Strage di Bologna, per Giovanni De Luna: “Golpismo e stragismo non sono proponibili come un paradigma esaustivo della storia degli anni 70”

Dietro le cerimonie e le proteste rituali del 2 agosto a Bologna c’è una visione consolatoria di ciò che resta della sinistra. Ritenersi vittime di un progetto stragista per non vedere dove nasce la crisi e la sconfitta. Lo stragismo fu una risposta arretrata e scomposta che provocò molte vittime, ma con pochissima efficacia a livello strategico. Anche perché la partita vera si giocò altrove, nelle profondità socio-antropologiche del Paese. Vinse l’estremismo di centro dei ceti medi che si manifestò simbolicamente con la marcia dei 40 mila quadri Fiat a Torino, nell’autunno 1980

Paolo Persichetti

Liberazione 5 agosto 2009

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10 e 25 del 2 agosto 1980. La strage di Bologna segna un’epoca e seppellisce gli anni Settanta sotto il cumulo di macerie della sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria, deflagrata sotto l’effetto di una micidiale miscela d’esplosivo di fabbricazione militare. Un decennio aperto da un’altra strage, quella del 12 dicembre 1969 alla banca nazionale dell’agricoltura di Milano, in piazza Fontana. Era questo che volevano gli attentatori? Chiudere col sangue gli anni più ribelli e sovversivi della storia del dopoguerra, quelli che hanno consentito con la loro spinta irruenta le maggiori avanzate sociali e civili dal dopoguerra: diritto del lavoro, salario, pensioni, accesso allo studio, diritto alla casa, promozione delle classi sociali più deboli, libertà individuali e collettive, liberalizzazione dei costumi e della sessualità, e molto altro ancora. O forse dietro quel massacro c’erano altri disegni, altri messaggi magari legati ai malumori che tra i nostri alleati suscitava la politica mediterranea condotta dall’Italia? Poche settimane prima, il 27 giugno, c’era stata la strage di Ustica. Un aereo dell’Itavia si era inabissato a largo dell’isola siciliana. Un altro mistero dissolto in parte solo in tempi recenti, quando si appurò che fu un missile lanciato da un aviogetto militare occidentale (non è chiaro se francese o americano) a colpire l’aereo di linea.
Su Bologna invece, nonostante i 29 anni trascorsi, la verità sembra rimasta ferma all’ora in cui esplose quella maledetta la bomba. Nel frattempo la verità giudiziaria ha fatto il suo corso, anche se un po’ contorto e tuttora molto discusso. Un iter complesso con condanne, assoluzioni e rinvii in cassazione. Alla fine i giudici hanno designato solo tre colpevoli, i presunti autori materiali, appartenenti a un gruppo neofascista, i Nar. Ma la verità storica dove sta? Ha fatto passi avanti? Lo chiediamo allo storico Giovanni De Luna.

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A quasi 30 anni di distanza dai fatti non è forse venuto il tempo di mettere da parte i tribunali e lasciare agli storici il compito di trovare la verità? Perché in Italia una cosa del genere non sembra possibile?

Intanto perché una delle ultime leggi varate durante il governo Prodi, e che ha avuto il merito di ridurre il segreto di Stato da 50 a 15 anni, prorogabili fino a 30 in casi eccezionali, manca delle norme attuative che ne prevedono la concreta applicazione. Senza quei regolamenti ad oggi è ancora impossibile consultare i documenti sui quali è stato apposto il segreto. Spetta al governo attuale completare finalmente l’iter legislativo di quella buona legge.

