Magistrati coinvolti nella lobby, il Csm trasferisce Alfonso Marra

Lobbismo con la toga, un altro pezzo di oligarchia italiana

16 luglio 2010

E’ bufera sulle toghe finite nell’inchiesta condotta dalla procura romana contro la presunta “loggia segreta” animata da Flavio Carboni, Pasquale Lombardi, Arcangelo Martino. Secondo le accuse, il trio in combutta con alcuni esponenti del gotha berlusconiano come il coordinatore del Pdl Denis Verdini, il senatore Marcello Dell’Utri e il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, avrebbe agito per «condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali». La prima commissione del Csm ha deciso ieri di avviare la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti del presidente della Corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra, che secondo quanto emerso dalle intercettazioni sarebbe stato in stretto contatto con Lombardi.
Per sostenere la sua candidatura presso il tribunale di Milano, dove Marra è arrivato a febbraio, il gruppo di Carboni aveva contattato mezzo Csm fino al presidente Nicola Mancino (amico di vecchia data di Lombardi per la comune militanza nella Dc) che aveva votato in suo favore. Un duello molto duro l’aveva opposto a Renato Rordof, consigliere di corte di Cassazione e quotato giurista economico, battuto alla fine per soli due voti. Oggetto dello scontro la partita sul governo di un tribunale snodo centrale delle inchieste su Berlusconi. Molti consiglieri denunciarono allora «interferenze esterne sul voto», comprovate oggi dall’intensa pressione lobbistica documentata dalle intercettazioni. Un vero mercato, un intreccio di scambi e favori. Il presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, per garantire il proprio sostegno a Marra chiese in cambio la proroga dell’età pensionabile da 75 a 77 anni. Progetto che prese la forma di un emendamento firmato dal sottosegretario Caliendo, poi ritirato. Anche Marra appena nominato venne chiamato dai suoi amici per far recedere i magistrati che avevano annullato per delle irregolarità la lista Formigoni. A dire il vero senza grandi risultati. La nomina di Marra e gli appalti per l’Eolico in Sardegna appaiono i soli successi riscontrati dall’associazione lobbistica finita sotto indagine. Le altre operazioni sono tutte terminate in un nulla di fatto: dal tentativo di condizionare l’esito del ricorso in cassazione sulla richiesta d’arresto del sottosegretario Cosentino, alla diffamazione del candidato alla presidenza della regione Campania Caldoro, all’intervento sui membri della Consulta per far approvare il lodo Alfano, alle pressioni su Marra e poi sul ministero della Giustizia perché attivasse un’ispezione contro i magistrati che avevano annullato la lista Formigoni. Al punto che uno dei membri del gruppo di pressione rivolgendosi a Lombardi si lascia andare ad uno sconsolato: «Noi non contiamo un cazzo».
Anche la Cassazione, per voce del Procuratore generale Vitaliano Esposito, ha reso noto di avere avviato lo scorso 12 luglio un’indagine disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta. Oltre a Marra, infatti, sono stati chiamati in causa anche l’avvocato generale della Cassazione, Antonio Martone, aspirante procuratore generale e da qualche mese capo di una “Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche” istituita dal ministro Brunetta (come dire: la persona giusta al posto giusto), e il capo degli ispettori del ministero della Giustizia, Arcibaldo Miller. Secondo l’inchiesta Martone avrebbe partecipato alla cena del 23 settembre 2009 nella casa romana di Denis Verdini, di fronte all’Ara Coeli. Nel corso di quella serata si sarebbe discusso di come avvicinare i giudici della Consulta che di lì a poco dovevano decidere sul lodo Alfano. Già presidente dell’Anm e poi dell’Autorità garante sul diritto di sciopero, Martone, 69 anni, è stato il più scaltro di tutti e ha subito presentato domanda per la pensione. Mica scemo. In questo modo può uscire di scena senza macchie sulla carriera e soprattutto senza sanzioni su uno stipendio che supera i quindicimila euro lordi al mese, dunque con le tasche piene di soldi grazie ad una pensione d’oro. E se no che comitato d’affari sarebbe?

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La nuova razza padrona

Detenzione domiciliare, tutto il potere ai giudici

Il governo cede alla Lega, Pd e Idv approvano. Scompare la “messa in prova”

Paolo Persichetti
Liberazione 12 maggio 2010

Lo «svuota carceri» si è trasformato nel suo esatto opposto: il «riempi celle». Come previsto il disegno di legge sulla concessione della detenzione domiciliare per chi deve scontare l’ultimo anno di detenzione è stato totalmente capovolto. In realtà era quello che volevano un po’ tutti, non solo gli esponenti della destra di governo più forcaioli, Lega ed ex missini con in testa Ignazio La Russa, quello della Suv regalatagli da Berlusconi, insieme al “perlustratore” della Tomba di Nerone Maurizio Gasparri. Ieri mattina alla Camera, in commissione Giustizia, è resuscitata la vecchia “Unità nazionale”. Un partito trasversale delle manette, con il Pd pronto a gettare la maschera e accettare in modo servile i diktat provenienti dalla lobby dei giudici, i giustizialisti dell’Idv e la maggioranza di governo, hanno accolto – con la sola opposizione di Rita Bernardini, la deputata radicale in sciopero della fame da 28 giorni – i tre emendamenti presentati a nome del governo dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Il primo riguarda l’abolizione dell’automatismo previsto inizialmente. La nuova norma sarà discrezionale e premiale (cioè legata alla valutazione complessiva della personalità del detenuto), mentre restano fuori le solite categorie (mafia, prigionieri politici, delinquenti abituali, reati sessuali). E’ stata recepita così la richiesta delle magistrature di sorveglianza che rivendicavano il potere di decisione sull’applicazione caso per caso dei domiciliari. Basta arrestarsi a questa semplice, quanto determinate, modifica per poter dichiarare l’avvenuta inutilità della legge che verrà approvata nei prossimi giorni. Addirittura, si vocifera, direttamente in commissione, quando solo poche settimane fa non era stato possibile a causa della contrarietà di Pd, Idv e Lega (sempre loro). Risultato: le prigioni resteranno affollate e disperate. L’estate sarà terribile.
L’esigenza di una nuova legge che permettesse di sfoltire in parte la calca presente nelle celle, e destinata ad aggravarsi ulteriormente nei prossimi mesi, nasceva proprio dalla constatazione che i meccanismi tradizionali previsti dalla Gozzini, i cosiddetti benefici penitenziari, non funzionano più da tempo a causa della sistematica disapplicazione delle norme da parte degli uffici di sorveglianza, dove da un buon decennio a questa parte si è installata una nuova generazione di magistrati oltranzisti della pena. Le cifre parlano da sole: se nel 2005 il numero dei benefici penitenziari e delle misure alternative al carcere accordati dagli uffici di sorveglianza ammontava a 40 mila, oggi siamo precipitati ad appena 10 mila mentre in Gran Bretagna sono “soltanto” 240 mila. La colpa del sovraffollamento non è solo delle leggi che fabbricano incarcerazione, come la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sul consumo di droghe, la ex-Cirielli sulle maggiorazioni di pena per i reati commessi da chi non porta la camicia bianca, ma è dovuto anche a chi non scarcera nonostante la presenza di tutti i presupposti di legge, ovvero al ruolo nefasto giocato dalle magistrature di sorveglianza che boicottano i benefici penitenziari, ritardando l’accesso ai permessi, alla semilibertà, alla detenzione domiciliare già esistente, all’affidamento in prova.
Gli altri emendamenti approvati prevedono: la valutazione di idoneità al domicilio, che potrà essere anche una comunità terapeutica, una casa di cura o d’accoglienza, ma non i Cie per gli extracomunitari (unica nota positiva); lo stralcio della “messa in prova” che, se il giudice l’avesse ritenuto opportuno, avrebbe consentito di evitare il carcere per i reati punibili fino a un massimo di tre anni. Contemplato anche l’adeguamento dell’organico di polizia penitenziaria. La commissione tornerà a riunirsi oggi alle 10 per i subemendamenti. La Lega conta di tornare all’assalto per introdurre ulteriori limitazioni e vanificare del tutto il provvedimento. Chissà se la Grecia è vicina?

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Cronache carcerarie
Carceri, la truffa dei domiciliari: usciranno in pochi

Suicidi in cella, il governo maschera le cifre

Per il sottosegretario alla Giustizia Caliendo
«solo 37 suicidi» nel 2009

Replica di Ristretti orizzonti, «già 46»

Paolo Persichetti
Liberazione
12 ottobre 2009

opg-si

Nelle carceri italiane si muore troppo spesso. Nelle carceri italiane ci sono tanti suicidi. Che cosa fanno il ministero della Giustizia e la Direzione dell’amministrazione penitenziaria per risolvere il problema? Oltre a diramare circolari che intasano matricole e archivi degli istituti di pena, ricorrono a degli espedienti meschini come la cosmesi linguistica. Cambiano denominazione alle cause dei decessi.
Se un detenuto è anziano e gravemente malato, finisce che l’indagine amministrativa interna addebiti la sua morte a «cause naturali». Se un altro tenta d’impiccarsi, ma muore durante il trasporto in ospedale, il decesso non è più considerato un suicidio. Diventa la conseguenza di un malore. Un modo burocratico per scaricare noie e problemi eventuali, abbassare il livello di allarme, distogliere l’occhio dei media da quel che accade dentro le mura di cinta. Nella casa circondariale di “Villa Fastiggi”, a Pesaro, l’11 novembre 2008 una detenuta, Francesca Balzelli, si è tolta la vita aspirando gas da una bomboletta. L’inalazione di gas è molto pericolosa perché l’intossicazione da idrocarburi volatili innesca meccanismi d’asfissia. Insomma vi è un rischio di morte molto alto. I detenuti lo sanno benissimo. E se alcuni ricorrono ancora a questo metodo per sballarsi, perfettamente consapevoli del rischio, altri lo fanno chiaramente per suicidarsi. Una morte più dolce rispetto alla brutale violenza dell’impiccagione. Questa incertezza sulle ragioni ultime che spingono i carcerati, in genere con problemi di tossicodipendenza o alcolismo, a sniffare gas, viene utilizzata dal Dap come un pretesto per evitare la parola suicidio. Che questo comportamento, quale che sia il suo esito, configuri comunque un desiderio di autodistruzione, è sottaciuto. Sui referti compare un altro termine: «malore», «collasso», «arresto cardiocircolatorio». Così non c’è notizia, viene meno il rischio di clamori mediatici, di campagne sulle condizioni di vita dentro le prigioni, sul sovraffollamento. Rispondendo a una interrogazione della parlamentare radicale Rita Bernardini, il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, ha liquidato la morte della Balzelli alludendo proprio alla tossicodipendenza della reclusa, sottoposta per questo a terapia ansiolitica. Secondo il magistrato e senatore del Pdl, la detenuta avrebbe assunto gas «come succedaneo di sostanza stupefacente». Risultato finale: un morto in più e un suicidio in meno. Un gioco di prestigio insomma. Con questo trucchetto Caliendo ha raccontato in commissione la favola «dell’impegno profuso dall’Amministrazione» per rivendicare un calo dei suicidi. Dai 45 del 2007 ai 37 registrati fino ad oggi. Solo che alla fine i conti non tornano. In una nota diramata da Ristretti orizzonti, si precisa che i casi di suicidio documentati sono già 46, mentre altre 10 segnalazioni attendono conferma. E mancano ancora tre mesi alla fine dell’anno.

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Suicidi in carcere, detenuti orfani della politica. Recensione al libro di Ristetti orizzonti

Cronache carcerarie