazia. Il governo tecnico è una sconfitta per la democrazia e per la politica. Bisogna dirselo con molta chiarezza. Anche se l’eccezionalità della situazione può giustificare il ricorso ad un governo d’emergenza, bisogna capire questa soluzione non rappresenta la fisiologia ma la patologia della democrazia.

Recentemente hai criticato la demonizzazione del debito pubblico.
Oggi il debito viene presentato come una sorta di Moloch. Invece bisogna domandarsi come e quando è stato accumulato: c’è stato un welfare risarcitorio negli anni 70 che ha redistribuito la ricchezza prodotta durante un boom economico realizzato grazie alla compressione dei salari e dei diritti in fabbrica. Il debito degli anni 70 è fisiologico, quello degli anni 80 invece è patologico perché comincia ad ingrassare il ceto politico senza avere più una ricaduta sui servizi pubblici. Ma li chi c’era?

Chi c’era?
Sacconi era lì, Brunetta era lì. Negli anni 80 erano lì, nel cuore della redistribuzione a favore di un ceto politico famelico. Insomma quando si chiama in casua il debito pubblico bisogna riflettere sulla varie fasi che ne hanno favorito la costruzione.

Link
Perché non sciogliere il popolo?
Per il Censis il governo Monti è espressione di una politica prigioniera del primato dei poteri finanziari

Luigi Bisignani & co, il potere opaco che divora l’Italia

Antropologia della Seconda repubblica: notizie riservate, affari, ricatti, politica e favori

Paolo Persichetti
Liberazione 17 giugno 2011

Il sistema oligarchico raffigurato in una disegno d’epoca

«Bisignani è più potente di me». Pare l’abbia detto Silvio Berlusconi riferendosi a l’uomo che l’avrebbe introdotto nella Roma che conta e che ora è finito agli arresti domiciliari in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta denominata P4. Ma chi è questo Luigi Bisignani descritto come un potente lobbista, super ammanicato, personaggio che gode di forti appoggi e protezioni, talvolta illeciti, un tipo senza scrupoli capace di arrivare ovunque, raccogliere ogni tipo di informazione da far poi fruttare per sé e la sua combriccola? «Sì, vedo gente, faccio cose, risolvo problemi», rispose una volta a chi gli chiedeva quale fosse il suo lavoro. Tuttavia lontano mille anni luce dal Nanni Moretti di Ecce bombo. I profili apparsi sui quotidiani di questi giorni lo descrivono come ex giornalista dell’Ansa, anche se in un comunicato l’ordine dei giornalisti fa sapere di averlo definitivamente radiato nel 2002. Nato a Milano nel 1953, figlio di un manager della Pirelli, nel 1981 – quando aveva solo 28 anni – il suo nome è comparso negli elenchi della P2, tessera numero 1689, data di iscrizione 1 gennaio 1977. Gira voce, ma forse è solo una legenda, che fu lui stesso a dettare la notizia all’Ansa. A dire il vero, Bisignani ha sempre negato l’iscrizione alla loggia di cui il venerabile Gelli sarebbe stato solo il numero 3. «Ero troppo giovane», la sua obiezione. Eppure ciò non gli impedì di essere già piazzato in posti chiave, tra il 1976 e il 1979, quando svolse il ruolo di capo ufficio stampa del ministro del Tesoro Gaetano Stammati nei governi presieduti da Andreotti. L’uomo politico che più di ogni altro l’ha aiutato e sostenuto negli anni, insegnandogli a tessere relazioni, costruire potere d’influenza sulla base di rapporti, contatti, informazioni, segreti. Sempre vicino allo Ior, negli anni 80 finisce alla