Ma non è che poi a forza di cercare segreti finirà che l’unico segreto svelato sarà che non esistono segreti?
La questione è per così dire sistemica e investe il rapporto tra segreto e democrazia. Se è vero che nessuna democrazia può permettersi una trasparenza totale, che il segreto ha una sua fisiologia e lo Stato ha bisogno dei suoi arcana imperii, il problema sorge quando questa fisiologia diventa patologia. Quando la dimensione dell’indicibile prevale su quella del dicibile, quando l’occulto sovrasta oltre ogni misura di tempo la trasparenza, il segreto diventa una ferita per la democrazia. Negli anni 70 questa dimensione dell’occulto ha superato la fisiologia che è propria di una democrazia matura. Una grossa parte di quel decennio è stata sottratta non solo alla giustizia ma anche alla storia. Per questo tutto ciò che può aiutare a sciogliere il segreto, a penetrare l’oscuro, è una risorsa per la democrazia. Diceva Bobbio che maggiore è il livello di trasparenza migliore è il grado si democrazia. Per la violenza politica di sinistra si sono raggiunti livelli importanti di verità giudiziaria, si conoscono nomi e circostanze e pesanti condanne sono state erogate, la stessa cosa non può dirsi per tutto ciò che riguarda lo stragismo. Questa assenza di certezze giudiziarie ha alimentato nel corso degli anni una esacerbazione dei sentimenti, una voglia di vendetta e risentimento, oltre ad un proliferare di memorie separate.

Oltre al risentimento, questa permanenza del segreto non ha forse contribuito a creare un effetto distorsivo nella comprensione della realtà. Mi riferisco all’idea che quella che è passata sotto il nome di “strategia della tensione” sia riconducibile sempre e comunque ad un’unica regia?
Il termine strategia della tensione è una definizione riassuntiva che condensa con un’immagine efficace una serie di episodi che però non sono riconducibili ad un’unica trama lucida e consapevole. In realtà parliamo di un insieme di atti contraddistinti da tre elementi costanti: la presenza di apparati dello Stato; un evento stragista e il ruolo di militanti neofascisti. Accanto abbiamo poi una costellazione di episodi che ripropongono questi tre fattori e che hanno per obiettivo d’introdurre elementi distorsivi nella gestione dell’ordine pubblico, favorendo la compattezza delle istituzioni contro i movimenti degli anni 70. Non credo ad un’unica regia, c’è in realtà una reazione scomposta alla spinta delle lotte operaie ma che nella sua sostanza fallisce. I tentativi di golpe e le stragi non hanno impedito al Pci di arrivare nell’area di governo, né a Craxi di diventare presidente del consiglio. Anche se ci hanno provato, non sono state le bombe a dettare il mutamento della società italiana.

È allora chi è stato?

Golpismo e stragismo non sono proponibili come un paradigma esaustivo della storia di quel decennio. Il vero cambiamento, il terremoto è venuto dalle profondità socio-antropologiche del Paese. Mentre la società veniva traversata da conflitti era in corso una trasformazione delle strutture profonde del Paese, che alla fine degli anni 70 sarà evidente a tutti. Netto ridimensionamento, sia qualitativo che quantitativo, della classe operaia; incremento enorme dei servizi, del terziario e commercio; l’affacciarsi in massa di un nuovo ceto medio. In quegli anni il 70% delle nuove figure del ceto medio imprenditoriale appaiono in Lombardia. Sono quelle stesse figure che alla fine del decennio daranno vita ad altri percorsi e soggetti politici, attraverso la Lega fino allo sconquasso definitivo della prima repubblica. Nel 1979 si presenta alle europee la Liga Veneta di Rocchetta che farà da apripista a tutte le altre Leghe. Accanto emergeva  una galassia sociale di ceti medi a cui le Leghe daranno presto voce. Ricordo lo stordimento con cui a Torino assistemmo alla marcia dei 40 mila. Nessuno li aveva mai visti traversare una città prima occupata solo da operai e studenti.

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Vuoi dire che i tentativi stragisti e golpisti sono stati una risposta reazionaria di retroguardia ai movimenti di quelli anni?
Una risposta arretrata e scomposta che provocò molte vittime, ma con pochissima efficacia a livello strategico. Anche perché la partita vera si giocò altrove, fuori dal conflitto di superficie, quello del terrorismo, delle Brigate rosse, ma anche dei partiti istituzionali e dei movimenti. Il mutamento vero si organizzò nelle viscere più profonde del Paese, mentre la nostra parte di società non se ne accorgeva.

