Qualcuno deve pur dirlo, ora basta con Saviano

Pubblichiamo l’articolo che l’elefantino ha dedicato al ritorno di Saviano in tv: uno «che non ha un’idea in croce», scrive Giuliano Ferrara alludendo al fatto che della testa, quella sorta di contenitore nel quale madre natura ha riposto il cervello, Saviano non sa proprio che farsene se non spazzolarla a lucido. «Macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo», prosegue senza un briciolo di pietà il direttore del Foglio, ricordandoci che per tre giorni vi dovrete sorbettare “l’eroe di carta” su La7 con «l’auricolare di Serra» a soccorrerlo.
Io per fortuna no. Da quando il digitale terreste è entrato in funzione anche nella casa di reclusione di Rebibbia, i Philips 14 pollici che abbiamo nelle celle sono sintonizzati solo su 10 canali: Rai 1, 2, 3 e 4; i tre canali Mediaset, Iris, Italia sport e una locale partenopea.
Mi guarderò un film, a voi invece toccherà «il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario». Come vi compatisco. Una volta tanto, devo riconoscerlo, l’Amministrazione penitenziaria ha fatto le cose giuste.

Solo una domanda: questo Saviano «di un grigiore penoso, che non sa fare niente e va su tutto», come lo riassume Ferrara nell’epitaffio finale, avrà la coerenza di sporgere querela, oppure si genufletterà ancora una volta, striscerà sui tappeti del potere, si accuccerà “tomo, tomo, quatto, quatto” – come diceva Totò – sui sedili posteriori della comoda auto della sua scorta?

Giuliano Ferarra
Il Foglio 13 maggio 2012

Saviano al posto di Bocca. Uno che non ha mai detto nulla di interessante, che non ha un’idea in croce, che scrive male e banale, che parla come una macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo, che è stato assemblato come una zuppa di pesce retorico a partire da un romanzo di successo, si prende la rubrica di un tipo tosto che di cose da dire ne aveva fin troppe. Saviano a La7 per tre giorni con l’auricolare di Serra e la bonomia un po’ spenta di Fazio, un rimasuglio di tv dell’indignazione, una celebrazione di quella cazzata che è l’evento, il tutto destinato a sicuro successo di critica e di pubblico: il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario. Saviano a New York, come un brand scassato alla ricerca della mafia già scoperta da Puzo, Coppola e Scorsese, una specie di Lapo in cerca di marketing sulle orme di Zuccotti Park, tranne che Lapo fa il suo mestieraccio. Saviano in ogni appello, dalla lotta al traffico di cocaina ai diritti dei gay a chissà cos’altro ancora. Saviano sul giornale stylish del mio amico Christian Rocca, perfino. Ma che palle. L’ho ascoltato al Palasharp, un anno e mezzo fa, via web. Un disastro incolore. Uno fuori posto perfino in un luogo in cui si faceva mercimonio delle idee peggiori della società italiana. Non riusciva ad aderire, malgrado la buona volontà, nemmeno alla semplificazione moralista della politica nella sua forma estrema di faziosità e di odio teologico-politico. Saviano non sa fare niente e va su tutto, è di un grigiore penoso, e i madonnari che lo portano in processione dalla mattina alla sera gli hanno fatto un danno umano, civile, culturale e professionale quasi bestiale. Credo che le premesse fossero genuine, è l’esplosione che si è rivelata di un’atroce fumosità. Già non è dotato, ma poi mettergli in mano una specie di scettro da maghetto della popolarità e della significatività di sinistra o de sinistra, insignirlo di una strana laurea da rive gauche all’italiana, il caffè intellettuale dei mentecatti, chiedergli di pronunciarsi su tutto e su tutti come l’oracolo, di fungere da uomo-simbolo, lui che del simbolico ha appena la scorta, questo è veramente troppo.
I Moccia e i Fabio Volo hanno scritto anche loro libri di successo. E’ un guaio che ti può capitare, una brutta malattia come il premio Nobel e altre scemenze. Un giorno o l’altro qualcuno te le commina, se sei veramente sfortunato, e c’è chi sbava nell’attesa. Ma nessuno li ha trasformati in totem, non si prestavano, non erano all’altezza. Saviano invece è all’altezza di questa mondializzazione del banale, di questa spaventosa irriverenza verso l’allegria e l’eccentricità dell’intelletto come nutrimento della società e della vita, di questa orgia del progressismo finto sexy, il torello triste che combatte la sua corrida in compagnia di milioni di consumatori culturali e di utenti dell’indicibilmente e sinistramente comune, medio. Siamo il paese di Wilcock, di Flaiano, di Cesaretto, di Manganelli e a parte lo spirito d’avanguardia e di letizia della scrittura, abbondano grandi maestri, filologi, scrittori anche civili che qualcosa da dire ce l’hanno, in trattoria e sui giornali e in tv, e siamo stati trasformati nel paese dei balocchi dei festival e delle seriali conferenze culturali dedicate al libro, al bestseller che ti cambia la vita come una nuova religione e ti immette nel mainstream più compiacente e belinaro. Ma via. Qualcuno deve pur dirlo. Facciamo un comitato, qualcosa di sapido e di cattivo, qualcosa di rivoltoso e di ribaldo. Basta con Saviano.

