Le dimissioni di Berlusconi segnano la fine della parabola del berlusconismo oppure è possibile pensare al persistere di un berlusconismo senza Berlusconi? la domanda investe inevitabilemente anche il rovescio del problema: la sorte dell’antiberlusconismo.
Propagine ideologica della guerra civile borghese che ha catalizzato, egemonizzato e sterilizzato ogni potenzialità oppositiva negli ultimi due decenni, ancora una volta l’antiberlusconismo e riuscito a far passare l’idea che fosse necessario accontentarsi di qualsiasi cosa pur di mandare a casa il Cavaliere, rinunciando addirittura alla stessa consultazione elettorale a vantaggio di un governo-direttorio che tra le sue file conta consulenti delle agenzie di rating, banchieri, professori, legulei, generali, tutti esponenti di quel personale tecnico-manageriale che porta per intero la responsabilità del crack dei mercati finanziari

La banda Monti
Paolo Persichetti
Liberazione 13 novembre 2011
Con le dimissioni di Berlusconi siamo al giro di boa di un’epoca? La domanda è d’obbligo soprattutto se l’interrogativo è rivolto al berlusconismo come paradigma, come sistema. Se ne discuterà a lungo nei prossimi anni. Iniziamo a parlarne con lo storico Giovanni De Luna.
Ci sarà un berlusconismo senza Berlusconi?
Come fu per il fascismo il berlusconismo non è stato una parentesi ma una rivelazione che ha messo in luce i guasti profondi della nostra società. Uno dei problemi per il futuro sarà la ricerca degli antidoti per fare fronte al riprodursi di rischi del genere. Quel che mi preoccupa di più oggi è l’effetto che questa epoca ha suscitato sullo spazio pubblico: una sorta di desertificazione. La dimensione valoriale degli italiani è stata completamente risucchiata dentro gli angusti spazi degli interessi privati. In questo ore così decisive sento una carenza di spinte ideali: mancano orizzonti e prospettive.
Crolla Berlusconi senza che si riesca a percepire una qualsiasi cesura simbolica. Al contrario ci propinano il governo d’emergenza, una nuova forma di consociativismo. Alla dimensione liberatoria, utopica e creativa si sovrappongono i richiami severi al senso di responsabilità, ad un mondo costipato e austero fatto di sacrifici.
Manca la cesura perché non si ha la sensazione del votare pagina, a causa dell’inadeguatezza della classe politica nella sua interezza. Non si ha la sensazione della ricostruzione, che è qualcosa che ti mette dentro la febbre dell’attivismo politico, della voglia di fare, della trasformazione.
Inadeguatezza che sembra tanto più forte proprio in chi dovrebbe incarnare il cambiamento.
Mi spaventa questa assenza di un riferimento, tranne che in Napolitano come avvenne con Ciampi. Gli unici che in questa situazione di desertificazione hanno cercato di coniugare alcuni indicazioni di valori condivisi in cui credere con la dimensione economica.
Napolitano e Ciampi? Non credi che siano loro stessi parte del problema? Non è forse Napolitano stesso che, ben al di là dei limiti previsti dalla costituzione, sta contribuendo a spegnere ogni spinta possibile alla rottura simbolica, anche ad una semplice alternanza?
No, lui sta svolgendo un ruolo di supplenza che è l’altra faccia della certificazione del fallimento della politica. A certificare il fallimento della politica in questi 20 anni è il governo tecnico, dimostrazione del fatto che la politica non è riuscita ad affrontare e risolvere questi problemi. L’altra faccia è il ruolo della presidenza della repubblica, affermatosi già con Ciampi e ora Napolitano. Hanno svolto un ruolo di supplenza rispetto ad una politica chiusa in se stessa, completamente autoreferenziale.
Possiamo dire allora che l’antiberlusconismo si sta dissolvendo nel nulla, in un vuoto?
La fine di Berlusconi e dell’antiberlusconismo non contiene più alibi. Oggi se vuoi stare in campo devi proporre, ricostruire il tessuto di una religione civile, letteralmente fatta a pezzi dal centrodestra che l’ha seppellita sotto l’idea del mercato come feticcio.
In un libro (Il consociativismo infinito. Dal centro-sinistra al Partito democrartico, edizioni Dedalo 2011) Mauro Fotia sostiene che «Il berlusconismo è indubbiamente la prosecuzione del vecchio centrismo consensualista democristiano, anzi, è la sua consumazione». Accenna un parallelo col moroteismo. Una tesi innovativa.
La Dc era per la conservazione dell’ordine esistente, Berlusconi è stato assolutamente eversivo. Nel berlusconismo c’è un estremismo di centro che Moro non conosceva anche se è vero che Berlusconi è stato più l’uomo della continuità che quello della rottura, perché ha ereditato pezzi interi di ceto politico della prima repubblica. Soprattutto ha capitalizzato l’egemonia culturale del pensiero neoliberista e mercatista incubato negli anni 80. Quello con la Lega non è soltanto un patto scellerato ma anche la condivisione di una visione eversiva dell’ordine costituzionale. Lui non tollera le articolazioni istituzionali ma ha puntato unicamente ad una connessione sentimentale con il popolo. Lo vedi Moro fare una cosa del genere?
Certo che no. In Moro la decisione politica giungeva all’apice di lunghi patteggiamenti, contrattatazioni infinite con i corpi intermedi. Nel modello berlusconiano c’è invece lo scavalcamento di tutto ciò. No credi però che il sabotaggio che i centri finanziari hanno fatto del referendum in Grecia e il fatto che in Italia va bene tutto purché non si vada alle elezioni, sia il segno di un rinnovato “odio della democrazia”, per citare Rancière?
Assolutamente, 30 anni di egemonia della destra hanno scardinato le basi della democrazia. Il governo tecnico è una sconfitta per la democrazia e per la politica. Bisogna dirselo con molta chiarezza. Anche se l’eccezionalità della situazione può giustificare il ricorso ad un governo d’emergenza, bisogna capire questa soluzione non rappresenta la fisiologia ma la patologia della democrazia.
Recentemente hai criticato la demonizzazione del debito pubblico.
Oggi il debito viene presentato come una sorta di Moloch. Invece bisogna domandarsi come e quando è stato accumulato: c’è stato un welfare risarcitorio negli anni 70 che ha redistribuito la ricchezza prodotta durante un boom economico realizzato grazie alla compressione dei salari e dei diritti in fabbrica. Il debito degli anni 70 è fisiologico, quello degli anni 80 invece è patologico perché comincia ad ingrassare il ceto politico senza avere più una ricaduta sui servizi pubblici. Ma li chi c’era?
Chi c’era?
Sacconi era lì, Brunetta era lì. Negli anni 80 erano lì, nel cuore della redistribuzione a favore di un ceto politico famelico. Insomma quando si chiama in casua il debito pubblico bisogna riflettere sulla varie fasi che ne hanno favorito la costruzione.
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Perché non sciogliere il popolo?
Per il Censis il governo Monti è espressione di una politica prigioniera del primato dei poteri finanziari