Eppure gli attori del conflitto degli anni 70 hanno permesso al Paese di fare un salto in avanti enorme. Come concili questi due processi che vanno in senso inverso?

Gli anni 70 ricordano un po’ la famosa teoria di Croce sul fascismo come parentesi. L’effetto del decennio precedente, del paese uscito dal boom economico rappresentato dalla metafora del personaggio di Gasman nel film “Il sorpasso”. Un’Italia vorace, famelica, ansiosa di consumare merci che non aveva mai visto e avuto. Un’Italia che nella dimensione del benessere e dello sviluppo aveva bruciato le sue identità dialettali e contadine che Pasolini lamentava quando aveva denunciato la scomparsa delle lucciole. E’ su quell’Italia che s’innesta una forte spinta al conflitto sociale e politico che sfocia nel biennio 68-69. Una sorta di risposta novecentesca che cerca di confrontarsi con questi cambiamenti sul terreno della politica come elemento decisivo per modificare le cose. C’è un fortissimo investimento nella politica, politica dei partiti e politica dei movimenti. E’ questa dimensione iperpolitica della mobilitazione che finisce con i 35 giorni di occupazione alla Fiat del settembre 1980. Da quel momento in poi ritorna la metafora di Gasman, i ceti medi, il riflusso. Svanisce la dimensione dell’impegno e prevale il “tengo famiglia”. Tutta la partita si è giocata in quel frangente.

Dunque tu non credi che abbia vinto la P2, che ci sia una continuità dei vincitori con l’epoca stragista?
Per niente. Sono i nuovi soggetti sociali non i servizi segreti, o le trame eventuali a loro attribuibili, che hanno cambiato le cose. Ha vinto la rivoluzione dei ceti medi caratterizzata dal loro estremismo di centro. Una lezione della storia che vale anche per l’avvento del fascismo, che non fu un complotto del capitale ma una rivolta dei ceti medi emergenti.

Ma anche i 40 mila alla fine pagarono. I più furono licenziati?
Si, perché quella prima generazione era ancora legata ad una dimensione novencentesca, fordista, apparato di comando della grande fabbrica. Di lì a poco anche al loro interno ci fu un salto di modello: dalla gerarchia di fabbrica al sistema casa-capannone delle popolo delle partite iva.

Torniamo di nuovo al problema della memoria che dicevi all’inizio.
In Italia c’è troppa memoria e poca storia. Se una ragazza di 29 anni crede che la strage di Bologna sia stata commessa dalle Brigate rosse è perché non ha conoscenza storica. Ma questa scarsità di storia nasce anche dall’assenza di istituzioni virtuose in grado di fornire al Paese verità e giustizia. Da questo vuoto è emersa una supplenza delle famiglie delle vittime che hanno preso su di sè il compito di fare memoria e giustizia. Al di là delle loro varie collocazioni, non sempre condivisibili nel merito, si tratta di un aspetto positivo. Emerge un “familismo virtuoso” differente dal familismo indifferente e cinico di chi guarda tradizionalmente al suo particulare, forte nella tradizione italiana. C’è un tentativo di declinate un lutto privato, un’ansia di dolore e giustizia come un bene pubblico.