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Aldo Grasso: «Vieni via con me»: un po’ come a messa

Non è un format, è un calco. Di una cerimonia religiosa, di una messa, di una funzione liturgica

Aldo Grasso
Il corriere della sera 24 novembre 2010

Il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano ha generato molte discussioni, buon segno. C’è chi ha parlato di fine del modello tv berlusconiano (grazie a Endemol, che è di Berlusconi); c’è chi ha parlato di evento, alla Celentano; c’è chi ha parlato di un format capace di «usare la politica». Difficile districarsi, anche perché un programma o è evento o è format (essendo finora impossibile standardizzare il fuori norma). Più interessanti, a mio avviso, gli spunti che sono presi a circolare su Internet.

«Vieni via con me» non è un format, è un calco. Di una cerimonia religiosa, di una messa, di una funzione liturgica. La proposta degli elenchi, di ogni tipo, su ogni argomento, assomiglia molto alle litanie: più che alla vertigine della lista, lo spettatore cede volentieri al fascino della supplica accorata, alla devozione popolare, alla lamentazione come unica fonte di speranza e di conforto, al mantra. Volete una prova? A ogni voce degli elenchi provate ad aggiungere un ora pro nobis. L’officiante è facile individuarlo: ne ha tutti i modi, i comportamenti, spesso le affettazioni; è Fabio Fazio. Che ha una capacità straordinaria, tipica di alcuni celebranti: quella di trasferire sui suoi numerosi fedeli quell’aura di senso di colpa che gli trasfigura il volto. La doglianza gli dà potere, mostrarsi vulnerabile (i ricchi contratti non gli impediscono di piangere sempre miseria) è la sua garanzia di invincibilità, tra un Alleluia e una Via Crucis.

E poi c’è lui, la vittima sacrificale, il Cristo in croce. Se Roberto Saviano si mettesse una parrucca assomiglierebbe in maniera impressionante al Cristo di Pasolini. È una reincarnazione cinematografica. I suoi interventi (le sue parabole) sono incontrovertibili perché, segretamente, iniziano con una premessa: «In verità, in verità vi dico». Per non parlare di tutti i chierichetti che hanno preso parte al rito. Ok, andate in pace, la messa non è finita.

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Ma dove vuole portarci Saviano?

A “Vieni via con me” tra un elogio delle scorte di polizia, citazioni di Prezzolini e Longanesi che tanto sarebbero piaciute a Montanelli, l’autore di Gomorra ha messo in scena la sua scelta di campo