Ferruzzi, di cui diventa direttore delle relazioni esterne. Raul Gardini aveva bisogno di uno come lui, con un’agenda stracolma di nomi pesanti capaci di aprirgli le porte che servono per le sue scalate. Bisignani è un trade-union fondamentale per entrare in contatto con i circoli che contano, i luoghi dove si costruiscono le decisioni importanti. In questo modo rimane coinvolto nella vicenda della maxi-tangente Enimont. Uno degli episodi chiave di Tangentopoli. La madre di tutte le tangenti (92 miliardi di lire) finita in tasca a tutti i partiti, compresi Lega nord e Pci. Dopo una prima latitanza si costituisce e subisce una condanna a 2 anni e 8 mesi per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Robetta che non intacca il suo cursus honorum. Traghetta senza problemi la Prima repubblica e si inabissa nei meandri della nascente Seconda. E’ l’espressione più compiuta dell’inconsistenza di Mani pulite, che incattivì soltanto il Paese spianando la strada ai populismi e favorendo palesemente un processo di oligarchizzazione della società italiana, liberata ormai da forme di politica che organizzavano le masse alle quali ormai era destinata soltanto la tv. Il Termidoro berlusconiano che concludeva l’offensiva delle procure è per Bisignani, e per tanti come lui, una sorta di paradiso insperato. Le pratiche lobbistiche si moltiplicano, le relazioni politiche e i meccanismi della finanza e dell’economia si opacizzano ulteriormente. Dominano comitati d’affari, cricche, furbetti del quartierino, club di iniziati. Bisignani è a suo agio. Dicono che sia il migliore. Compare nell’inchiesta sull’Alta velocità e viene perquisito durante l’inchiesta «Why not» condotta da Luigi De Magistris. L’ipotesi di reato era la violazione della legge Anselmi contro i gruppi di potere occulto. Ma a saltare è il pm poi diventato sindaco di Napoli. Oggi il retroscena, stando a quanto ricostruito dalla procura, appare più chiaro. Bisignani, infatti, agiva in coppia con Alfonso Papa, un rampante quarantenne, pubblico ministero a Napoli, oggi parlamentare del Pdl, ex vice-capo di gabinetto al ministero della Giustizia quando Guardasigilli era il leghista Roberto Castelli. Tanto per intenderci capo di cabinetto era un altro magistrato, il procuratore generale Settembrino Nebbioso, finito nelle liste di favori di Anemone, il costruttore romano legato alla banda Bertolaso-Balducci. Con l’avvento del governo Prodi, Papa non solo restò a via Arenula ma venne promosso direttore generale degli affari civili. Fu proprio Mastella, dopo la perquisizione a Bisignani, ad avviare la procedura disciplinare che portò al trasferimento di De Magistris. Ma ora secondo quanto ricostruito dai pm Francesco Greco, Henry Woodcock e Franco Curcio, c’è molto di più. Descritto come «soggetto più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali e con forti collegamenti con i servizi di sicurezza», a Bisignani si rimprovera l’acquisizione, grazie a Papa che si avvaleva della collaborazione di ufficiali della Ps e dei Ros, di notizie riservate e sotto segreto istruttorio che avrebbero compromesso l’esito di alcune inchieste giudiziarie. In particolare su Finmeccanica, l’ex dg della Rai Masi, il coordinatore del Pdl Denis Verdini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l’onnipresente Gianni Letta. Oltre ad aver pesato nella scelta di alcune nomine per gli enti pubblici.