Ma questa ennesima supplenza non fa emergere il rischio di una confusione di ruoli, di quella che i giuristi chiamano “privatizzazione della giustizia”? Non c’è il rischio che i familiari divengano gli arbitri delle decisioni giudiziarie, a cui si aggiunge anche la privatizzazione della narrazione storica? Mi sembra che si vada ben oltre un arricchimento del pluralismo delle posizioni e delle fonti. In questo modo si istituisce una figura privata depositaria della memoria legittima.
Se prima era stata la magistratura ad essere chiamata a sostituire la politica, ora si chiede ai familiari di scrivere la storia. Ma le signore Gemma Capra e Licia Pinelli non posso caricarsi sulle spalle questo compito. Spetta alla comunità intera, in particolare alla comunità dei ricercatori, il compito di fare storia. Ma questo ruolo improprio viene assunto dai familiari delle vittime proprio a causa dell’assenza nello spazio pubblico di istituzioni virtuose che si ripiegano e si nascondono dietro le memorie private.

Ma storia e memoria non sono la stessa cosa?
La memoria è sempre parziale, trasceglie. Stabilire che la giornata del ricordo della Shoah sia il 27 gennaio invece del 16 ottobre, significa fare una scelta ben precisa che fa lo sconto al rastrellamento del ghetto di Roma e alle leggi razziali del fascismo. Allo stesso modo scegliere il 9 maggio, giorno dell’uccisione di Moro, invece del 12 dicembre, quando esplose la bomba a piazza Fontana, risponde ad un orientamento politico ben preciso. Invece c’è bisogno di tornare alla conoscenza storica. La sovrabbondanza di memorie favorisce l’oblio e non il ricordo. La scuola non riesce più a trasmettere conoscenza storica…. In un test fatto dieci anni fa ho chiesto per quanti anni il Pci era stato al governo: 5, 10 o 30. Tutti risposero 30, perché sentivano Berlusconi dire che i comunisti sono stati sempre al governo. Non è nemmeno ignoranza, è il senso comune che pervade la memoria. Per sconfiggere il senso comune l’unica possibilità è la conoscenza storica. Questa è una vera emergenza educativa. Che non c’entra niente con la memoria. La storia è un’altra cosa, non è identitaria.

Link sulla strage di Bologna
Strage di Bologna, i palestinesi non c’entrano
Strage di Bologna, la montatura della pista palestinese
Strage di Bologna, l’ultimo depistaggio

Link sulle teorie del complotto
I limiti della dietrologia
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto – Paolo Persichetti
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico – Paolo Persichetti
Il caso Moro – Paolo Persichetti
Stato e dietrologia – Marco Clementi
Doppio Stato, una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta

Dietrologia e doppio Stato nella narrazione storiografica della sinistra italiana – PaoloPersichetti
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Le thème du complot dans l’historiographie italienne – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori

Link sul rapporto tra storia e memoria
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi




Il “plebiscito finanziario” di Sarkozy

Il “prestito nazionale” lanciato nel discorso tenuto al congresso di Versailles, un’abile manovra del presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy per conservare il consenso dei ceti medi di fronte alla crisi economica.
L’economia politica populista: compensare la perdita di potere d’acquisto dei salari con il miraggio della rendita popolare