Paolo Persichetti
Liberazione 10 novembre 2010


Imbarazzante. Non troviamo altro modo per definire la prestazione fornita da Roberto Saviano lunedì sera a Vieni via con me, il programma ideato con Fabio Fazio su Rai3. Se nei suoi libri aveva già dimostrato di non essere un nuovo Umberto Eco, da lunedì sera sappiamo che non sarà nemmeno il nuovo Marco Paolini. A vederlo abbiamo provato nostalgia per le prediche di un qualunque Celentano, per le intemperanze di un qualsiasi Sgarbi. Persino Gianfranco Funari con il suo trash televisivo ci è mancato. Al cospetto il senso di inadeguatezza dimostrato, i luoghi comuni sciorinati, l’uso sistematico di una memoria selettiva e arrangiata, la pochezza culturale messa in campo suscitavano disagio. Un senso di pena e quasi un moto di rimprovero per chi lo ha trascinato fin lì. Un monologo melenso di trenta minuti, privo del senso del ritmo, di battute folgoranti, della potenza delle pause, ma accompagnato solo da uno smisurato e pretensioso egocentrismo, sono stati davvero troppi. Forse un posto giusto per Saviano in televisione ci sarebbe pure, magari nel confessionale del Grande fratello o sotto il fresco di una bella palma nell’Isola dei famosi. Perché il livello è quello lì: un derivato speculare dell’era berlusconiana.
La lunga serata televisiva era cominciata al mattino sulle pagine di Repubblica, dove Saviano annunciava che avrebbe raccontato il funzionamento della “macchina del fango”. Ma il calco televisivo dell’articolo scritto da Giuseppe D’Avanzo a metà ottobre non è riuscito un granché. L’autore di Gomorra piangeva censura. Singolare lamentela per un personaggio che vende centinaia di migliaia di copie con la Mondadori, l’ammiraglia editoriale della famiglia Berlusconi, ha pubblicato l’ultimo libro per la prestigiosa Einaudi diventata una sottomarca sempre della Mondatori, scrive sul secondo quotidiano italiano emanazione di uno dei più potenti e aggressivi gruppi editoriali-finanziari (De Benedetti-Repubblica-Espresso), va in televisione a recitare monologhi nemmeno fosse il presidente della Repubblica, percepisce in cambio un compenso di alcune centinaia di migliaia di euro, cioè l’equivalente di oltre venti anni di salario di un impiegato o di un operaio e di almeno due esistenze di lavoro di un qualsiasi precario.
Il vittimismo è proseguito per l’intera serata rivelando la grave mitomania del personaggio che ha utilizzato alcuni spezzoni televisivi sul giudice Falcone per parlare, in realtà, di sé. Il transfert era evidente. Saviano ha messo in scena la propria voglia di martirio, manifestazione preoccupante di quella sindrome che gli esperti chiamano di san Sebastiano. Non ha rinunciato poi ad inviare dei segnali politici molto chiari. Per tutta la serata non ha mai citato la parola destra, ovviamente tirando bordate, senza mai nominarlo, contro Berlusconi. Ha invece più volte richiamato le responsabilità della sinistra colpevole di aver lasciato solo Falcone, ucciso poi dalla mafia. In realtà a farlo furono soprattutto gli antesignani del giustizialismo odierno, quegli esponenti della Rete che sospinti dall’anticraxismo criticarono la sua scelta di collaborare col guardasigilli Martelli. Insomma lunedì sera Saviano ha tirato la volata alla destra di san Giuliano, quella di Fini. I suoi fans di sinistra è ora che se ne facciano una ragione.

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Saviano, fatti una vacanza….

Aldo Grasso
Corriere della sera 10 novembre 2010

Mi piacerebbe che Roberto Saviano accogliesse queste considerazioni come costruttive. Quando, mattine fa, ho letto la sua presentazione del programma «Vieni via con me» un brivido mi ha percorso la schiena. Per due motivi: il primo è che una fondamentale legge dello spettacolo impone di promettere poco e dare molto (a leggere quell’articolo sembrava invece che stessimo per assistere alla «Divina commedia» tv); il secondo è che bisogna con tutte le forze rifuggire l’ingenuità e la retorica.

Non si può scrivere una frase del tipo, «Nel racconto televisivo gli articoli sono le luci dello studio, gli aggettivi sono i filmati, i verbi sono i movimenti di scena, le frasi sono le inquadrature, la punteggiatura sono gli ospiti. In un tempo limitato deve entrare tutto: la volontà di raccontare uno spaccato significativo di esistenza e l’onestà di raccontarla come un punto di vista, non come verità assoluta». Quello che il programma ha dimostrato è che se sei un professionista come Roberto Benigni puoi permetterti di affrontare temi impegnativi anche in modo scherzoso, irridente, ma sempre efficace. E fare tuo il programma, imprimergli il sigillo beffardo del paradosso. Se sei Saviano ti devi accontentare di un compitino, con il rischio di imbozzolarsi nel personaggio e nell’autocompiacimento.

Intendiamoci, «Vieni via con me» (Raitre, lunedì, ore 21,05) è un programma ben sopra la media delle pochezze che la Rai propone, e Saviano ha tutte le ragioni del mondo a portare avanti la sua battaglia. Ma proprio la posta in gioco della sua missione gli imporrebbe di crescere. Il duetto finale con Fabio Fazio era tutto incentrato su un dubbio: restare o andare via dall’Italia? Nessuno ha la risposta, ma credo che girare il mondo, guardarsi attorno, guardare un’altra tv, rapportarsi con un universo meno provinciale del nostro gli farebbe un gran bene. E comunque questi sono consigli non richiesti, cioè superflui.

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