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Il magistrato e la lobby dei generali
Nella lista di Anemone l’intero establishment: lavori o favori?
La ragnatela di Anemone e la lista che fa paura

Alessandro Dal Lago: “La sinistra televisiva? Un berlusconismo senza Berlusconi”

“Non si scherza con i santi”

Roberto Santoro
L’Occidentale Web, 8 Dicembre 2010


Mesi fa avevamo intervistato il sociologo Alessandro Dal Lago su “Eroi di carta”, un piccolo ma deflagrante pamphlet su Roberto Saviano. Nel frattempo l’autore di “Gomorra” è sbarcato in televisione con Fabio Fazio, come pure di novità, nello scenario politico nazionale, ce ne sono state tante. Così abbiamo pensato di risentire il professor Dal Lago, un uomo di sinistra che alla sua parte politica, come pure al governo e ai mezzi di comunicazione di massa, non ne lascia passare una. Abbiamo scoperto che i nostri dubbi su “Vieni via con me” non erano così infondati: mentre i giovani vanno in cerca di eroi come Saviano, e gli uomini politici si atteggiano a grandi moralizzatori, sono in pochi ad accorgersi dei rischi finanziari che corre l’Italia in un momento di grande incertezza politica.

Professor Dal Lago, com’è andata con “Eroi di Carta”?
E’ uscita da poco una seconda edizione del libro, con una postfazione intitolata “Non si scherza con i santi. Una postilla sul declino dello spirito critico in Italia”.

San Saviano?
Sono intervenuto sulle polemiche successive alla pubblicazione del saggio. La postilla è un testo che risale allo scorso luglio e che in parte mi è servito come ponte per la ricerca che sto preparando adesso, un lavoro sulla “sinistra televisiva”.

