Sulmona, aveva terminato la pena, si impicca nella Casa lavoro

Il dramma delle pene accessorie. Mahmoud Tawfic, 66 anni, ex detenuto diventato ex cittadino

Paolo Persichetti
Liberazione
21 gennaio 2010

Si può morire di carcere pur avendo scontato per intero la propria condanna? Si che si può. Mahmoud Tawfic, egiziano di 66 anni, si è suicidato nella tarda serata di mercoledì nella sua cella del “reparto internati” del carcere di Sulmona, tristemente noto alle cronache per la lunga scia di suicidi e morti avvenute all’interno delle sue mura. Il reparto internati non è un carcere, o meglio, non dovrebbe esserlo anche se di fatto lo è, per giunta nella sua condizione peggiore. In Casa lavoro finiscono quegli ex detenuti che una volta terminata di scontare la pena devono sottostare ad una delle tante «pene accessorie», così vengono definite dal nostro codice penale ereditato dal sistema delle sanzioni congeniato dal regime mussoliniano. La pena accessoria è una sanzione supplementare che segue quella penale e decreta la morte civile dell’ex detenuto, che si trasforma così in ex cittadino. Ve ne sono di tipi diversi: la libertà vigilata e la sorveglianza speciale, che comportano pesanti limitazioni alla libertà personale e restrizioni di natura civile e amministrativa. Per esempio: il divieto di avere la patente di guida, l’obbligo di dimora, il divieto di frequentare luoghi ritenuti equivoci dalle forze di polizia o persone pregiudicate, il divieto di uscita nelle ore notturne, eccetera. La peggiore di tutti però è la Casa lavoro perché si viene nuovamente rinchiusi in strutture carcerarie, anche se non si è più «detenuti» ma «internati» ad indicare uno status di restrizione non più penale ma amministrativo. Uno status sempre più ambiguo perché ormai è la magistratura di sorveglianza che gestisce queste situazioni. La Casa lavoro nel gergo carcerario viene chiamata «ergastolo bianco». Perché si sa quando si entra ma non quando si esce. La decisione finale è legata alla cessata pericolosità sociale decretata dal magistrato di sorveglianza sulla scorta dei rapporti di polizia e delle relazioni trattamentali. In Casa lavoro, contrariamente a quanto indica il nome, non si lavora affatto. Si sta chiusi e basta, peggio che in carcere. Teoricamente si dovrebbe lavorare per forza, perché il lavoro, si sa, «riabilita e redime». Ma nelle Case lavoro di oggi si schiatta e basta. A Sulmona ci sono 200 internati per 75 posti. Brande a castello in celle di appena 9 metri. E poi niente, senza nemmeno un fine pena da attendere. La permanenza può durare mesi oppure anni. Dipende da tanti fattori che l’internato non conosce. Se sei straniero, come Mahmoud Tawfic, e sei pure anziano, e magari la Casa lavoro ti è piombata addosso dopo che eri stato scarcerato e avevi riassaporato la libertà, rischi di finire in depressione. Come sembra si avvenuto a Tawfic, tornato in cella lo scorso dicembre dopo essere uscito dal carcere nell’agosto del 2010 al termine di una lunga pena. Pare avesse tentato di rifarsi una vita a Roma. Pochi mesi  e le cose sono andate male. Decretato pericoloso socialmente si è ritrovato internato e così ha deciso di farla finita. Per fuggire l’inferno ha legato un lenzuolo alla grata e si è appeso. Erano quasi le 20 quando i suoi compagni hanno lanciato l’allarme. I tentativi di rianimarlo sono stati vani. La procura ha disposto per oggi l’esame autoptico per accertare la cause della morte. Nel corso del 2010 si sono uccisi tre internati: il 7 gennaio è stata la volta di Antonio Tammaro di 28 anni; il 3 aprile è  toccato a Romano Iaria di 54 anni. Raffaele Panariello di 31 anni si è toto la vita il 24 agosto. Un quarto, Domenico Cardarelli, di 39 anni, si è spento per «cause naturali» l’8 aprile. In altre 14 situazioni vi sono stati dei tentativi di suicidio da parte di internati, sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. Complessivamente nel 2011 sono già morte, per suicidio o infarto, 11 persone. In tutto il 2010 ci sono stati 66 suicidi, 1134 tentati suicidi, 5603 atti di autolesionismo. Il carcere della morte continua.