Liberazione 25 giugno 2009

Paolo Persichetti

Un «plebiscito finanziario», è questo il vero obiettivo che, secondo i critici, il presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy starebbe cercando dietro l’annuncio di un prestito nazionale fatto durante il discorso tenuto di fronte alle camere riunite nella regia di Versailles. La costituzione francese vieta al capo dello Stato l’ingresso in Parlamento, memore di quanto avvenuto ai tempi di Luigi Napoleone Bonaparte che, dopo l’elezione presidenziale, s’impadronì del potere instaurando un regime autocratico. Anche la costituzione italiana ha ereditato questa norma antiplebiscitaria, consentendo al presidente della repubblica soltanto l’invio di messaggi scritti alle assemblee parlamentari. Per aggirare questo divieto, Sarkozy ha pensato bene di convocare senatori e deputati nella sala del Congresso. Cerimonia fastosa, prevista solo in caso di modifiche alla costituzione. Inusuale dunque la scelta del presidente francese, che con questo atto volutamente simbolico ha cercato in tutti i modi di sottolineare la vocazione bonapartista-plebiscitaria attribuita al suo mandato.L’onnipresenza dell’«ego-presidente», come è definito dalla stampa avversaria, calca con forza i toni populisti,  e affronta la sfida della demagogia per finanziare il deficit pubblico, dopo che il ministro del Bilancio, Eric Woerth, ha definitivamente seppellito gli angusti parametri di Maastricht. Secondo le previsioni, infatti, Il deficit francese si attesterà alla fine del 2009 tra il 7% e 7,5% del Pil. Un tetto che tutti gli indicatori economici confermano anche per il 2010. Più del doppio di quanto previsto dai dogmi che hanno ispirato l’ortodossia monetarista del trattato di Maastricht. Il deficit pubblico può innescare un meccanismo virtuoso, hanno già spiegato Keynes e dimostrato i «trenta gloriosi». Ma la politica economica del governo Sarkozy può essere sospettata d’eresia keynesiana? Oppure la travolgente crisi economico-finanziaria impone di fare di necessità virtù?
Le polemiche, che dopo l’enfatico annuncio del presidente francese traversano il mondo politico e quello degli analisti, vertono proprio sulla qualità del deficit (finanziare la spesa corrente o investire su infrastrutture, reti digitali, economia della conoscenza?) e sulle modalità di finanziamento. La scelta del prestito, per altro non nuova nella storia del dopoguerra (vi hanno fatto ricorso, aggravando pesantemente le casse dello Stato, Pinay, Giscard e Balladur), è ritenuta da molti osservatori la più inadeguata sul piano economico. Per sostenere il debito ogni Stato interviene quotidianamente, e con discrezione, sui mercati finanziari. L’annuncio di un prestito nazionale, soprattutto se aperto ai risparmi delle famiglie, offre in realtà minori vantaggi economici. Per invogliare i piccoli risparmiatori è necessario ricorrere a tassi d’interesse onerosi rispetto a quelli reperibili sul mercato internazionale. Altri rilevano che il vantaggio immediato verrà ripagato con un sovrapprezzo d’imposta in futuro. Da qui l’accusa di «promozione politica» rivolta contro Sarkozy. Più prudente, la ministra dell’economia Lagarde ha auspicato un «prestito misto». Con questa operazione l’Eliseo cerca d’imbonirsi il ceto medio colpito dalla crisi, offrendo il miraggio della rendita popolare per compensare redditi che perdono potere d’acquisito.

Requiem in morte del Cattocomunismo

A proposito di un articolo di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della Sera di domenica 18 giugno 2006

Paolo  Persichetti
23  giugno  2006

«Il cattocomunismo è morto». Pace all’anima sua! verrebbe da chiosare e invece no, perché Galli Della Loggia, sul Corriere del 18 giugno, legge la sua scomparsa come l’inevitabile conseguenza di un altro funerale: l’eclisse del conflitto tra capitale e lavoro. Nel parole del professore il cattocomunismo viene descritto come l’espressione di un compromesso ideologico che raccogliendo le istanze di due popoli, quello cattolico e quello comunista, ne rappresentava gli interessi pp_cau_don-camillo-pepponecontrapponendoli a quelli del capitale. Il fatto che ormai – sostiene Della Loggia – nessuna delle contraddizioni moderne nasca più dalla lotta di classe avrebbe provocato il definitivo declino di questa cultura politica a vantaggio (o svantaggio, secondo i punti di vista) di una mutazione antropologica della sinistra,  succube del dominio «edonistico-acquisitivo» (che tradotto potremmo definire: abbandono al piacere consumistico) di una società individualista, antistatalista, avvinta dall’egemonia aggressiva di un’etica soggettivista e libertina. Defunta sarebbe dunque l’anima sociale, Della Loggia scrive «popolare», della sinistra ma anche dei cattolici, conseguenza di quelle profonde mutazioni della struttura socio-economica che hanno introdotto nuovi «spartiacque», non più improntati sul confronto tra interessi materiali contrapposti ma ormai caratterizzati soltanto da un contrasto valoriale su «temi immateriali ed etici», che designerebbero le nuove frontiere tra destra e sinistra. Una «conversione dall’economia all’etica» che segnala ormai i tempi radicalmente diversi dell’agenda politica e questo anche a seguito del mutamento di composizione sociale di una sinistra sempre più rapita da un «programmatico relativismo culturale» e da «fremiti d’anticlericalismo». In sostanza, il cattocomunismo è morto perché sarebbe venuta meno la sua base sociale, il lavoro industriale e il mondo contadino, sopravanzata da ceti medi e pubblico impiego, e perché è scomparso ogni riferimento a quell’etica antiborghese e antiliberale che riusciva a saldare attorno a modelli culturali tradizionalisti e valori antidiluviani Peppone e Don Camillo. A Galli Della Loggia questa deriva non piace affatto, non perché rimpianga – lui che è liberale – la lotta di classe, ma per il venire meno di alcuni fondamenti etici dell’Occidente, in difesa dei quali egli oggi non esita a schierarsi tra le fila dei teocon.

Inutile sottolineare che sulla linea di mira di questa critica s’intravede quel modello politico-culturale che un po’ semplicisticamente viene riassunto sotto l’etichetta di «zapaterismo». Ma in quel che scrive il professore c’è del vero. Per esempio, il divorzio sociale tra ceti operai e sinistra politica è reale, e non solo italiano. In Francia, il voto operaio va maggioritariamente a Le Pen. Non solo, ma le nuove figure sociali del precariato restano ancora oggi prive di una qualunque rappresentanza sindacale e politica. Sono proprio loro quegli invisibili di un nuovo scontro di classe miniaturizzato, polverizzato, che porta all’errore di ritenere estinto il conflitto tra capitale e lavoro. In realtà è soltanto sommerso, illeggibile, senza voce e strumenti per farsi sentire, perché, come ha scritto Mario Tronti, negli anni 80 l’Occidente ha assistito alla grande rivolta dei ricchi contro i poveri. Una rivoluzione conservatrice che in Italia, soppiantando la grande paura borghese del decennio precedente, si è conclusa con l’immagine allegorica dell’imprenditore («il presidente operaio», come recitava un suo slogan) salito al potere brandendo l’arma dell’antipolitica, favorito in questo anche dalla sedizione giudiziaria di alcune procure della repubblica. È dunque la nuova schiacciante egemonia del capitale sulla forza-lavoro che ha tolto visibilità sociale, forza politica e capacità di produrre senso a quest’ultima, rievocando la nota distinzione marxiana della classe in sè che ancora non sa essere classe per sè, e che contraddistinse l’infanzia del proletariato industriale. Mentre nuove forze imprenditoriali, governando la rivoluzione tecno-produttiva, hanno saputo volgere a proprio totale vantaggio l’emergere del nuovo modello di società postfordista, la cultura della sinistra si è divisa tra subalternità o residualismo, tutt’al più alcune sue anime più irrequiete ed estreme ne hanno interpretato il malessere e la crisi. Non convince, invece, l’interpretazione che Galli Della Loggia dà