Saviano da eroe di carta a eroe catodico.
Francamente, non m’interessa più parlare di lui. Ormai è un personaggio codificato nel ruolo dello showman. D’altra parte, anche il mio libretto non era un attacco al personaggio, ma una riflessione su certi meccanismi mediali e letterari.

Era meglio lo scrittore?
In televisione la resa di Saviano non è stata granché, come hanno osservato anche alcuni critici televisivi. La tv non è il suo mezzo, mi è parso molto ingessato.

Ha attaccato la Camorra.
Tutto quel parlare sulle origini mitologiche della Camorra, come se fosse chissà quale rivelazione… informazioni che si trovano ovunque, basta aprire Wikipedia, se non si ha voglia di leggere un libro di uno storico serio.

Eppure “Vieni via con me” ha fatto oltre il 30 per cento di share, sorpassando il “Grande Fratello”.
Nello show è emerso come vero regista della liturgia Fabio Fazio, è lui il nuovo grande cerimoniere della televisione italiana. Vespa mi sembra al tramonto.

Qual è la sinistra televisiva, quella dei salotti?
I salotti di sinistra non esistono più, erano una roba degli anni sessanta e settanta. Ha presente “La terrazza” di Scola?

Sì, ma adesso cosa c’è al loro posto?
Direi che la sinistra televisiva è quella che pensa di creare consensi con un mezzo, la tv, che per tanto tempo è stata governata dal modello berlusconiano. Un berlusconismo senza Berlusconi. L’audience a cui mira Fazio è un pubblico particolare, un elettorato che voterebbe per il Pd ma è affascinato da Fini e magari non disdegna Casini. Un pezzo di “società civile”, fluttuante, giovanile, delusa, contraria al governo, anche se credo si tratti in fondo di una minoranza.

Parliamo dei politici invitati a “Vieni via con me”.
E’ un discorso che riguarda la comunicazione politica tradizionale: la tv impone certe regole a cui i politici debbono adeguarsi; così, tutto si equivale. Restano le contrapposizioni puramente formali, non i contenuti o le idee. “Vieni via con me” aggiunge un aspetto inedito: il piccolo schermo vince sulla politica.

In che senso?
I politici si subordinano a un copione già scritto, che non è il loro, sotto lo sguardo tra l’ironico e compunto di Fazio. Penso agli “elenchi” di Fini e Bersani, al ministro Maroni che prima attacca Saviano e poi va ospite in trasmissione e legge il suo elenchino di successi, subordinandosi anche lui al frame mediatico.

Cosa c’è di così pericoloso?
Stiamo assistendo a un processo di desemantizzazione del linguaggio politico. Ho riletto gli “elenchi” recitati dagli ospiti durante lo show e in particolare quelli di Bersani e Fini, che mi sembrano, se non proprio uguali, complementari… L’aspetto più preoccupante di questo fenomeno è l’adesione giovanile verso dei miti ingenui e naif. Il riconoscimento, l’identificazione del pubblico in questo o quell’altro eroe televisivo, mi sembra qualcosa di profondamente irrazionale.

Nella nostra precedente intervista concludeva dicendo che i ragazzi di oggi non si accorgono dei loro problemi concreti: la casa, il lavoro. Intanto sono andati sui tetti.
Se è per questo ci sono andati anche Bersani e Granata. Trovo che il comportamento di quest’ultimo sia veramente curioso: prima sale sui tetti con gli studenti e poi vota per far passare il Dl Gelmini.

Vendola invece dice che la gestione dell’ordine pubblico nelle ultime settimane è stata “criminale”, evocando il Cile di Pinochet.
Il governatore della Puglia esagera, ma fa il suo mestiere, si infila in un vuoto lasciato dal Pd anche se non credo che alla fine ci riuscirà. Ma trovo che la polizia italiana sia spesso incapace di gestire l’ordine pubblico, questo me lo lasci dire. E che i politici contribuiscano a diffondere un’isteria radicale: gli studenti lanciano qualche uovo e subito si parla di terrorismo, “atti di inaudita violenza” secondo il Presidente Schifani e così via.

Vendola evoca l’esempio di Aldo Moro spiegando che il leader della DC impedì che il Sessantotto finisse nella repressione.
Nel Sessantotto io c’ero e le manganellate le ho viste e un paio ne ho anche prese.