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Cronache carcerarie

Carceri, giustizia, processi, condanne: il Paese inventato nel salotto di Bruno Vespa e quello reale descritto nel VII rapporto sulle carceri di Antigone

Menzogne, bugie e talk show. Il mondo virtuale che rovescia la realtà mandato in onda da Bruno Vespa a Porta a Porta

Paolo Persichetti
Liberazione 23 ottobre 2010


Nei giorni scorsi il Corriere della sera ha dato rilievo alla denuncia pubblica lanciata da Sabina Rossa, figlia del sindacalista rimasto ucciso nel gennaio 1979 in un attentato delle Brigate rosse. La donna, oggi parlamentare del Pd, raccontava di essere stata convocata per posta dal tribunale di sorveglianza di Bologna. Un funzionario di polizia l’attendeva per raccogliere su un verbale di “sommarie informazioni” il suo parere riguardo alla domanda di liberazione condizionale presentata da Prospero Gallinari, esponente storico delle Br, ormai al suo trentesimo anno di pena scontata, tra carcere e arresti domiciliari ottenuti a causa delle sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. Da una decina di anni i giudici di sorveglianza hanno istituito una prassi non contemplata dalla norma di legge, l’articolo 176 cp. Ritengono essenziale per la concessione della liberazione condizionale la presenza del perdono dei familiari delle vittime, equiparandola di fatto alla concessione della grazia. Misura di clemenza profondamente diversa che estingue, per intero o in parte, la pena. La liberazione condizionale introduce invece un regime di “libertà vigilata” la cui durata non può oltrepassare i 5 anni. Sabina Rossa ha contestato sia il merito della richiesta che la procedura intrapresa. Altri tribunali di sorveglianza pretendono dal detenuto che voglia farne domanda l’invio di lettere con richiesta di perdono ai familiari delle vittime. Prassi che riapre ferite laceranti e carica sulle spalle dei familiari scelte politiche e giudiziarie che appartengono allo Stato. E’ quanto sostenuto dalla senatrice Rossa che sottolinea come «il perdono della persona offesa non sia richiesto dalla legge». Per questo ha anche presentato una proposta di legge, che ha raccolto l’assenso di altri familiari e parlamentari, con l’obiettivo di ripristinare una separazione tra diritto e morale introducendo criteri di giudizio oggettivi, come il comportamento.
Giovedì sera Bruno Vespa ha colto al volo l’occasione per invitare a Porta a porta la senatrice e dedicare una intera puntata alla «giustizia che non fa giustizia», al «carcere che scarcera». Un minestrone di disinformazione, di errori grossolani e propaganda forcaiola che metteva insieme situazioni diverse: esecuzione di pene ultradecennali, casi di cronaca nera ancora alle prime indagini come quello di Sarah Scazzi, delitti a sfondo razzista come quello di Alessio Burtone, vicende passate in giudicato come i nuovi omicidi commessi dal collaboratore di giustizia Angelo Izzo, o i delitti nazisti firmati Ludvig di Abel uscito per fine pena, per dire in sostanza che c’è troppa clemenza in giro nonostante le carceri esplodano, che un condannato arriva a scontare appena un terzo della pena inflitta (panzana grottesca). Un frullato incommestibile di chiacchiere da bar, fandonie e bugie incapace persino di percepire il ridicolo quando, dopo aver denunciato la solita incertezza della pena, nel chiedere alla senatrice Rossa che fine avessero fatto le persone condannate per la morte di suo padre, ha ricevuto come risposta: «uno è stato ucciso nel marzo 1980 in un blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa in via Fracchia, l’altro è in carcere da più di 30 anni».
Accade così che vi sia una realtà virtuale tutta in bianco e nero, quella raccontata da Vespa, che narra un paese rovesciato dove il crimine se la passa liscia e le vittime non trovano giustizia. E poi il mondo reale come quello descritto nel VII rapporto sulle carceri italiane presentato ieri mattina a Roma dall’associazione Antigone. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. Niente a che vedere con le cifre ascoltate nel salotto di Vespa. I semiliberi sono appena 877. Alla faccia del carcere che mette fuori facilmente. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due-tre anni, sono 12.492. Tra questi quelli che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea. 113 i morti in carcere, di cui 72 suicidi e 18 ancora da accertare. Nei primi 9 mesi del 2010 i suicidi sono già a quota 55. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7% i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio. Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente. Quelli che da Vespa non vedremo mai.

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Cronache carcerarie
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili