A “Vieni via con me” tra un elogio delle scorte di polizia, citazioni di Prezzolini e Longanesi che tanto sarebbero piaciute a Montanelli, l’autore di Gomorra ha messo in scena la sua scelta di campo
Paolo Persichetti
Liberazione 10 novembre 2010
Imbarazzante. Non troviamo altro modo per definire la prestazione fornita da Roberto Saviano lunedì sera a Vieni via con me, il programma ideato con Fabio Fazio su Rai3. Se nei suoi libri aveva già dimostrato di non essere un nuovo Umberto Eco, da lunedì sera sappiamo che non sarà nemmeno il nuovo Marco Paolini. A vederlo abbiamo provato nostalgia per le prediche di un qualunque Celentano, per le intemperanze di un qualsiasi Sgarbi. Persino Gianfranco Funari con il suo trash televisivo ci è mancato. Al cospetto il senso di inadeguatezza dimostrato, i luoghi comuni sciorinati, l’uso sistematico di una memoria selettiva e arrangiata, la pochezza culturale messa in campo suscitavano disagio. Un senso di pena e quasi un moto di rimprovero per chi lo ha trascinato fin lì. Un monologo melenso di trenta minuti, privo del senso del ritmo, di battute folgoranti, della potenza delle pause, ma accompagnato solo da uno smisurato e pretensioso egocentrismo, sono stati davvero troppi. Forse un posto giusto per Saviano in televisione ci sarebbe pure, magari nel confessionale del Grande fratello o sotto il fresco di una bella palma nell’Isola dei famosi. Perché il livello è quello lì: un derivato speculare dell’era berlusconiana.
La lunga serata televisiva era cominciata al mattino sulle pagine di Repubblica, dove Saviano annunciava che avrebbe raccontato il funzionamento della “macchina del fango”. Ma il calco televisivo dell’articolo scritto da Giuseppe D’Avanzo a metà ottobre non è riuscito un granché. L’autore di Gomorra piangeva censura. Singolare lamentela per un personaggio che vende centinaia di migliaia di copie con la Mondadori, l’ammiraglia editoriale della famiglia Berlusconi, ha pubblicato l’ultimo libro per la prestigiosa Einaudi diventata una sottomarca sempre della Mondatori, scrive sul secondo quotidiano italiano emanazione di uno dei più potenti e aggressivi gruppi editoriali-finanziari (De Benedetti-Repubblica-Espresso), va in televisione a recitare monologhi nemmeno fosse il presidente della Repubblica, percepisce in cambio un compenso di alcune centinaia di migliaia di euro, cioè l’equivalente di oltre venti anni di salario di un impiegato o di un operaio e di almeno due esistenze di lavoro di un qualsiasi precario.
Il vittimismo è proseguito per l’intera serata rivelando la grave mitomania del personaggio che ha utilizzato alcuni spezzoni televisivi sul giudice Falcone per parlare, in realtà, di sé. Il transfert era evidente. Saviano ha messo in scena la propria voglia di martirio, manifestazione preoccupante di quella sindrome che gli esperti chiamano di san Sebastiano. Non ha rinunciato poi ad inviare dei segnali politici molto chiari. Per tutta la serata non ha mai citato la parola destra, ovviamente tirando bordate, senza mai nominarlo, contro Berlusconi. Ha invece più volte richiamato le responsabilità della sinistra colpevole di aver lasciato solo Falcone, ucciso poi dalla mafia. In realtà a farlo furono soprattutto gli antesignani del giustizialismo odierno, quegli esponenti della Rete che sospinti dall’anticraxismo criticarono la sua scelta di collaborare col guardasigilli Martelli. Insomma lunedì sera Saviano ha tirato la volata alla destra di san Giuliano, quella di Fini. I suoi fans di sinistra è ora che se ne facciano una ragione.
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