Lei insegna all’università. Che ne pensa della riforma?
Trovo che aspetti teorici della riforma come l’idoneità nazionale, la chiamata diretta da parte dei dipartimenti, al limite anche il “4+4” per i ricercatori se fosse seguito da concrete possibilità di carriera – come il tenure track, cioè un percorso che porta al posto fisso -, potrebbero anche essere accettati, e in fondo c’è un buon numero di docenti che concordano.

Ma?
La questione è un’altra, i tagli voluti da Temonti e accettati dal ministro Gelmini. Personalmente sono contro i tagli (ricordo che l’Università italiana è agli ultimi posti tra i paesi Ocse per quota di finanziamenti sul Pil), contro l’ingresso dei privati nei cda degli atenei (senza che i privati versino un euro), contro l’idea che i cda divengano più importanti del Senato accademico.

Tremonti ha promesso che i fondi arriveranno.
Vado e vengo dagli Stati Uniti. Negli Usa in molte università hanno tagliato il 10% dello stipendio ai professori, presto lo farà anche Zapatero e non si capisce come si troveranno i fondi in Italia con l’aria che tira.

C’è un collegamento con “Vieni via con me”?
Mentre nel mondo parallelo della tv i ragazzi dicono “io sono Saviano” – basta dare un’occhiata ai blog – e i politici si atteggiano a moralisti catodici, autorevoli quotidiani economici come il Wall Street Journal scrivono che la situazione economica dell’Italia è sull’orlo del baratro, in un contesto in cui lo scandalo di WikiLeaks ha indebolito il premier Berlusconi davanti ai suoi alleati.

Faremo la fine della Grecia?
Gli speculatori potrebbero prendere di mira l’Italia ma il nostro mercato rappresenta una quota troppo importante di quello europeo e l’Unione non può permettersi una crisi di sistema. E’ evidente che la debolezza del governo Berlusconi non permette di gestire quel piano di austerity richiesto dall’Europa per tenere sotto controllo il debito senza deprimere troppo la crescita e i consumi. Questa mi sembra la vera cifra dell’attuale crisi, e in fondo un governo d’emergenza, diciamo, così per celia, da Letta a Tremonti a Fini e Casini, magari con ‘appoggio esterno’ del Pd, è quello che farebbe alla bisogna…

L’ha visto il sequel di Wall Street? Anche Gordon Gekko è diventato obamiano.
Gli anni ottanta furono l’epoca delle grandi speculazioni private. Stavolta l’esposizione bancaria e la crisi dei mutui americani hanno bruciato enormi ricchezze pubbliche. La speculazione attacca gli stati. In ogni caso, se l’Italia dovesse andare in default sarà l’Occidente stesso a pagarne le conseguenze.

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Alessandro Dal Lago:“La sinistra televisiva un berlusconismo senza berlusconi”

Il capo della Mobile di Napoli: “Vi spiego perché ero contrario alla scorta per Roberto Saviano”

Aldo Grasso: “Vieni via con me un po’ come a messa”
Daniele Sepe scrive un rap antiSaviano: “E’ intoccabile più del papa”
Il razzismo anticinese di Saviano. L’Associna protesta
La denuncia del settimanale albanese: “Saviano copia e pure male”
Il paradigma orwelliano impiegato da Roberto Saviano
Saviano in difficolta dopo la polemica su Benedetto Croce
Marta Herling: “Su Croce Saviano inventa storie”
Saviano, prime crepe nel fronte giustizialista che lo sostiene

Ma dove vuole portarci Saviano
Il ruolo di Saviano. Considerazioni dopo la partecipazione a “Vieni via con me”
Pg Battista: “Come ragalare un eroe agli avversari. Gli errori della destra nel caso Saviano”
Non c’è verità storica: il Centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano
Diffida e atto di messa in mora. Rettifica libro “La parola contro la camorra” di Roberto Saviano
Castelvolturno, posata una stele per ricordare la strage di camorra ma Saviano non c’era e il sindaco era contro
Alla destra postfascista Saviano piace da morire
Populismo penale

Il diritto di criticare l’icona Saviano
La libertà negata di criticare Saviano
Saviano, l’idolo infranto
Pagliuzze, travi ed eroi
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”

PG Battista: «Come regalare un eroe agli avversari. Gli errori della destra nel caso Saviano»

 