don-camillodel cattocomunismo. Una scuola ideologica nella quale agivano due matrici culturali, una antiborghese e l’altra antiliberale, unite dal progetto di realizzare una saldatura dei ceti popolari divisi in origine dal credo religioso e dal ruolo politico conservatore tradizionalmente giocato dalla Chiesa-istituzione. Molto meno radicale della teologia della liberazione, il progetto cattocomunista mirava a saldare la tradizione solidarista della dottrina sociale della chiesa con aspetti del marxismo. In questa ottica la democrazia di massa organizzata nei due grandi partiti popolari, quello comunista e quello cattolico, altro non erano che la «democrazia che si organizza», secondo una famosa formula pronunciata da Togliatti. Un’ipotesi che si concepiva come uno stadio molto più avanzato della democrazia rispetto ai modelli costituzionali di scuola democratico-liberale sorretti dal principio del bilanciamento dei poteri o del governo limitato. Spiccava, in sostanza, una visione corporativa e iperstatalista della società e della politica, nella quale sarebbero prevalse richieste di rappresentanza degli interessi reali a discapito di quelli formali, e il principio del consenso sociale contro quello della maggioranza giuridica.
Ma contrariamente a quanto lascia intendere Della Loggia, il cattocomunismo non fu affatto una cultura conflittuale. Semmai si trattava di un’ideologia inclusiva, un progetto che prevedeva la massima integrazione della società nello Stato, a differenza del marxismo e del liberismo, entrambi sorretti dal valore positivo del conflitto tra capitale e lavoro e da una profonda diffidenza (almeno sul piano teorico) verso le forme statuali. Ciò spiega le ragioni del grande successo della cultura cattocomunista nel decennio della crisi, gli anni 70, quando essa parve molto utile a fornire quel supporto ideologico necessario a giustificare nella sinistra la nuova cultura delle compatibilità economiche e del moderatismo politico, la famosa «austerità», che la classe operaia, in quanto «classe dirigente nazionale», doveva assumere su di sè come esempio per il paese e lo stesso padronato. Programma che incarnò la sostanza del progetto berlingueriano del compromesso storico, saldando attorno a se figure come Franco Rodano e Giorgio Amendola.

Il cattocomunismo in quegli anni rappresentò anche la cultura politica che un Pci in crisi teorica tentò di opporre alla sociologia americana, veicolata dalle forze più dinamiche dei gruppi sociali legati alla modernizzazione capitalista e che puntarono politicamente sul craxismo. In risposta, lo storicismo idealista amendoliano e il cattocomunismo togliattiano trovarono una fusione comune in una sorta d’eticismo dal sapore bresneviano. L’etica divenne la barricata ideologica residuale che pervase l’ultima stagione politica di Errico Berlinguer, tutta improntata sulla «diversità comunista». Una tesi che disegnava l’alterità morale assoluta dell’uomo di sinistra rispetto al resto della società. Il capitalismo, la corruzione, i disfunzionamenti dell’amministrazione, potevano trovare soluzione grazie alla tempra morale di quell’uomo nuovo che era l’amministratore comunista, finché lo scandalo delle tangenti della metropolitana di Milano, la maxi tangente Enimont elargita da Gardini anche al Pci e il “compagno Greganti” non riportarono tutti alla cruda realtà. Intanto questo eticismo favorì un atteggiamento culturale conformista e intollerante, singolare tentativo di conciliare Stalin e l’acqua santa, l’invasione sovietica dell’Afganistan e l’angelus del papa, chiudendo la porta alla possibilità di comprendere le radicali istanze di cambiamento e le culture innovative che i movimenti degli anni 70, percepiti in modo ostile, sollevavano. catcom

I diritti sociali hanno carattere storico, evolvono e s’aggiornano con l’emergere di nuovi bisogni. Leggere l’apparizione di nuove richieste di diritti, che mettono al centro la persona e la sua singolarità, in antitesi con i tradizionali diritti collettivi, è fuorviante poiché questi non tolgono nulla ma accrescono la sfera dei diritti di ciascuno. La necessità di dover ridare rappresentanza e forza ad alcuni diritti, collettivi e individuali, dentro la sfera del rapporto tra capitale-lavoro, non può dare luogo ad una sottrazione d’altri diritti altrove. Sarebbe una stupida operazione a somma zero, per giunta estranea alla stessa logica del pensiero marxiano che mirava alla costruzione di una società capace di soddisfare sempre nuovi bisogni.

Allora se il declino del cattocomunismo è servito a liberarci da questi malintesi, ben venga la sua fine. E cosi sia!