Pierluigi Battista c’arriva un po’ in ritardo, ma c’arriva. Quanto scrive ricalca cose dette diverso tempo fa da Pietrangelo Buttafuoco: la destra è stupida perché non capisce che Saviano è uno dei suoi e lo spinge nelle braccia della sinistra, convinta che l’autore di Gomorra sia la punta più avanzata del suo schieramento. A dire il vero in questa storia non si capisce bene chi sia il più stupido: se la destra o la sinistra. Di Pietro, Travaglio, ora Saviano, nell’immaginario della sinistra s’aggirano personaggi che nulla hanno a che vedere con le matrici culturali ed anche i più elementari punti di riferimento di una vaga sinistra. Il malinteso di fondo, ciò che sconbussola tutti i punti cardinali è in realtà la figura di Berlusconi, il berlusconismo. Non è vero che la destra sia tutta ostile a Saviano. Lo è la destra berlusconiana, la destra aziendale, quella più cortigiana e servile con il padrone di Mediaset. Il resto della destra che oggi guarda a Fini vede in Saviano un simbolo forte, un testimonial efficace del proprio discorso. Non parliamo poi degli apparati statuali.
E la sinistra? E’ vittima di un antiberlusconismo che fa velo su tutto. Un vero paraocchi assolutamente speculare al suo contrario. Il sintomo della scomparsa di ogni autonomia critica e progettuale. Senza più bussola, Belusconi è diventato la stella polare. Andargli contro, senza vedere altro e ingoiando di tutto, è rimasta l’unica via per pensare di arrivare a sopravvivere. E così va bene qualsiasi cosa si incontri lungo questa rotta: populisti di ogni risma, la confindustria, i banchieri, l’elenco è lungo come le sconfitte. Finito Berlusconi cosa rimarrà? Parafrasando il titolo di un film dei fratelli Vanzina (cantori un tempo del primo Berlusconismo rampante), potremmo rispondere: Sotto l’antiberlusconismo niente

Pierluigi Battista
Corriere della sera 23 ottobre 2010

Davvero formidabile, la capacità della destra italiana di moltiplicare i suoi nemici. E che straordinario impulso masochista nel regalare alla sinistra Roberto Saviano, che di sinistra pure non è. Che capacità di frustrare ogni simpatia, di scoraggiare ogni contatto anche in chi, come Saviano, non è necessariamente animato da un’ostilità preconcetta nei confronti di questa maggioranza. Eppure si dovrebbe sapere, oramai, che il mussoliniano «molti nemici, molto onore» è solo una manifestazione di puerile strafottenza. La destra forse non sa che Saviano si è pubblicamente congratulato con il ministro Maroni per le brillanti operazioni di polizia che hanno cominciato a smantellare la cupola camorrista di «Gomorra»: e in cambio ha ricevuto molti e risentiti rimbrotti della sinistra. La destra forse non sa che per aver inviato un video di solidarietà a una manifestazione pro-Israele, Saviano è stato fatto oggetto dei peggiori insulti sui siti e sui blog «anti-imperialisti» che lo hanno bollato nientemeno che come un mercenario «al soldo dei sionisti». La destra forse non sa che dopo un appassionato intervento in tv, Saviano è riuscito a convincere molti lettori ad acquistare I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, uno dei più sconvolgenti capi d’accusa contro il Gulag e le «atrocità del comunismo» (parole di Saviano) su cui «è calato il silenzio da troppo tempo» (sempre parole di Saviano). La destra forse non sa che per aver dichiarato in un’intervista di apprezzare gli scritti di Ezra Pound, alcuni intellettuali di sinistra hanno dichiarato il loro ostracismo nei confronti di Saviano. La destra forse non sa che i peggiori attacchi a Saviano, negli ultimi mesi, sono venuti da sinistra, dai libri editi dal manifesto, dagli scrittori che non sopportano che un loro collega vada troppo in televisione, perché andare troppo in televisione fa troppo «berlusconiano». Oggi Saviano, nella stampa della destra, è diventato il simbolo dell’intellettuale del «regime culturale» della sinistra. Un avversario così spregevole da pretendere addirittura di essere pagato per una trasmissione televisiva (ma come, non si era detto che il mercato non doveva essere demonizzato?). Ed è tale la diffidenza, il sospetto, l’ostilità, l’antipatia nei confronti di Saviano che si è dovuta allestire una trincea di «scalette» televisive per arginarlo, neutralizzarlo, metterlo nelle condizioni di non nuocere, di non dire cose troppo compromettenti. Il risultato è, per il momento, catastrofico. L’impressione generale oramai è che la destra abbia paura di Roberto Saviano, di quello che può dire, delle simpatie che può attirare tra gli avversari del governo. La seconda impressione è che la destra viva ormai prigioniera di una sindrome dell’assedio che scorge dappertutto i segnali occulti di complotti, cospirazioni, manovre contro il governo. E se chi è sospettato non fa parte a pieno titolo della schiera dei detrattori più feroci, ci pensa la destra a scavare il fossato che lo porta dall’ altra parte, a rinfoltire l’esercito degli avversari. Ecco così il nuovo caso. Non solo il caso Santoro. Non solo il caso Travaglio. Non solo il caso Gabanelli. Non solo il caso Floris. Ma adesso il caso Saviano. Un altro nuovo iscritto alla tribù delle vittime del bavaglio, vero o immaginario. Anche se il nuovo iscritto non è della tribù della sinistra: l’importante è farlo diventare, con uno spirito autodistruttivo davvero incomprensibile nello schieramento che vince un’elezione dopo l’altra e perciò dovrebbe mostrare la forza della tranquillità e non il terrore di chi è rinchiuso in una fortezza. Certo, Saviano firma gli appelli contro il governo. Certo, non fa niente per non lasciarsi arruolare nella sinistra firmaiola che vuole fare dell’autore di Gomorra un’icona, un santino, un paladino del Bene in lotta perenne contro il Male (berlusconiano). Ma da destra mai un gioco di sponda, un riconoscimento, una parola di solidarietà per chi, comunque, è costretto a vivere una vita blindata a causa delle minacce camorriste. Come se l’unico gioco che la destra è in grado di condurre è quello del vittimismo, del regalare alla sinistra anche ciò che alla sinistra non appartiene di diritto. Un vittimismo di maggioranza, un vittimismo dei vincitori: ecco l’unicum italiano. E nel vittimismo, ogni sfumatura viene schiacciata. Ogni interlocuzione con chi è diverso ma non nemico viene sommersa dall’urlo della curva che vede comunisti dappertutto, che percepisce la Rai come un fortino della sinistra e una trasmissione con Saviano come un assalto illegittimo al governo. «Molti nemici, molto onore»: e si sa come andò a finire.

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Non c’è verità storica: il Centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano
Diffida e atto di messa in mora. Rettifica libro “La parola contro la camorra” di Roberto Saviano
Castelvolturno, posata una stele per ricordare la strage di camorra ma Saviano non c’era e il sindaco era contro
Alla destra postfascista Saviano piace da morire
Populismo penale

Il diritto di criticare l’icona Saviano
La libertà negata di criticare Saviano
Saviano, l’idolo infranto
Pagliuzze, travi ed eroi
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”

Nella lista di Anemone l’intero establishment, lavori o favori?

Tra i nomi anche Settembrino Nebbioso, capo di gabinetto del Guardasigilli Angelino Alfano

Paolo Persichetti
Liberazione 14 maggio 2010

La «cricca» comprava la complicità di politici, ministri e sottosegretari del governo, e di altri personaggi situati in posizioni d’influenza, offrendo interventi di ristrutturazione o addirittura regalando facoltose abitazioni, come si sospetta sia accaduto con l’appartamento, vista Colosseo, acquistato, «a sua insaputa», dall’ex ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola? Se questa è una nuova Tangentopoli, vuol dire che la politica si svende per un piatto di lenticchie. Almeno nella prima repubblica si finanziavano partiti e correnti. Dopo la lista delle consulenze d’oro ritrovata in casa di Mauro Della Giovampaola, il funzionario del ministero dell’Infrastrutture e coordinatore dell’Unità tecnica di missione della presidenza consiglio dei ministri,  nella quale comparivano figli di funzionari o magistrati che potevano agevolare l’attribuzione di appalti, ricompensati con incarichi a “tempo determinato”, ora è uscita fuori anche la lista dei lavori, circa 370 interventi, svolti dalle società di Anemone per esponenti del mondo della politica, di magistrati con incarichi di governo, di prelati della Curia vaticana, funzionari Rai e registi. Uno spaccato impressionante del sistema di relazioni costruito dalla «cricca». Ministeri, salotti, caserme. La lista, trovata nel 2009 dalla Guardia di finanza nel computer del costruttore, sembra che non fosse conosciuta della procura di Perugia che sta indagando sulla vicenda degli appalti straordinari per i grandi eventi. Per questo motivo i magistrati stanno valutando l’opportunità di avviare un’inchiesta. Le otto pagine che stanno facendo tremare l’establishment conterrebbe una quarantina di nomi per foglio, con indicato sulla sinistra il numero progressivo e l’anno dei lavori e sulla destra il nominativo o l’indirizzo. Ampi stralci della lista sono apparsi ieri su molti quotidiani e subito sono piovute smentite e precisazioni. In effetti il testo di per sé non prova nulla. Si tratta di un promemoria dei lavori condotti dalle ditte di proprietà di un imprenditore, certamente molto addentro alle relazioni con il mondo che conta. Saranno gli inquirenti a dover svolgere un paziente lavoro di verifica sulla regolarità degli interventi svolti. Compaiono i nomi di politici e sottosegretari, come Settembrino Nebbioso, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Angelino Alfano e a suo tempo anche dell’ex guardasigilli Roberto Castelli, che però ha subito smentito ogni coinvolgimento. Pm della procura romana, figurerebbe nella lista col diminutivo di «Rino Nebbioso». Forse si tratta di una disgraziata omonimia, certo è che nel vasto portafoglio clienti di Anemone cruciali sono gli appalti di edilizia carceraria per la costruzione del nuovo carcere di Sassari e del reparto 41 bis. Non è andata allo stesso modo per Ercole Incalza, il super funzionario del ministero delle Infrastrutture che dopo l’accusa di aver ricevuto mezzo milione di euro da uno dei membri della «cricca», l’architetto Angelo Zampolini già coinvolto nella storia degli assegni versati per l’acquisto dell’appartamento di Scajola, ha offerto le sue dimissioni. Ex amministratore dell’Alta velocità, Incalza è già finito 14 volte sotto inchiesta e pure in carcere quando lavorava con Lunardi, salvato alla fine da ripetute prescrizioni. Tra i nomi compare quello di Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, citato per dei lavori avvenuti nella sua casa quando era ministro dell’Interno. Ci sono poi quelli dell’attuale capo della polizia Antonio Manganelli e del suo predecessore Gianni De Gennaro, oggi ai vertici dei Servizi. C’è Guido Bertolaso, nei confronti del quale sono indicati tre interventi e non uno solo, come da lui anticipato nei giorni scorsi. C’è il generale della Guardia di finanza, Francesco Pittorru, ci sono i coimputati di Anemone, Claudio Rinaldi e Mauro Della Giovanpaola. Compare l’alto funzionario Rai Giancarlo Leone, figlio dell’ex presidente della repubblica Giovanni Leone, e un paio di registi. Sembra infatti che Angelo Balducci, il potente dirigente dei lavori pubblici che calamitava gli appalti verso le ditte di Anemone, per favorire la carriera cinematografica del figlio elargisse favori a molti personaggi del cinema. La lista contiene anche riferimenti all’immensa mole di appalti ottenuti per palazzi istituzionali, ministeri, caserme, chiese e sedi politiche.

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La ragnatela di Anemone e la lista che fa paura
Il magistrato e la lobby dei generali
Luigi Bisignani &co, il potere opaco che divora l’Italia

«Rabbia populista» o «nuova lotta di classe»?

Francia, fabbriche in rivolta: bloccati i premi per i manager. Si apre la discussione di fronte alla crisi economica

Paolo Persichetti
Liberazione 27 marzo 2009

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«Rabbia populista» o nuova «lotta di classe»? Ieri sulle pagine dei più grandi quotidiani nazionali campeggiava questa domanda: un nuovo spettro si sta aggirando per il globo?
Commenti preoccupati e cronache inquiete s’interrogavano sul reale significato delle notizie provenienti dagli Stati uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. A New York, dopo l’arresto del magnate della speculazione finanziaria Maddof e la minaccia del Congresso di tassare con un’aliquota del 90% i bonus padronali, i dieci manager più pagati del colosso delle assicurazioni mondiali Aig, tra i più coinvolti nel crack delle Borse, hanno restituito i bonus milionari ricevuti come premi per i loro disastri. Per farli rinunciare a un po’ della loro famelica ingordigia è bastato un fine settima di picchetti organizzati da manifestanti davanti alle loro megaville blindate e con l’immancabile piscina.
A Edinburgo, in piena notte, il villone di Sir Fred Goodwin, l’amministratore delegato che ha portato al collasso la Royal bank of Scotland, per poi andarsene serenamente in pensione con un bonus di 16,9 milioni di sterline, alla faccia di migliaia correntisti ridotti al lastrico per aver creduto nei portafogli azionari offerti dai servizi finanziari dell’istituto di credito, è stato assalito da un gruppo di attivisti che hanno rivendicato l’azione con la sigla Bank bosses are criminals, «I banchieri sono dei criminali». Motto che riecheggia quello delle curve da stadio di mezza Europa, All corps are bastards, «Tutte le guardie sono bastarde».
Nel centro della Francia, a Pithiviers, Luc Rousselet, amministratore delegato della 3M, società farmaceutica americana in procinto di licenziare 110 dei suoi 235 dipendenti, è stato “trattenuto” negli uffici dell’azienda per oltre 30 ore dagli operai che era venuto ad incontrare. I lavoratori esigevano dei negoziati con l’azienda sulle modalità del piano di crisi che dovrà accompagnare la brusca riduzione di personale.
Ovviamente per gli operai non si è trattato di un «sequestro», com’è stato scritto sposando il punto di vista “padronale”, ma di un imprevisto prolungamento d’orario della giornata di lavoro del loro capo. Uno straordinario giustificato dall’eccezionalità della situazione venuta a crearsi. I 2700 lavoratori della 3M France, società ripartita su 11 siti, conosciuta per la produzione di “post-it” e del nastro adesivo “Scotch”, sono in sciopero illimitato dal 20 marzo. Un episodio analogo era già accaduto il 12 marzo scorso, quando il presidente-direttore generale di Sony France, Serge Foucher, era stato anche lui costretto a uno “straordinario notturno” in compagnia delle sue maestranze in lotta. Lo stabilimento di Pontonx-sur-l’Adour, nelle Lande, impiega 311 persone e la sua chiusura è fissata per il 17 aprile prossimo. Al direttore della Continental, invece, è toccato in sorte un fitto lancio di uova da parte dei 1120 addetti dell’impianto di Claroix, che proprio ieri sono stati ricevuti in delegazione da un consigliere di Sarkozy all’Eliseo.
Questa volta gli operai non sono isolati, hanno alle spalle il sostegno dell’opinione pubblica indignata di fronte alla notizia dei mega compensi attribuiti ai manager d’imprese che licenziano o di banche in deficit dopo aver sperperato il denaro dei clienti.
La rabbia è montata di fronte alle parole di Laurence Parisot, presidente della confindustria francese, che si era detta indisponibile di fronte alla richiesta del presidente della repubblica d’intervenire sui consigli d’amministrazione affinché i manager rinunciassero ai premi elargiti sotto varie forme (stock options, ovvero azioni con remunerazioni privilegiate, liquidazioni d’oro o pensioni stratosferiche). Il primo ministro ha dovuto annunciare il varo di un decreto per vietare l’attribuzione di questi bonus e stock options per le aziende che ricevono aiuti dallo Stato. A questo punto, dopo le resistenze iniziali, Gerard Mastellet e Jean-Francois Cirelli, presidente e vice presidente di Gdf-Suez, il gigante francese dell’energia, hanno dovuto rinunciare ai loro compensi supplementari piegandosi – hanno detto con malcelata ipocrisia – al «senso di responsabilità».
I titoli tossici immessi nei circuiti finanziari stanno forse scatenando la reazione di sani anticorpi sociali? All’estero, certo non in Italia, l’ira popolare sta cambiando bersaglio: dalla «Casta» alla «Borsa», dai «politici» ai «padroni»; che la barba di Marx stia di nuovo spuntando?
Quel che sta accadendo, in particolare al di là delle Alpi, dimostra quanto devastante sia stata da noi la prolungata stagione del giustizialismo, con il suo corollario d’ideologia penale e vittimismo seguiti alle ripetute emergenze giudiziarie. Il decennio 90 si è accanito contro i corrotti della politica assolvendo i corruttori dell’economia, aprendo la strada non solo alla vittoria politica del partito azienda ma alla sua egemonia politico-culturale sulla società.
Vedremo più in là se ha ragione L’Economist quando descrive, un po’ alla Ballard, l’albeggiare di una rivoluzione del ceto medio proletarizzato; o se invece ci sarà un’irruzione di protagonismo del nuovo precariato sociale. Una cosa è certa: oltreconfine hanno individuato la contraddizione da attaccare. È tutta la differenza che passa tra allearsi contro i padroni o fare le ronde contro i romeni. Ma quel che resta della sinistra italiana l’avrà capito?

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